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Una vita vissuta a servizio del dialogo, della pace, della gioia e dell’amore

Da Nesti

APRIRSI ALLA VITA

Crediamo che una vita vissuta a servizio del dialogo, della pace, della gioia e dell'amore valga veramente la pena di essere vissuta. Questo è il senso profondo della vita di Manuela Sadun Paggi, autrice del nuovo libro delle Edizioni La parola. Vi chiediamo quindi di leggere con benevolenza queste poche parole introduttive. Grazie. TWIMC

IL LIBRO
Forse… ciascuno di noi ha una missione esclusiva e segreta da compiere e viene sulla terra per questo e quando la missione è compiuta non c’è più scopo di rimanere sulla terra e il Signore ci chiama a sé…. | La missione segreta è imparare a vivere consapevolmente, con attenzione, disciplina, esser presenti dove siamo. Attraverso il nostro modo di essere e di fare, siamo anche come messaggeri; quello che facciamo nella nostra vita è molto importante per noi e per gli altri: ogni gesto influisce a catena sulla nostra e sulla vita di tutti. Siamo tutti collegati e interdipendenti. Siamo comunque dei messaggeri soprattutto per chi vuole vedere e ascoltare.

L’AUTRICE
Manuela Sadun Paggi, ebrea fiorentina, insegnante e scrittrice, è da decenni impegnata nel dialogo interreligioso e interculturale per la ricerca della pace. È presidente dell’Amicizia ebraico-cristiana di Firenze e partecipa ai Colloqui di Camaldoli, alle Sessioni del Sae e ai Convegni dell’ICCJ. È autrice di Dialogo guarigione del mondo (Emi 2002)  e Guarire le ferite (Emi 2005).

PREFAZIONE
Brunetto Salvarani

NOTE TECNICHE
Pagine: 172; Prezzo: € 15; codice ISBN:  978-88-95120-25-6

Una vita vissuta a servizio del dialogo, della pace, della gioia e dell’amore

APRIRSI ALLA VITA, UN CASO SERIO

In un libro fondamentale per l’identità ebraica, il Talmud, si narra che, quando il bambino che sta per nascere è ancora nel corpo della mamma, una luce gli splende sul capo ed egli apprende tutta intera la Torà; mentre arriva il momento di uscire all’aria del mondo, però, sopraggiunge un angelo che gli posa le dita sulle labbra, affinché dimentichi tutto e non possa parlarne, in futuro. Come va intesa questa curiosa informazione? E perché occorre che il futuro neonato impari prima tutto, per poi dimenticare tutto? Secondo un’interpretazione dei mistici chassidici, il senso sarebbe il seguente: se non ci fosse la dimenticanza, l’uomo penserebbe continuamente alla propria morte, non costruirebbe case, non si affaccenderebbe su nulla, non parlerebbe con gli altri, e neppure s’innamorerebbe… perciò Dio ha posto nell’uomo la dimenticanza! Per questo un angelo è incaricato di insegnare al bimbo, affinché impari il più possibile! Ma un altro angelo è incaricato di chiudergli la bocca, perché dimentichi quanto aveva imparato (1).

La suggestiva parabola espone una nozione cruciale per la tradizione d’Israele, costantemente sospesa nella scelta – rivelatasi lungo la storia non di rado traumatica – fra memoria ed oblio. Parafrasando la litania dei tempi del biblico saggio che va sotto il nome di Qohelet, verrebbe da dire che “c’è un tempo per fare memoria, e un tempo per astenersi dal ricordare”. C’è un tempo per fare memoria, perché quanto è accaduto non abbia mai più ad accadere, e un tempo per astenersi dal ricordare, per non vedersi inchiodati ad un passato che va superato, e messo in discussione. Per non farne un idolo, come tutti gli idoli, illusorio e inutile, oltre che dogmatico. Mi è tornato alla mente, il passo talmudico sopra citato, scorrendo le pagine dell’amica Manuela Paggi Sadun: pagine dense eppure leggere per la forma adottata, incentrate, mi pare, in primo luogo alla necessità di preservare una memoria viva e pericolosa, in una stagione smemorata e densa di quelli che la Bibbia chiama “giorni cattivi”.

Sono pagine preziose, talora persino urticanti, ma sempre dotate di parresìa, di franchezza, per fortuna, nell’affrontare temi delicati quali – alla rinfusa – il bisogno di dialogo fra le religioni, il ruolo dello stato di Israele, la funzione dell’ebraismo e delle comunità ebraiche nel nostro tempo. Temi che l’autrice, ben nota per l’infaticabile impegno pacifista e dialogico, pone sotto due slogan davvero forti: l’invito reiterato ad aprire i cancelli, senza cedere alle pur legittime paure e alle chiusure identitarie, oltrepassando i confini abituali, perché il mondo è uno e la sua salvezza può avvenire solo se ci salveremo assieme; e quello, squisitamente biblico, di “cercare lo shalom del paese” (Ger 29,7), una pace che non è solo assenza di guerra bensì allegria, convivialità delle differenze, apertura mentale e di cuori.

Geremia, qui, reinterpreta l’esilio a Babilonia quasi si trattasse di un nuovo esodo, di un nuovo inizio per il suo popolo: Israele si trova in mezzo ai goyim, ben distante dalla terra della promessa, senza il tempio, ma è proprio in quella situazione drammatica che potrà ritrovare il senso autentico della propria vocazione. Moltiplicarsi nella terra del nemico, favorire la prosperità di chi ha operato per annientarlo, ecco la ricetta paradossale che Dio ora affida ai suoi. Beninteso, con una promessa per il futuro: chi sceglie di conservare tutto e resta attaccato a un passato glorioso ma irrimediabilmente trascorso rischia di perdere anche se stesso, mentre chi è disponibile a perdere ogni bene materiale riavrà i suoi giorni e anzi li conquisterà come preda di guerra, dimostrandosi in tal modo il reale vincitore (è il tema, così caro al profeta, della “vita come bottino”, che torna ripetutamente nella sua predicazione). E a nulla serve l’illusione di poter riprendere in fretta le consuetudini amate: la circoncisione, le preghiere, i sacrifici, in quel frangente, andavano consegnati al passato. Israele era, in esilio, chiamato a reinventarsi da capo stili di vita, codici comportamentali, linguaggi. Con coraggio, senza timore, accettando il rischio dell’incertezza: anche se il nuovo, lo sappiamo bene, in genere fa paura e ci rende spaesati.

Nel suo itinerario, Manuela incontra una serie di figure che molto ama e che sono ancora in grado di fornirci delle chiavi di lettura importanti per l’oggi: da Buber a Panikkar, da rav Hartman a Etty Hillesum. E parecchi altri. Mi viene in mente Barbara Spinelli, che col suo bel libro Il sonno della memoria si è proposta di ridestare “il coraggio e non il culto della memoria” (2).

Come scrive la giornalista, infatti, “i giganti sono le nostre storie, i successivi e contraddittori volti che abbiamo avuto in passato e che ci portiamo dietro come bagagli. Dalle loro alte spalle possiamo vedere un certo numero di cose in più, e un po’ più lontano. Pur avendo la vista assai debole, possiamo, con il loro aiuto, andare al di là della memoria e dell’oblio”. E lo storico del pensiero David Bidussa, secondo il quale, nonostante il moltiplicarsi di iniziative pubbliche, di impegno da parte di scuole, insegnanti, operatori culturali, amministratori, il 27 gennaio, Giornata della Memoria, rischia ormai la musealizzazione (3).

Il fatto è che, secondo Bidussa, quel giorno ha un contenuto più problematico rispetto a quello che normalmente gli è attribuito, da vari punti di vista. Soprattutto, la Giornata della Memoria non è il giorno dei morti, per cui esiste già una data (il 2 novembre) nel nostro calendario civile e pubblico, e non vi è alcun bisogno di duplicarla. Il 27 gennaio è invece il giorno dei vivi: della memoria per i vivi e non della commemorazione dei morti. E affinché un evento acquisti il carattere pubblico per una comunità occorre che si costruisca la consapevolezza di un lutto, e dunque di un vuoto. In altri termini, di qualcosa che segni collettivamente uno scarto tra prima e dopo. La memoria pubblica altro non è che la consapevolezza di quel vuoto. Un aspetto drammaticamente divenuto attuale nel silenzio di (quasi) tutti noi di fronte – ad esempio – ai tragici fatti del Rwanda tra il 1994 e il ‘95, e nella guerra ai civili e ai laici nell’Algeria degli anni Novanta. Due casi emblematici in cui non si è attivata memoria. Né allora, né finora. Il possibile indebolimento della Giornata della Memoria nel tempo risiede qui: nella sua trasformazione in icona e, contemporaneamente, nel suo possibile congelamento in un ricordo senza relazione con il presente. Più precisamente: con la storia nazionale al presente. L’imperativo per allontanarsi dalla retorica è infatti la fuoriuscita dalla metafisica (sia quella del male, sia quella dei diritti umani, che sono una conquista e una replica al male avvenuto e non una rivelazione) per entrare in una dimensione storica, concreta, viva, e proiettata al futuro. Cosa che Manuela Paggi Sadun sa bene.

Una narrazione autentica, pericolosa, e capace di effetti critici, inizia quando la persona diventa capace di assumere il ruolo degli altri e contemporaneamente guarda se stesso dal loro punto di vista: essa si colloca infatti al cuore del conflitto tra i bisogni di appartenenza e le aspirazioni al cambiamento, svolgendo un ruolo liberatorio di accomodamento, di interdipendenza e integrazione. A partire dalle tesi di questo volume, mi convinco una volta di più che la strada sempre più urgente di una seria pedagogia interculturale troverebbe così vigore dal suo innesto con quella di una seria pedagogia della memoria.

Per chiudere queste brevi annotazioni, tenendo socchiusa la porta, è per me inevitabile ripensare al fatto che proprio all’immediata vigilia del 27 gennaio 2007 sia improvvisamente scomparso Emanuele Lele Luzzati: un artista, genovese ed ebreo, tanto grande quanto umile. Il quale ai temi della memoria ha dedicato tanta della sua produzione: anche se gli piaceva sottolineare che “la memoria è una cosa fredda, mentre il racconto è caldo: è tutta la vita che racconto, io che sono così avaro di parole…”. Dove l’avverbio utilizzato, improvvisamente, non è casuale, pur se riferito a un uomo entrato da tempo nel suo ottantaseiesimo anno d’età: perché Lele, fino all’ultimo, è apparso ai tanti che lo incontravano quotidianamente pieno di vita e di progetti per il futuro, come un giovane. Quale egli è rimasto, senza mai cedere ai rituali dei vecchi. Mi permetto un ricordo personale, avendo avuto la fortuna di lavorare con lui qualche anno fa, in occasione della creazione della Biblioteca Ragazzi della mia città, Carpi (nei pressi della quale sorge l’ex campo di concentramento di Fossoli), intitolata Il falco magico dalla sua leggenda di formazione, di cui egli ideò il logo e tutto l’arredamento. Fu allora che – vedendolo quanto mai curioso e disponibile a mettersi in gioco – mi sorse spontaneo dirgli che, più che ottant’anni, mi sembrava avere quattro volte vent’anni (vale a dire l’augurio che era stato per Bruno Hussar, il fondatore di Nevè Shalom – Waahat as- Salaam da parte dei bimbi di quel Villaggio della pace). Strappandogli, nella sua sobrietà, un sorriso di giusto compiacimento.

Grazie, Manuela, per il tuo coraggio e la tua pazienza. Non so se posso chiamarti sorella maggiore (so bene che la definizione, che parafrasa quella di Giovanni Paolo II il 13 aprile 1986, al Tempio Maggiore di Roma, è gravida di ambiguità); però ti sento tale, e auguro volentieri buon cammino a te e a queste tue note, sperando che trovino ascolto e producano dibattito. Due cose di cui oggi abbiamo un tremendo bisogno, indispensabili come sono per aprirsi alla vita.

Brunetto Salvarani

Note:
(1) Talmud Babilonese, Niddà 31 a.
(2) B. SPINELLI, Il sonno della memoria. L’Europa dei totalitarismi, Mondadori, Milano 2001.
(3) D. BIDUSSA, Dopo l’ultimo testimone, Einaudi, Torino 2009.


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