“A Dicembre parto per il Nepal” mi raccontava un mio collega nell’eccitazione che sempre segue l’acquisto di un nuovo biglietto “non so bene quando tornerò..”, “Bello, vai in vacanza?” chiedo io, “No, no, macché vacanza..vado in viaggio!”. Incrociammo lo sguardo durante il momento di silenzio che seguì la discussione, un po’ perché lui si era reso conto della cazzata che aveva appena detto, un po’ perché io mi accorsi di quello che gli avevo appena chiesto. Sapevo che non stava partendo per la guerra, sapevo che non stava lasciando un buon lavoro. Insomma, era in partenza per il Nepal con un biglietto di sola andata, è vero, ma restava pur sempre un viaggio di piacere.
E quante altre volte ho avuto la stessa discussione, stando da entrambe le parti, dove si cerca di dare profondità a qualcosa che nella realtà delle cose è poco più che un periodo di ferie prolungato. “Il viaggio vero” sembra essere l’etichetta più gettonata, seguita da “viaggio selvaggio”, e, a volte, “fuga dalla società”, nomi ricercati che definiscono poco o niente. Sul dizionario il viaggio viene descritto come l’atto di spostarsi da un punto A ad un punto B. Prendere la bicicletta per andare da casa al lavoro è, di conseguenza, un “viaggio vero”, tanto quanto andare da casa a Capo Nord rotolando sul pavimento.
Detto ciò, sulla stessa linea, parlavo con un amico di libri, pochi giorni fa. “Sai, non ho mai seguito la letteratura di viaggio dei giorni nostri” mi diceva, “un po’ perché prima di viaggiare non ci ho mai veramente pensato, e un po’ perché dopo aver viaggiato niente sembrava essere molto esaltante”. Pensandoci, mi sono reso conto che la realtà è proprio questa. Apri un libro di viaggio oggi, ed è quasi sempre un diario. Insomma, che palle. Cioè, c’è chi sa e si sa raccontare, ma senza una storia dietro, un viaggio di piacere ha le gambe corte, e può andare poco oltre l’aspetto personale, rimanendo un po’ fine a stesso.
I conquistatori, i missionari, un tempo viaggiavano in cerca di luoghi inesplorati. Biologi e scienziati studiavano la nostra evoluzione. Poi sono arrivati i giornalisti di guerra, che scrivevano dalla trincea. Poi gli hippie, che andavano a Kathmandu per trovare la canna più buona. Darwin cercava conferma alle sue teorie, Terzani ha visto il mondo cambiare nei suoi anni in Asia, Gregory David Roberts è passato da un decennio negli slums dell’India alla prigione per scrivere Shantaram. Tutte queste persone hanno utilizzato, hanno avuto bisogno, del viaggio, per far succedere la propria esperienza, che, però, era qualcos’altro. E oggi? Oggi questo qualcos’altro ci manca, l’esperienza si compra come qualsiasi altro prodotto, vaghiamo in cerca di un senso che non è lì ad aspettarci, e vorremmo sentirci speciali. Ma non lo siamo.
Insomma l’esperienza del viaggio ha un valore che non si conta, in qualsiasi modo si scelga di provarla, ma è bene ricordarsi che rimane un privilegio concesso a pochi, che la famosa “fuga dalla società” non è altro che una scelta che la società stessa ci permette di fare. E che c’è poco da vantarsi, perché in vacanza ci vanno un po’ tutti, crisi permettendo, e, se davvero esiste la tanto ricercata differenza tra il viaggiatore e il turista, forse l’unico modo di torvarla è guardando al passato.
E ora che sta per uscire On The Road al cinema, speriamo solo che non spuntino tanti “veri viaggiatori”, come, quella volta, è successo per i vampiri.