di Cristiano Abbadessa
Ricordo che mi impressionava molto, a inizio anni novanta, la serena disinvoltura con cui rimanevano al comando i leader dei partiti che di punto in bianco rinnegavano la loro storia e si ripittavano con un nuovo nome e una nuova missione. Uno era stato dirigente per decenni del partito comunista, poi un bel giorno guidava la trasformazione dicendo “cari compagni, oggi non siamo più comunisti, ma socialdemocratici”: il che, a ben vedere, avrebbe dovuto tradursi in una presa d’atto dei propri errori o delle proprie illusioni, portando a un ritiro a vita privata che invece non arrivava. Un altro era stato neofascista o postafascista, poi cambiava nome al partito, cancellava il simbolo e arrivava a dichiarare che il fascismo era il male assoluto; ma restando ben saldo alla guida della formazione politica. Ingenuamente ho sempre trovato inspiegabile questa disinvoltura. Perché il leader di un partito dovrebbe essere colui che meglio incarna i valori e le pratiche politiche in cui si riconoscono militanti ed elettori, e se i valori e le prassi vengono azzerati, stessa sorte dovrebbe seguire quel leader che ormai non rapresenta più nulla. Invece no, rimanevano (e rimangono tuttora) leader assoluti, quasi a testimoniare che la loro virtù sta in un presunto saper vendere un prodotto politico, non importa quale, con abilità da strateghi del marketing privi di qualsiasi ancoraggio etico o ideale.
Poniamo, per esempio, un grande editor che per una prestigiosa casa editrice cura e anima, che so, una collana di saggi dedicati alla filosofia teoretica. Immaginiamo che lo faccia da decenni e che si sia sempre ispirato al rigore scientifico e al rispetto della complessità della materia, che abbia sfornato titoli di prestigio ma per pochi eletti, che abbia rappresentato coi suoi prodotti (e mai li chiamerà così) una cultura alta e un po’ paludata, magari anche spregiosa delle masse. Supponiamo che ora l’editore voglia svecchiare la collana, mantenendo il tema ma passando a un intento più divulgativo, adeguando in tal senso la scelta degli autori, il linguaggio e magari anche la veste grafica e la struttura. La prima cosa da fare, secondo logica, è cambiare editor, prendere qualcuno che abbia sì altrettanto robusta conoscenza della materia ma che sia in sintonia coi nuovi intenti, e che sappia quindi tradurli in pratica nel migliore dei modi. Dovrebbe andare così, e invece spesso così non va.
Capita perciò che, magari come consulente, o con altra veste prestigiosa seppur teoricamente defilata, il vecchio editor resti a vigilare, e con la sua lunga esperienza e forte personalità finisca per pevalere sul formale successore. Immaginate quale sintonia col nuovo corso possono avere il vecchio barbogio o la vecchia carampana che da trenta o quarant’anni procedono per granitiche certezze immutabili. Il riciclato di prestigio finisce così, nel migliore dei casi, per essere un elemento frenante, un costante disturbo. Ma può anche andare peggio: perché il vecchio artefice, giustamente incapace di mutare punto di vista e di scoprire nuove sensibilità, potrebbe persino acconciarsi fin dove possibile per contribuire al rinnovamento, finendo inevitabilmente per percepire e sponsorizzare solo gli aspetti più esteriori e deteriori del nuovo corso, digerendo le forme più superficiali e modaiole (che lo hanno colpito), ma senza alcuna capacità di ripensare nel profondo l’oggetto della speculazione. Insomma, il rischio è quello di arrivare a un prodotto senz’anima e senza logica. Come, puntualmente, spesso avviene quando si danno casi di questo tipo.
Poiché, in editoria come in politica, questo sopravvivere a se stessi è a mio avviso uno di quegli specifici deleteri che condannano l’Italia all’inesorabile declino, faccio una solenne promessa.
Autodafè è nata per pubblicare narrativa attenta alla realtà sociale dell’Italia contemporanea. Di questa casa editrice sono il direttore editoriale, funzione che, tra le altre cose, comporta la scelta dei titoli da pubblicare. Dovesse un domani la compagine societaria (per pura ipotesi) stabilire che dobbiamo pubblicare una narrativa più intimista e introspettiva, lascerei immediatamente il mio ruolo. Perché ci sarebbero persone molto più brave di me a fare questo tipo di scelta, e perché sono colui che con più forza ha creduto in una precisa scelta editoriale che è anche valoriale. Soprattutto, farei spazio ad altri perché non credo che esistano uomini (o donne) per tutte le stagioni.