Il primo numero (1° novembre 1952)
Ogni otto giorni correvo in edicola a comprare il nuovo numero di Urania. Negli anni ’60 era settimanale: cinquantadue promesse di meraviglie rigorosamente mantenute.
E tutto cominciava con la sorpresa della copertina. A quell’epoca il disegnatore era Karel Thole. Nei celebri cerchi in campo bianco, l’artista ci dava un vago assaggio della storia, ma soprattutto ci stupiva con quelle immagini fantascientifiche che avevano sfumature surreali. L’occhio veniva gratificato prima della mente.
Correvo a casa e mi mettevo subito a leggere. Ma spesso la giornata era incasinata; allora aspettavo la sera e mi mettevo il libretto sotto le coperte e facevo scorrere le pagine al lume di una torcia elettrica. Non era raro che mi immergessi nella lettura durante i compiti, tralasciando una versione di latino che poi avrei dovuto copiare frettolosamente il mattino dopo dal quaderno di un compagno compiacente. E ci fu quella volta che il professore di filosofia mi beccò mentre sbirciavo un numero di Urania che tenevo aperto sotto il banco: era il modo per sopravvivere a una delle sue micidiali lezioni frontali.
Il bellissimo “tondo” di Karel Thole per la copertina del n. 399 del 29 agosto 1965
Quello che mi capitò la prima volta fra le mani fu il numero 399, del 29 agosto 1965. Era una raccolta di racconti di Ballard dal titolo “Passaporto per l’eternità”. Fu una folgorazione. Ero stufo di leggere romanzi di fantascienza avventurosa per adolescenti, reperiti per lo più nella biblioteca scolastica. Opere come “XP-15 in fiamme” di P. Devaux, oppure “La conquista dell’Almeriade” di H.G. Viot cominciavano a farmi sbadigliare. Ero cresciuto e con me anche la voglia di fantascienza. Il palato si era raffinato, dovevo nutrirmi meglio.
E Urania fu fondamentale.
Di quelle prime letture, capaci di introdurmi in un mondo ricco di immagini e di idee, ricordo altri titoli che nella mia mente riemergono come degli archetipi. Sono ancora in grado di rievocare la paura che mi suscitò “I giganti di pietra” di Donald Wandrei (Urania n° 410), oppure l’agghiacciante sorpresa provocata da “Dalle fogne di Chicago” di Theodore L. Thomas e Kate Wilhelm (Urania n° 436). Ma potrei elencare altri miei incontri con i mondi dell’impossibile o dell’improbabile: “Cronache del dopobomba” di Philip K. Dick (Urania n° 409), “Oltre l’invisibile” di Clifford D. Simak (Urania n° 414), “La casa senza tempo” di A. E. Van Vogt (Urania n° 420).Divenni un appassionato, in qualche modo anche un esperto di fantascienza. E mi misi a scrivere, ispirato da quelle storie incredibili, alcune delle quali divennero classici indiscussi e opere molto valide della narrativa anglosassone.
Nel corso degli anni ’60, la cura del periodico fu affidata a Carlo Fruttero e a Franco Lucentini. Allora i due nomi non mi dicevano nulla; più tardi avrei imparato che l’affidamento era stato dato a due letterati di gran classe, che prima di essere autori erano lettori appassionati e curiosi… sì, anche di fantascienza.
Le pubblicazioni vedevano l’alternanza di queste tre categorie: i romanzi, i capolavori, le antologie. Tre modi per godere della narrazione fantascientifica attraverso la brevità, la novità e la riproposizione di romanzi che erano già entrati nel mito. E poco importava, a quell’epoca, se a volte il testo non era integrale.
Ho continuato a leggere Urania negli anni successivi, ma non con la stessa assiduità. Comunque per me rimase un punto di riferimento.
Oggi, con i suoi 1579 numeri, rappresenta un segno prestigioso per la divulgazione fantascientifica.
Giuseppe Novellino