I due registi, sicuramente dotati, tentano l'impresa di svecchiare il gangster-movie intersecando due piani temporali contrapposti: la spasmodica ricerca del successo nel passato da una parte e la desolazione statica ed eterna del carcere dell'oggi dall'altra. Tuttavia si evidenzia sin da subito un certo scompenso tra la condizione di semi-ergastolano del Perrone - che viene liquidata con qualche frame finto-poetico - e il frisson dell'ascesa al potere, oggettivamente attraente dal punto di vista visivo e inoltre giustificato dalle evidenti necessità di ritmare il racconto (ma non dimentichiamo che Quei bravi ragazzi, capolavoro assoluto del genere, riusciva a comunicare al contempo l'eccitazione dell'illegalità e la noia della vita in galera in una perfetta, armoniosa giustapposizione).
Sono peraltro sicuramente encomiabili i tentativi di declinare in chiave levantina gli scenari tipici del filone, con splendide panoramiche sul mosaico di tetti imbiancati dell'entroterra del Salento e vedute mozzafiato dell'azzurrità del mediterraneo, con l'irruzione inaspettata di begli squarci folkloristici (l'improvviso transito di una processione per le vie del paesello, le decine di venditori ambulanti sugli Apecar semisfasciati). Anche l'utilizzo ricorrente di caratteristi lombrosiani per definire la serqua di personaggini secondari risulta assai vincente (uno su tutti, il bravo Danilo De Summa, efficace faccia da brindisino che da anni arricchisce pellicole di questa genia col suo grugno folle e incarognito). Il vero problema risiede semmai nello sviluppo narrativo, sovente denso di vuoti e incongruenze: dalla bella Valentina Cervi/Daniela che in alcuni momenti sembra perfettamente integrata nell'ambiente del marito e in altri rivendica per sé il ruolo di moralista, al suicidio del giovane lestofante Gianfranco e al presunto tradimento di Daniele. Moltissimi sono gli spunti creativi interessanti, che restano però spesso marginali o messi a fuoco malamente: la desaturazione della fotografia mano a mano che il protagonista cade nell'abisso del Male, il racconto in voce-off che poteva risultare epico e invece rimane didascalico: insomma una pellicola che - si avverte - poteva essere tanto di più e che per certi versi resta un'occasione sprecata. Fine Pena Mai si dimostra dunque, al netto di molte imperfezioni, opera d'un certo interesse: per il valore intrinseco della tematica (la nuova criminalità che infestò la vergine Puglia), per la prova dei due protagonisti (Santamaria è sempre bravo, e ha imparato bene il dialetto locale) e infine perché si tratta di un’opera di una coppia di giovani registi che sanno di poter sbagliare perché hanno molta strada da fare.