Università italiana, non pervenuta. Parlano chiaro le stime: il 24% degli iscritti alla facoltà di giurisprudenza sarà disoccupato, a un anno dalla laurea.
Nella classifica diffusa da Almalaurea, la top 10 delle facoltà che portano alla disoccupazione è il regno degli studi umanistici: lettere, lingue, arte e desing, sociologia…
Incrociamo qualche dato: per numero di iscritti, giurisprudenza è la terza facoltà più popolata d'Italia, con circa 210.000 studenti. Lettere, che la segue a ruota occupando la quarta posizione, è invece la terza tra le università che meno avvicinano al mondo del lavoro. Ancora, Scienze della Formazione, settima per numero di iscritti, è sesta nella classifica di Almalaurea.
E sempre Almalaurea fa questo identikit del disoccupato italiano: «Giovane laureato del sud, più o meno sui 25 anni, con una laurea magistrale o triennale che sia, possibilmente in giurisprudenza».
Può essere un duro percorso quello verso la laurea in Legge, come dimostra l'alto tasso di abbandono, ma le soddisfazioni non arrivano nemmeno dopo il titolo. «Vita da professionisti», ricerca dell'Associazione Bruno Trentin recentemente presentata a Roma, svela dati agghiaccianti: gli avvocati italiani vengono pagati puntualmente solo una volta su tre, e quando anche riescono a ricevere un compenso, la metà di loro non arriva a 15.000 euro all'anno. E l'università? Se è vero che non tutti gli iscritti a Giurisprudenza diventano avvocati (è il mio caso), è vero però che tutti gli avvocati italiani sono usciti dalla facoltà di Giurisprudenza.
Sorgono alcune domande: perché una delle professioni più illustri di un tempo è ridotta a una palude tra disoccupazione e stenti? Di chi è stata la responsabilità? Cosa potrebbe fare l'università per evitare questo degrado? Le prime due domande non hanno una risposta. Si può provare però a rispondere alla terza. Ecco un breve elenco di proposte:
- L'ordine degli avvocati (ma anche dei notai o una rappresentanza della magistratura) potrebbe dare un'idea di cosa sia il mercato del lavoro (questo sconosciuto) una volta finita l'università, o, prima di tutto, parlare della professione (quest'altra sconosciuta) che, come sa bene ogni praticante e come dimostrano i 18 mesi di pratica prima di poter aspirare all'esame, ha poco o nulla a che vedere con gli interminabili esami di diritto positivo;
- La dote più preziosa per un giurista è la logica giuridica, la capacità cioè di cogliere la conseguenza più opportuna da una serie di premesse che a loro volta devono essere dimostrate con ragionamenti chiari ma sottili: perché l'università non prevede dei corsi obbligatori in cui si allena la logica degli studenti? Questo potrebbe permettere di imparare più velocemente studiando di meno e investire il tempo risparmiato in esercitazioni pratiche, come dibattiti o seminari di approfondimento;
- Un buon numero di esami potrebbe essere sostituito da un'esperienza pratica di alternanza università/lavoro in studio o presso un'azienda, meglio ancora se in apprendistato;
- L'università potrebbe chiedere maggior coinvolgimento al mondo del lavoro, per proporre un numero di esami opzionali o dei corsi avanzati, scelti soprattutto sulla base del manuale più recente pubblicato dai professori, tarati sulle indicazioni delle aziende o degli studi della zona: ad esempio si potrebbe puntare su reati aziendali piuttosto che su diritto amministrativo europeo, oppure su materie come economia aziendale o introduzione alla gestione del personale.
In sintesi la risposta potrebbe essere: l'università dovrebbe iniziare ad accorgersi che la maggior parte dei suoi utenti vuole entrare nel mercato del lavoro e da questo fare le dovute considerazioni. Prima tra tutte, quella di riprendere un dialogo ed essere un interlocutere credibile verso il mondo cui tendono i propri iscritti.
Simone Caroli