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USA: Chi sarà il prossimo sfidante di Obama?

Creato il 23 ottobre 2011 da Dailyblog.it @daily_blog

Di Ennio Emanuele Piano il 23 ottobre | ore 10 : 56 AM


USA: Chi sarà il prossimo sfidante di Obama?

Barack Obama non vive, in America, il suo momento migliore. Il tasso di disoccupazione è da mesi al di sopra del 9%, un tasso impressionante che probabilmente potrebbe comprometterne la rielezione. Intanto il suo piano per l’occupazione incontra qualche ostacolo al Congresso grazie all’ostruzionismo repubblicano. Eppure il 44° Presidente nel 2011 ha messo uno dietro l’altro un buon numero di successi: l’uccisione di Osama Bin Laden (il nemico pubblico numero uno), la buona riuscita della campagna in Libia (anche se “led from behind” guidata dalle retrovie), il riavvicinamento dell’America alle masse arabe e il definitivo ritiro dall’Iraq entro al fine dell’anno (deciso da Bush e Al Maliki nel 2008). Ma, purtroppo per lui, la grande questione statunitense, quella che ad oggi sposta i voti degli indecisi, non è la politica di sicurezza nazionale, ma l’economia.

E’ infatti su questo piano che si gioca la sfida tra candidati repubblicani alle primarie per arrivare alle presidenziali del prossimo autunno contro Barack Obama. Secondo gli opinionisti, americani come italiani, il fronte conservatore è però di scarsa qualità. Basti pensare che, ad oggi, il “front runner”, ovvero il candidato di maggior successo, è l’improbabile Herman Cain, afroamericano vicino al Tea Party. Cain non è un politica di professione, e questa è paradossalmente un’arma utile in una società dove l’antipolitica (identificata con la marmorea città di Washington) va per la maggiore; egli viene dal mondo dell’impresa, dove vanta una carriera di successo dapprima come manager della Burger King e poi nella catena “Godfather’s Pizza”. I sondaggi degli ultimi dieci giorni (Rasmussen, PPP, NBC) lo danno in testa di diversi punti rispetto al più probabile Mitt Romney, già battezzato dagli analisti come il candidato “inevitabile”.

Romney, diversamente da Cain, è un uomo dell’establishment: è stato Governatore del Massachusetts (uno Stato di tendenze democratiche) ed ha quindi nomea di politico pragmatico e moderato. Quattro anni fa tentò la candidatura alle presidenziali, ma perse contro il veterano McCain a causa di uno scarso appeal e della poca preparazione; oggi risulta invece il più sicuro e preparato dei competitors repubblicani: sicuro di sé, si giostra piuttosto bene sia nelle questioni economiche che in quelle di politica estera (settimane fa pronunciò un discorso sull’eccezionalismo americano molto ispirato) grazie anche al buon gruppo di consulenti di cui i è circondato. Il punto debole di Romney è l’incapacità di far battere i cuori dell’elettorato conservatore (non può permettersi estremismi, pena perdere elettorato indipendente, quello che decide il nome del Presidente), cui va aggiunta la riforma sanitaria che promosse ai tempi in cui governava il Massachusetts, pubblicamente riconosciuta da Obama come “modello” per quella nazionale. Romney ha però fatto notare, a chi gli faceva notare questa circostanza, che a differenza dall’Obamacare, il Romneycare non “obbliga” nessuno a stipulare una polizza sanitaria pubblica, un distinguo che però non è bastato per renderlo un candidato appetibile per il Tea Party. Ai conservatori religiosi, inoltre, Romney non piace per un motivo cui non ha alcuna colpa: l’essere mormone. I mormoni sono una minoranza che non gode di particolari simpatie né a destra né a sinistra, ed in soccorso dell’ex governatore del New England è dovuto intervenire il congressman indipendente (e già candidato alla vice presidenza di Al Gore) Joe Liberman, sulle pagine del Washington Post, ricordando a opinionisti e lettori che discriminare un candidato per il culto è poco americano e poco liberale.

Probabile terzo incomodo (se Cain dovesse mantenere l’attuale consenso fino a gennaio) dovrebbe essere il Governatore texano Rick Perry: ultrareligioso, antistatalista, un po’ demagogo, solo un mese fa era dato come sicuro vincitore delle primarie (nell’ultimo trimestre ha raccolto ben 17 milioni di donazioni, surclassando gli altri candidati). Con i dibattiti televisivi s’è però rivelato poco convincente, e gli entusiasmi hanno lasciato spazio alla delusione. Perry resta comunque un candidato appetibile grazie agli egregi risultati del Texas anche in stato di crisi economica.

I restanti cinque candidati sono, a livello nazionale, ben poca cosa: Ron Paul, vecchio libertario, è amatissimo dai Tea Party e può vantare supporters anche nel campo avverso, oltre che un fedele seguito su internet; Michele Bachmann, dopo una durissima campagna giornalistica da parte dei giornali progressisti, è uscita con le ossa rotte anche dai dibattiti televisivi; Jon Huntsman, già ambasciatore in Cina (nominato da Obama), non ha alcun seguito, ma ha ricevuto un mezzo endorsement da Kissinger; Rick Santorum e Newt Gingrich praticamente non sono neppure nominati nelle cronache dei dibattiti, sono meno che pesi piuma.

Insomma, il quadro è ancora troppo confuso per poter dire quale potrà essere lo sfidante di Obama; di sicuro è oramai troppo tardi perché un “uomo forte” del partito si esponga ad una rischiosa competizione, bruciandosi in vista del 2016. Tutti o quasi sono concordi nell’indicare Romney come unico candidato che possa mettere Obama in difficoltà. Ryan Lizza, direttore del New Yorker, ha suggerito ad Obama di non sottovalutarlo: “per batterlo, dovrà distruggerlo”.


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