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Utopia. Tommaso Moro & Platone

Creato il 22 marzo 2014 da Philomela997 @Philomela997

Prima che il termine “utopia” entrasse nel linguaggio politico erano trascorsi 300 anni dall’”Utopia” scritta da Tommaso Moro.

Il termine fu coniato per il suo romanzo come similitudine di “nessun luogo”. La sua “Utopia” designava un’isola al di là di ciò che allora era conosciuto, era utopia tanto il libro quanto l’isola. Da allora il termine si usò sia per indicare una realtà effettiva (l’isola dal nome Utopia e la sua organizzazione sociale) sia i testi di contenuto utopico.Trapassa poi nell’uso linguistico politico all’epoca della Rivoluzione Inglese, e poi durante la Rivoluzione Francese.

L’invenzione di Moro è stata la denominazione di “Utopia”, ma non il luogo immaginato in modo visionario al di là dell’atlantico. Questo tipo di romanzi di viaggio è già presente nell’antichità classica, e come genere letterario che si occupa di sistemi politici immaginari o di modelli sociali ideali ha avuto molteplici denominazioni: romanzo politico, ficta historica, diario di viaggio, fictiones fabulae…. ma le questioni discusse da questi libri sono relativamente stereotipate: la distribuzione o comunanza dei beni, la pianificazione morale e razionale della società, una legislazione fondata sulla ragione per orgnanizzare la vita quotidiana pubblica e privata. Viene tematizzata la libertà dell’autocontrollo sulla base di norme morali e premesse razionali comuni.

In questo senso, si può vedere la prima grande manifestazione del pensiero utopico proprio nel “la Repubblica” di Platone per il carattere estremamente rigoroso del piano razionale secondo cui viene delineato lo Stato perfetto.

Emergono così alcune delle componenti più importanti del termine e anche del concetto ‛utopia’, che ancor oggi ne caratterizzano l’uso. L’utopia da un lato indica qualcosa che ha il carattere di una costruzione immaginaria e dall’altro prospetta non un semplice miglioramento o correttivo di questo o quell’aspetto negativo della situazione presente, ma uno stato ottimale della cosa pubblica. L’utopia si configura così come alternativa critica rispetto alla realtà presente, esperita, vissuta, e come alternativa totale e ottimale, dotata di una sua intrinseca razionalità, rispetto alla quale anzi risulta irrazionale, e perfino assurdo, il modo effettivo di vivere e di pensare nella realtà storica presente e conosciuta. La stessa meticolosità con cui in gran parte dei racconti utopici vengono indicate anche le più minute disposizioni circa i costumi, le abitudini, fino al modo di vestire, di mangiare, ecc., è un indice del fatto che la costruzione utopica non vuole lasciare nulla al caso per garantire la validità del proprio disegno e la perpetuazione dei propri risultati.

A differenza infatti dalle solite fantasticherie e costruzioni romanzesche, con le quali ha indubbiamente in comune il carattere immaginario, l’utopia non si presenta come semplice e gratuito accostamento di aspetti più o meno desiderabili della realtà o di casi felici e fortunati toccati a questa o a quella comunità, bensì come il risultato di una progettazione sapiente, meditata, dotata, come spesso si è detto, di una ‛logica’ interna altrettanto e forse anche più rigorosa di quella della realtà comune, rispetto alla quale può figurare addirittura come più vera e più persuasiva.
Proprio per questo la portata del concetto di utopia si è molto ampliata al di là di un semplice, genere letterario, ed esso è venuto a indicare un intero modo di pensare, una ricerca di modelli ottimali, insomma quell’‛utopismo’ che ha lasciato testimonianze così importanti di sè soprattutto nel pensiero politico.

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fonti:

R. Koselleck, “Il vocabolario della modernità“; il Mulino, 2009

Valerio Verra, “Utopia” in Enciclopedia del Novecento, Treccani

http://www.treccani.it/enciclopedia/utopia_(Enciclopedia-del-Novecento)/


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