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Vi ho lavorato per trent’anni, per me è stata una seconda famiglia – racconta Roberta Bonelli, romana, età 51 -. Entrai a far parte della Polizia di Stato in quei terribili Anni di Piombo ed io stessa provenivo dagli ambienti del Fgci, l’organizzazione giovanile del Partito Comunista. Il 1977 era un momento storico pieno di conflittualità e di contraddizioni, quindi di dubbi, di incertezze e delle mille domande che l’universo giovanile si poneva. Il liceo che avevo frequentato era uno di quelli al centro della bufera, il Paolo Sarpi di via di Santa Croce, dove furono individuati alcuni fra i cosiddetti fiancheggiatori delle Brigate Rosse.
Oltre a ciò che mi accadeva intorno, era radicata in me l’inquietudine di una parte della mia identità che aveva preso come modello anche il genere femminile, in contrapposizione alla personalità che dovevo esprimere nell’ambito delle mie circostanze sociali. Con tutto ciò che questo può comportare in termini di repressione del sé: conflittualità, timori, fobie, interrogativi o, per dirla in breve, disagio e difficoltà esistenziali che si aggiungevano a quelle fisiologiche dell’età adolescenziale.
Avevo comunque maturato la mia intenzione di entrare in Polizia, cosa non molto ambita in un’epoca di pericolo come quella del terrorismo, tanto che la città era tappezzata di manifesti che invitavano i giovani ad arruolarsi tramite incentivi economici, i “premi di ferma” e di “rafferma”.
Il primo ottobre 1978 fui avviato al 59° Corso Guardie di PS presso la Scuola di Vicenza, dove mi trovai con altri compagni di corso, alcuni dei quali, come Maurizio Arnesano e Rolando Lanari, persero la vita in servizio, uccisi dai Nuclei Armati Rivoluzionari e dalle Brigate Rosse. A Lanari è stata intestata la caserma del Reparto Volanti della Questura di Roma.
Terminato il corso venimmo trasferiti proprio a Roma ed in pullman, in prossimità della capitale, apprendemmo dell’assalto delle Brigate Rosse a piazza Nicosia, presso il Comitato Regionale della DC, e dell’uccisione di tre agenti di Polizia.
Fui destinato proprio presso quel commissariato, ma forse per la voglia di libertà e di conquistare la mia dimensione di vita, forse per la mia incoscienza, mi sentivo al sicuro da ogni paura.
Com’era la Sua vita lavorativa nella Polizia?
Ho iniziato come agente a Roma, quindi venni successivamente inviato all’allora 3° Reparto Celere di Milano. Un reparto molto duro, sia come servizi d’istituto che come vita sociale interna; praticamente si era accasermati 24 ore su 24. Fu nella città lombarda che, durante un servizio presso la Squadra Mobile, vidi per la prima volta una persona transessuale. Viveva purtroppo in un grande stato di marginalità sociale, esercitava la prostituzione ed era logorata dall’uso di sostanze stupefacenti, aveva perso molti denti. Era il 1979.
Fui anche a Torino, presso la Criminalpol, ma, non appena fu possibile, tornai a Roma a per frequentare un corso di formazione presso la Scuola Tecnica. Mi specializzai in telecomunicazioni e venni assegnata alla Questura de L’Aquila, dove vi rimasi per diversi anni.
E’ in questo periodo che la polizia è stata interessata dalla legge di riforma che le ha dato giuridicità civile.
Ed è in questo periodo, proprio con la nascita delle prime strutture sindacali, che cominciai a svolgere attività di tutela dei lavoratori. Fui eletta quindi nella Segreteria Provinciale e nel Direttivo Regionale del Siulp.
Tornai poi a Roma nel 1986, presso gli uffici del Viminale ed in seguito presso gli uffici del Capo della Polizia. Si trattava di un ruolo molto delicato, dove la riservatezza era essenziale: lì vi ho prestato servizio per oltre un decennio e lì, relativamente alla mia qualifica, mi venne poi assegnata la responsabilità di diversi uffici. Lavoravo praticamente senza orario, ma con enorme soddisfazione davvero.
Continuavo comunque anche con la mia attività sindacale presso il Siulp, dove improntavo la mia azione sull’accrescere ed ottimizzare l’efficienza del servizio attraverso il benessere del personale.
Mi sono congedata da circa due anni, per motivi di salute, con la qualifica di Sovrintendente Capo, dopo 30 anni di servizio.
Una scelta difficile ma necessaria, immagino…
Ci tengo a precisare che la scelta di congedarmi è stata mia. Prima del 2000 ebbi un periodo di convivenza con una ragazza durante il quale la mia conflittualità interiore si intensificò. Io ho cominciato ad utilizzare abiti femminili intorno ai 6 anni, ma durante questa convivenza presi a sentire in maniera molto forte necessità maggiori, che oggi comprendo essere connesse con il bisogno di realizzazione quindi di riconoscimento sociale. Cominciai così ad uscire e a ricercare anche rapporti sessuali con uomini e troncai il rapporto con la mia convivente.
Mi misi quindi alla ricerca di aiuto, perché non capivo bene cosa mi stesse accadendo e nel contempo avvertivo bisogni che mi ponevano in conflittualità con quanto era considerato convenzionale.
Chiamai il Mit di Bologna e fu Marcella Di Folco, da poco scomparsa, a rispondermi. Mi rivolsi anche al Saifip, il Servizio di Adeguamento dell’Identità Fisica e dell’Identità Psichica, che era da poco istituito presso il S. Camillo di Roma, ma senza riuscire a a fare il primo passo. Poi telefonai alla “Linea Trans”, gestita da Leila Daianis presso il Circolo Mario Mieli di Roma e fu lei che mi diede un sostegno determinante. Oggi sono seguita dal Saifip, ma nella Roma di allora, anche se stiamo parlando di una decina di anni fa, mancavano del tutto i rifermenti culturali e sociali per le persone transgender. Roma era piena di locali e di strutture per gay, ma nulla per le persone transgender. L’unico momento di svago e socialità era dato da Muccassassina, il noto locale della capitale, prima al Cinema Castello e poi al Palladium della Garbatella.
In seguito, con le molteplici possibilità di condivisione e di conoscenza offerte da internet cominciò per me un periodo durante il quale avevo iniziato finalmente a conoscere e a confrontarmi con realtà simili e prossime alla mia: da persone che si travestivano a persone che modificavano stabilmente e definitivamente la propria identità di genere.
Acquisivo quindi anche una diversa conoscenza, scientifica piuttosto che quella corrente basata su quegli stereotipi e su quei luoghi comuni che mi avevano indotto a fobie, al non accettarmi e quindi ad avere comportamenti impropri, estremi ed abusati.
Grazie anche al confronto con le nuove generazioni iniziai un lavoro di elaborazione culturale e di introspezione che mi portò ad avere una consapevolezza di me più chiara e corretta e quindi un modo più sereno ed equilibrato di vivere i rapporti sociali.
Purtroppo le difficoltà sociali ed il fatto che le problematiche connesse all’identità di genere sono considerate ancora aspetti per i quali si può essere congedati d’ufficio, sono aspetti che inducono le persone come me a reprimere la possibilità di una piena e corretta realizzazione, con tutto ciò che ne consegue in termini di benessere personale, di rapporti sociali e quindi di rendimento lavorativo.
L’essere poliziotto, ma con una personalità femminile, non Le ha mai causato problemi sul lavoro?
L’assunzione e la permanenza nel servizio di Polizia, come in generale nelle forze di Polizia o in moltissime altre attività lavorative, comporta una selezione anche attraverso dei test psico-attitudinali che servono per indagare la personalità del candidato.
Aspetti e problematiche connesse con l’identità di genere però, diversamente dall’orientamento sessuale, sono tutt’ora considerate condizioni patologiche e pertanto aspetti per i quali non è possibile essere assunti o permanere in taluni ambiti lavorativi come appunto le forze di Polizia.
Sono aspetti che una persona tende a nascondere. Io penso che un datore di lavoro sapiente, intelligente e lungimirante, in questo caso lo Stato, dovrebbe senza ombra di dubbio preferire un dipendente sereno e soddisfatto piuttosto che in perenne disagio e conflittualità psico-fisica o psico-sociale.
La Polizia, specialmente di qualche anno fa, viene percepita come un ambiente duro, machista. Le ha mai causato difficoltà l’operare a fianco a fianco con i colleghi?
E’ una domanda che palesa le carenze conoscitive degli aspetti e delle problematiche dell’identità di genere comunemente diffuse. Così come non esiste un solo modo di essere donna o uomo in generale o persona omosessuale in particolare, parimenti non vi è un unico modo per il quale una persona sia interessata da incongruenza dell’identità di genere. Vi è chi avverte fin dalla nascita la conflittualità con il proprio corpo, vi è chi sente il problema più avanti con l’età.
Personalmente non ho mai avuto difficoltà nei rapporti con i miei colleghi dovuti a quella parte della mia identità, femminile nel mio caso, che non potevo manifestare.
In realtà il lavoro nella Polizia è un impiego come tutti gli altri ed è sbagliato pensare ad un ambiente ultra militarizzato e machista. Anzi, e posso dire che nella mia esperienza lavorativa di “machi” non ne ho mai conosciuti. Ho conosciuto piuttosto persone vere, con i loro problemi, le loro virtù e le loro debolezze, come pure donne forti, uomini deboli e viceversa.
Dopo 30 anni di servizio sceglie di affrontare la fase della transizione: una scelta libera o un mettere a posto i conti del passato?
Una scelta dovuta, irrinunciabile, ma anche sofferta. Ed anche il termine “scelta” è inappropriato. I margini per esercitare il proprio libero arbitrio di fatto possono diventare piuttosto ristretti e, come ho spiegato, a questo passaggio esistenziale e sociale concorrono diverse circostanze.
Una di queste è l’acquisizione di una chiara e corretta consapevolezza di sé. Scevra e libera cioè da contaminazioni pregiudiziali, da luoghi comuni e da stereotipi e dovuta quindi al sapere scientifico.
Altra circostanza è la consapevolezza del fatto che abbiamo una sola vita da vivere e che non c’è proprio nulla così che abbia più valore che poterla vivere pienamente e liberamente. E per “liberamente” intendo sciolta da imposizioni e condizionamenti culturali che tendono a uniformare l’umanità delle persone piuttosto che a valorizzarne la diversità. Proprio così come la Natura vuole.
La Polizia è un’istituzione amica o nemica dei gay?
La Polizia, come qualsiasi altro ambiente sociale, riflette prima di tutto la società nel suo complesso. Poi sovvengono particolari aspetti a caratterizzare i diversi ambienti sociali quindi i comportamenti e gli immaginari delle persone, mutevoli in relazione alle diverse circostanze sociali, socio-culturali e quindi storiche. Così in diverse circostanze storiche o socio-culturali ogni ambiente sociale ha avuto o ha un suo modello preminente che domina l’immaginario collettivo in relazione a ciò che rappresenta o si vuole rappresenti in quelle determinate circostanze socio-culturali: il camionista, il medico, l’impiegato, il poliziotto, ecc. In realtà ogni persona è prima di tutto dotata di proprie caratteristiche uniche.
Le necessità o le aspettative reali o indotte dai condizionamenti culturali portano ad uniformarsi ad un modello sociale pre-esistente, predominante.
Così in molte polizie di paesi l’omosessualità e la transessualità sono ormai solo due dei tanti possibili aspetti naturali di una persona, spesso tutelati dagli stessi ambienti lavorativi. Ora è la volta dell’Italia. E’ solo una questione di tempo. Perché da sempre il progresso umano, scientifico e culturale, si è dimostrato inarrestabile.
In Italia transfobia e omofobia rappresentano un’emergenza?
Transfobia e omofobia sono un problema civile: sociale e culturale. E il loro livello in Italia non può essere assolutamente accettabile.
Lei è mai stata oggetto di atti transfobici?
Mi è capitato un paio di volte, in maniera evidente e violenta. La transfobia però, come del resto anche l’omofobia, assumono forme e modalità anche più deleterie di un circoscritto atto di violenza fisica.
Secondo me non sono gli atti fobici in sé, sia si tratti di transessuali che di omosessuali. Che sono poi quelli conosciuti e manifesti.
Consideri che una delle mie battaglie consiste nel fare in modo che vengano usati termini lessicali corretti: laddove si parla di “transessualità”, io preferisco utilizzare “identità di genere: le persone sono persone, non solo sessualità.
Il Prefetto Manganelli ha voluto dare un segnale al Paese inaugurando l’Oscad, l’Osservatorio per la Sicurezza contro gli Atti Discriminatori: come vedi quest’iniziativa?
La considero ovviamente un enorme passo storico del progresso sociale e culturale dell’Italia.
Che potenzialità pensa debba sviluppare?
L’Oscad o più precisamente chi lo dirige, secondo me ha di fronte due possibilità di interpretazione dei compiti ai quali questo istituto è stato preposto: lasciare che sia un soggetto passivo oppure attivarsi facendo in modo che svolga un ruolo attivo. Mi spiego: l’Oscad può limitarsi a ricevere possibili segnalazioni di atti di discriminazione. Oppure avere un ruolo di vigilanza attiva, istituendo ad esempio nei vari uffici delle figure di riferimento alle quali il personale possa rivolgersi. C’è da considerare che la discriminazione da una parte può assumere forme e modalità subdole, d’altra parte vi possono essere difficoltà nel denunciarla anche da parte di chi è vittima. Aggiungo però che molto più importante sarebbe una particolare attenzione alla formazione quindi alla sensibilizzazione del personale e quindi corsi già dalla prima formazione e successivamente seminari specifici anche creando una cooperazione con le organizzazioni omo e transessuali. Si potrebbero interessare al progetto anche i sindacati di Polizia
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