Da qualche tempo Moody’s, così come Standard&Poor’s e Fitch, nomi fino a pochi mesi fa pressoché sconosciuti ai non-addetti ai lavori, sono entrati prepotentemente nelle prime pagine di tutti i quotidiani, dominando conversazioni da bar e decisioni finanziarie, quasi come se tutto si fosse appiattito ad un unico livello. Tutta apparenza, ovviamente. In pochi sanno, ad esempio, che Moody’s tiene sotto controllo la situazione economica italiana da venticinque anni. In pochi sanno, ad esempio, che il primo declassamento italiano avvenne nel 1991.
Altra domanda, che dovrebbe essere di dominio pubblico e che dovrebbe anteporsi al lancio furioso di uova contro una vetrina, è l’utilità effettiva di questa valutazione. Per intenderci: a chi serve conoscere la mappatura dei livelli di classificazione? Chi si basa su questi parametri? Ovviamente, gli investitori. Chi mastica finanza, chi investe in titoli di Stato, viene orientato nel valutare possibili rischi e possibili flussi del mercato. Tutto per capire se un paese, una banca, un’azienda o un bond è in grado di ripagare i sottoscrittori. Spiegazione sommaria ma doverosa, onde evitare che si pensi che questi parametri (valutati grazie a laboriosi algoritmi) ci siano davvero necessari per poter analizzare la situazione della realtà quotidiana.
Pensare di accendere il fuoco della rivoluzione occupando Wall Street o lanciando uova contro la sede di un’agenzia di rating fa parte del più atavico cliché reazionario. In questo circo, colorato ma allo stesso tempo decadente, chi contesta un sistema è guidato e controllato dal sistema stesso, che sceglie, come se fosse un gran burattinaio, canali e modi di alimentare la (presunta) protesta. Protesta che altro non è all’infuori di una reazione prevedibile e prevista, oltre che assolutamente inefficace. Chi di voi ricorda “L’Onda”, quella de “la Crisi noi non la paghiamo”, finita ben presto nel minestrone della sinistra politica, fino a chiudersi in una bolla di sapone tesa ad esplodere con il relativo contenuto?
Se poi si analizza con attenzione il caso italiano, si capisce come il trionfo della reticenza “anni ‘70” imperversi ancora in lungo ed in largo. L’errore non è rifarsi a quella generazione. L’errore è scimmiottare gesti e ritualità, senza contestualizzare un processo in un contesto storico molto più saturo e completamente differente. Una rivoluzione dovrebbe nascere dal quotidiano, dallo sconquasso delle coscienze nel loro intimo. Una rivoluzione dovrebbe nascere da una conoscenza approfondita della realtà e del nemico da combattere. Il lancio delle uova a Milano è soltanto qualcosa di estremamente futile ed effimero, che non ha i crismi della rivoluzione, e neanche quelli della rivolta.
Diceva Max Stirner, nel suo L’Unico e la Sua Proprietà: «La rivoluzione mira ad un’organizzazione nuova; la ribellione ci porta a non lasciarci più organizzare, ma ad organizzarci da soli come vogliamo, e non ripone fulgide speranze nelle “istituzioni” … Se il mio scopo non è rovesciare un ordine costituito ma innalzarmi al di sopra di esso, il mio proposito e le mie azioni non sono politici e sociali, ma egoistici. La rivoluzione ci comanda di creare istituzioni nuove; la ribellione ci domanda di sollevarci o innalzarci».
Da qui dunque si può intuire quanto gli episodi di indignazione non appartengano alla categoria della rivoluzione, tantomeno a quella della rivolta. Non c’è nessuna domanda di innalzamento, o di sollevazione. Non c’è nulla. Tutto scorre e va avanti: i moti si barcamenano mordendosi la coda, tra sogni di rivoluzione e scimmiottamenti di rivolta, mentre le uova vengono spazzate via da una spruzzata di sgrassatore e da un colpo di spugna.
(Pubblicato su “Il Fondo – Magazine” del 10 ottobre 2011)