Metti un viaggio Montichiari-Davos a dicembre, “cinque ore e mezza di auto, facciamo sette a prendersela comoda”, con alla guida il meno italiano tra gli scrittori in lingua italiana la cui “disinvolta incorruttibilità” fa il paio con un uso di mondo che non si concede né perdona la minima infrazione di etichetta. Di che cosa si potrebbe chiacchierare con uno così, che ha già detto e dato tutto nei suoi libri e che soprattutto non parlerebbe mai “tanto per far andare la bocca”? Per tacere che, come tutti i viaggi di Aldo Busi, anche questo è un viaggio letterario, e come tale non contempla né tempi morti né strade programmaticamente maestre né imprevisti che non si rivelino appropriati e tempestivi. Per esempio, se una mandria di vacche ti blocca lungo la strada, e nevica, saperle mungere ti salverebbe da sicuro assideramento. Guai a credere che i contrattempi servano solo a rallentare il viaggio: essi sono spesso l’unica ragione per intraprenderne uno. Tocca a ognuno di noi evadere dal proprio sistema di attese e fare in modo di farsi amiche persino le vacche che gli tagliano la strada. Questa è una morale tra le molte e diversificate che si possono trarre da Vacche amiche (un’autobiografia non autorizzata), l’ultima opera di Aldo Busi (Marsilio edizioni, pp. 177, euro 15, 50) in libreria dal 19 marzo.
Insomma, il punto di partenza di Vacche amiche sembra essere lo scetticismo imperfettibile del “Non si può andare avanti così!”. Critico come sempre verso i suoi tempi e l’umanità che li abita, Busi si scaglia anche in questo libro contro il cosiddetto progresso scientifico, i rapporti tra i sessi, le religioni di massa e confessionali, esponendo le ragioni che uno scrittore come lui potrebbe addurre a sostegno del proprio sopravvenuto immobilismo. Ma non esiste in Italia e fuori dall’Italia uno scrittore capace come Busi di descrivere esattamente la paralisi antropologica del paese Mondo e subito dopo di dare un calcio a quella descrizione se appena la sua esattezza accenna a diventare una posizione di comodo, una consolazione, una superiorità.
Scrivere, per Busi, significa andare in cerca dell’umano al di fuori dell’unica umanità ammissibile: la propria. Se intorno a lui l’umanità fa del suo peggio, Busi non si rassegna ad accontentarsi del proprio meglio. Non si trincera, non si arrocca in una intelligenza stanziale delle cose, anche se munita di ragioni sacrosante, anche quando si tratta di una stanzialità cui si è pervenuti al termine di migrazioni innumerevoli e mirate, anche quando lo star fermi è prodotto più dal paesaggio fattosi indifferenziato che non dal tracollo di una curiosità personale. Se la ragione è “un moto a luogo con soste brevissime”, quella di Busi, nomade e ballerina quanto la sua scrittura, disegna da una pagina all’altra di Vacche amiche una mappa fatta tutta di digressioni, di deviazioni da percorsi obbligati. In una parola: una mappa di Utopia, tanto disorientante quanto divertente nel senso etimologico della parola.
E così, nonostante Busi sia lo scrittore che è, nonostante gli italiani siano i non lettori che sappiamo, il viaggio Montichiari-Davos ha inizio. Non serve muoversi, basta farlo attraverso le pagine di Vacche amiche, lasciandosi guidare dallo scrittore, riscaldati dalla sua affabulazione allegra, precisa, affettuosa. Durata della lettura: dalle cinque alle sette ore, “contrattempi inclusi”.
Vacche amiche è un libro avveniristico per via dei lettori in cui confida senza farsi alcuna illusione; lettori che elabora, inventa, col semplice presupporli. È un libro inventivo perché, scavando nella mente dello scrittore che c’è ma nessuno vuol vedere, riempie quella del lettore che non c’è e vuole vedersi dappertutto. Una autobiografia del non lettore di oggi, non autorizzata dal non lettore di oggi – “monsemblable, monfrère”, malgrado tutto.
Marco Cavalli
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 22 – Marzo 2015.
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