Carcere: l'esperienza a Roma di un giovane prete, d. Marco Di Benedetto
Sono rientrato da pochi minuti nella mia stanza a Roma dove mi trovo da ormai due anni per studiare Liturgia. E ci rientro come ogni mercoledì sera dal carcere di Rebibbia “Nuovo Complesso”, dove due volte alla settimana passo qualche ora insieme ai detenuti e al personale dell’istituto in ascolto delle storie e dei bisogni di molti di loro e per celebrare l’Eucaristia domenicale nel “mio” reparto, il G9, composto di quasi 400 uomini detenuti con condanne che vanno da pochi mesi all’ergastolo (in gergo: “fine pena mai”). Ho condiviso questa esperienza anche con don Francesco Pesce, ora rientrato in Diocesi: da parecchio tempo desideravamo scrivere a Vita per condividere con i suoi lettori un pezzetto prezioso della nostra avventura romana, da cristiani e preti della Chiesa di Treviso.
I dati oggettivi, i numeri sulla realtà e condizione carceraria in Italia sono a disposizione di tutti, non è il caso di elencarli (e le comunità cristiane credo non possano ignorarli!). Ci premeva di più condividere qualcosa dell’esperienza vissuta nel momento in cui quei numeri e quell’elenco di problemi sono diventati per noi incontro e scontro con persone in carne e ossa, trafile burocratiche, attese snervanti, telefonate impegnative coi famigliari, parole bisbigliate, parole gridate, omelie contestate, abbracci sorprendenti. Abbiamo iniziato il servizio quasi per una inconsapevole sfida con noi stessi, come se volessimo metterci alla prova in una situazione “estrema”. Abbiamo invece incontrato nient’altro che l’umanità, forse più nuda, sicuramente più rude, a tratti fastidiosa e riluttante, eppure sorprendentemente accogliente e solidale. I colori, gli odori e i suoni del carcere ci hanno presi per mano appena entrati e, se c’era in noi qualche vaga presunzione di entrare per insegnare qualcosa, ci siamo trovati immediatamente seduti all’ultimo banco, costretti ad imparare giorno dopo giorno i linguaggi e i tempi della vita detenuta.
Personalmente, tre cose di questa esperienza mi hanno impressionato e ancora mi inchiodano con le spalle al muro: le “domandine” che ogni detenuto deve compilare per cercare di ottenere qualsiasi cosa, la solidarietà che i poveri hanno verso i più poveri, le lacrime di uomini più grandi di me che mi affidano la loro vita al primo colloquio.
Ma l’elenco potrebbe continuare: vedere una sala con 20 materassi per terra e l’unico water che non funziona o celle da 4 dove vivono in 6; essere chiamato da persone sfigurate da ascessi ai denti che nessuno cura, raccogliere lacrime di padri che non possono vedere i figli piccoli per mesi solo perché c’è un banale errore burocratico che nessuno pare poter risolvere; ascoltare, come mi è capitato in questi giorni, la disperazione di un giovane di 28 anni che ha tentato di farla finita due volte nel giro di una settimana, pentito di non esserci riuscito e non aver portato a 58 il numero dei suicidi nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno (l’ultimo a Bologna proprio poco fa, prima di mettermi a scrivere); telefonare alle mamme, alle mogli, ai figli di questi uomini e ascoltare le loro storie, che spesso sono le storie di altre vittime di una colpa non sempre così facile da attribuire; accorgersi delle reali condizioni di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria e respirare con loro il clima che c’è lì dentro; vedere che di solito la povera gente paga le pene anche di chi, grazie a mezzi diversi, riesce spesso a farla franca…
E in mezzo a tutto questo, in quella stanzetta sottoterra, una sorta di catacomba che la recente alluvione a Roma nel mese di ottobre ha trasformato in una fogna - tanto che da un mese siamo senza banchi e sedie…- ogni domenica si celebra l’Eucaristia. Si ascolta “Ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Brividi. Poi si prende il pane, si rende grazie, lo si spezza sull’altare e lo si condivide. Capogiri da libertà inattesa! Molto di più che con una laurea in liturgia, in questi due anni di “reclusione” ho imparato, anche nella fatica di gestire le celebrazioni “al fresco” (e d’inverno non è una metafora), cosa possa diventare l’Eucaristia nella vita delle comunità e nella storia personale: forza di riscatto (“in remissione dei peccati”), sorgente di una libertà che nessuno può arrestare (“offerto/versato per voi”), principio di una giustizia universale (“per voi e per tutti”), promessa di vita sensata (“fate questo in memoria di me”).
In queste Eucaristie in carcere mi trovo spesso a pensare e a pregare per chi è stato vittima dei reati di cui molti di quei detenuti sono colpevoli. Il dramma di chi subisce qualsiasi tipo di violenza e le conseguenze anche irreparabili di certi reati, insieme alla loro domanda di giustizia, va custodito come un tesoro, rispettato, compreso e accompagnato. Davanti a quel pane spezzato resta tuttavia anche la vita di coloro che, come cantava De André, ”se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo” e pure questa va custodita, rispettata e rilanciata in avanti con amore e con creatività.
Poco fa sono uscito in strada, ascoltando i soliti 7 cancelli sbattersi dietro di me, col cuore carico delle storie ascoltate, e mi sono chiesto se la giustizia sia solo qualcosa da chiedere quando viene a mancarcene improvvisamente il sapore, cioè quando veniamo colpiti, derubati, feriti, oppure non sia anche qualcosa da piantare, con pazienza e assiduità nel nostro giardino feriale, perché in tanti possano gustarne sempre di più i frutti maturi. Sono convinto che anche questo vuol dire “ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.
(don Marco Di Benedetto)
Segnalato da Samanta Di Persio , autrice dl libro " LA PENA DI MORTE IN ITALIA