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“Uomini senza vento” di Simone Perotti

Creato il 09 marzo 2011 da Sulromanzo

Uomini senza ventoC'è chi ha il coraggio di strambare.

“Ultimamente a Milano tutti vogliono smettere di lavorare, aprire un piccolo bar sulla spiaggia... Quando lo dico mi faccio pena... Capire che sono come tutti gli altri mi fa tremare. Nessuno di noi ce la farà”.

Lo dice Renato, protagonista del romanzo scritto da uno che invece ce l’ha fatta. Simone Perotti lo ha raccontato in prima persona nel suo precedente libro, Adesso Basta. Lasciare il lavoro e cambiare vita. Filosofia e strategia di chi ce l’ha fatta” (Chiarelettere, 2009), un saggio diventato il manifesto del “downshifting”, il fenomeno sociale che invita a scalare marcia e abbassare lo stipendio per guadagnarci in libertà. L’opera, da cui sarà tratto un film per il cinema, è stata acclamata da alcuni come un geniale manuale d’ispirazione e additata, da altri, come l’ennesima operazione di marketing un po’ snob. Certo, l’impresa proposta non è per tutti. E neppure per molti. Senza contare lo smacco dei tanti che un lavoro nemmeno ce l’hanno!

Dirigente d’azienda dopo una scalata di vent’anni, il genovese Perotti ha mollato una vita ai cento all’ora per dedicarsi alle sue passioni: scrivere e navigare. Non senza ostacoli, materiali e psicologici. La prima battaglia è quella contro lo spettro dei soldi. Poi devono cadere le paure ataviche di essere liberi. Sì, perché la tanto anelata libertà, lo spiega bene in Uomini senza vento, “non lascia attenuanti”.

“Smettere di lavorare mi fa paura perché non avrei più un alibi e non potrei dire che non ho tempo. Dovrei fare qualcosa, quello che mi piace davvero. In un labirinto privo di soluzione, anche questo sarebbe un impegno, e dei peggiori: con la mia coscienza”.

Il trentottenne Renato, con il “neurovegetativo labile” e il suo disagio epocale, impersona la maturazione romanzata dell’esigenza dell’autore di rallentare ed evadere la meccanicità della vita postmoderna. Lo conosciamo a Portoferraio mentre arma Makaia, la sua amata barca a vela, per una breve vacanza a Ponza. É allarmato dalle misteriose telefonate dell’amico Antonio, marinaio filosofo che vive in un eremo a picco sul mare, fra le parole di Pessoa, Hemingway e Neruda scritte a vernice sull’intonaco dei muri levigati dal tempo e dal sale. La sua voce agita la notte milanese di Renato. Sull’isola ci sono strani movimenti: “Le notti se ne vanno e l’isola affonda, Renà. . .”.

In pochi giorni Renato si troverà coinvolto in un intrigo internazionale di baleniere, navi nere, trafficanti, ambientalisti fondamentalisti e collusioni politiche. L’imprevista vicenda sarà l’occasione per trovare il coraggio di scalare marcia e uscire dall’autostrada della vita impostata sul consumo e sugli orari prestabiliti.

Oltre a essere un noir mediterraneo, Uomini senza vento è anche una dichiarazione d’amore per la barca a vela. Sulla First 36.7 di Renato, “una barca nata per correre, che non ama il mare grosso”, si celebrano le vibrazioni di un’andatura, la concitazione nel pozzetto durante una virata e l’intimità delle rotte tracciate nel quadrato sottocoperta: una goduria per qualunque velista. Il canale 16, “la voce del mare”, fa da colonna sonora all’inchiesta che intreccia il romanzo: la denuncia della caccia illegale alle balene. L’acqua che rimane rossa per giorni e ribolle di pesci nel tratto dove avviene la macellazione: “Quello che era un animale enorme, pacifico, armonioso, diventa un brodo viscido...”.

 Ricalcando l’annosa questione di Moby Dick, Perotti si interroga sul perché l’uomo dia la caccia alle balene. Attrazione per l’ambra grigia, l’elisir racchiuso in alcuni feromoni prodotti dalle viscere dei capodogli? Oppure il piacere di abbattere il più grande essere della terra e dei mari che, seppur innocuo, incarna la nostra piccolezza? Secondo Perotti la tragedia umana si riassume nell’aver smarrito quello sguardo di meraviglia e paura davanti all’immensità del creato:“Smettere di temere i grandi cetacei, sentirsi oltre ogni sfida con il mondo animale, è stata la nostra rovina”.

L’autore registra anche l’inspiegabile mancanza di una vera tradizione marinara in Italia e, di riflesso, l’assenza di una buona letteratura di mare. Pur essendo “un molo lanciato nel Mediterraneo”, con una schiera di grandi esploratori (Colombo, Vespucci, Polo e Caboto), com’è possibile, si chiede Perotti, che l’Italia non abbia prodotto nessun Conrad, nessun Melville, nessun Hemingway?

Riconosce in Montale, Verga, D’Annunzio ed Eco, tra gli altri, uno sguardo teso verso il mare ma “amante della sabbia più che dell’onda”. Ricorda un “immaginifico Salgari”. Si chiede perché l’universo culturale che aveva prodotto l’Odissea non avesse contaminato gli italiani.

Il verdetto è infausto: “Un paese che non racconta storie su un pezzo così importante della propria vita è un paese che sta mentendo sulle proprie origini”.

Tra le altre riflessioni di spessore destate dal romanzo, con il suo dilatare realistico delle relazioni interpersonali, mi restano due curiosità frivole.

1.) Sarà riuscito Perotti a stipare nella cucina basculante della sua barca a vela tutta la scorta di acciughe sott’olio che la Rizzoli gli avrà probabilmente inviato per ringraziarlo della citazione come “l’azienda che inscatola le migliori acciughe”?

2.) È stato il mal di mare o un ammutinamento del correttore di bozze a provocare i troppi refusi in cui sono annegati gli accenti di diverse parole?


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