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Come fare la guardia del CDR e incontrare Breznev
Una sera, intorno a mezzanotte, stavo facendo la guardia con Tino. Tino era un tipo sui
sessant’anni, alto e magro, con un’espressione che ricordava molto Clarke Gable, e un cappello
tipico cubano a tese larghe, che ricordava invece Clint Eastwood, ma (a differenza di questo) per
fare la guardia non portava la pistola né nessun altro genere di arma. Fare la guardia per il CDR (il
Comitato di Difesa della Rivoluzione) significava passare un paio d’ore, tra mezzanotte e le due,
oppure tra le due e le quattro del mattino, passeggiando in tra le vie del proprio quartiere e fare in
modo che la propria presenza servisse da deterrente contro eventuali ladruncoli che intendessero
infilarsi in qualche casa. Se per caso una notte avessimo dovuto affrontare una simile evenienza e
fossimo riusciti a sventare un tentativo di furto saremmo sicuramente divenuti famosi e la
popolazione locale ci avrebbe ricoperto di onorificenze di ogni tipo, ma tutto sommato io pensavo
di essere troppo umile e modesto per meritare tutto ciò e quindi speravo sempre che le nostre due
ore di turno passassero il più in fretta possibile e con la calma più assoluta.
Spesso fu così, nel senso che di calma ce n’era anche troppa, al limite della noia. Tra l’altro Tino
non era un gran chiaccherone, e in questo ci somigliavamo; oltretutto non ci conoscevamo
nemmeno tanto bene, benché fosse il padre di una nostra parente acquisita, e quindi era ben difficile
trovare qualche argomento di conversazione. Così Tino ed io facevamo trascorrere due ore
impegnando nella conversazione sì e no cinque minuti in tutto; e in quei cinque minuti riuscivamo a
parlare di:
- fatti importanti avvenuti nell’ultimo mese a Cuba;
- congiuntura economica mondiale;
- ripercussioni sul mercato interno a causa della diminuzione del prezzo dello zucchero da
esportazione;
- tipi di zanzare e altri insetti inutili e modi per sterminarli;
- bevande alcoliche ed effetti sul metabolismo umano;
- donne.
Per fare la guardia per il CDR mi avevano arruolato d’ufficio, così come accadde a tutti gli altri
abitanti maschi del quartiere. A Niquero, cittadina dalle radici rivoluzionarie, fare la guardia per il
CDR era considerato quasi un onore, una responsabilità verso il vicinato; ma a L’Avana, e credo
anche in altre città, appartenere al CDR o, ancora peggio, fare la guardia per conto del CDR
significava appartenere sicuramente al giro di quelli “che fanno la spia” per conto del partito e che
andavano a riferire ai funzionari di turno eventuali violazioni delle “regole”, come ad esempio:
“Tizio ospita in casa sua, senza autorizzazione, dei turisti stranieri” oppure “Caio vende al mercato
nero aragoste e sigari” oppure “Sempronio si sta preparando per espatriare illegalmente” e altre cose
simili. Direi che, ovunque a Cuba, non ci sarebbe stato bisogno di inventare i CDR per questo
scopo, poiché il normale passaparola assolveva efficacemente la medesima funzione (in altre parole,
c’era sempre qualcuno che non si faceva gli affari suoi né dentro né fuori del CDR).
A Niquero il CDR esercitava né più né meno le funzioni per le quali era stato concepito e cioè,
essendo l’organizzazione di base più importante, si occupava di gestire vari aspetti di vita
quotidiana della popolazione, dalla raccolta dei rifiuti riciclabili, all’organizzazione delle feste
locali, alla donazione del sangue, agli interventi di assistenza sociale alle famiglie più povere e così
via. A me venne abbastanza naturale, vivendo a Cuba, di iscrivermi al CDR; nessuno venne mai a
ordinarmi che dovevo fare la “spia”.
La prima volta che mi mandarono l’avviso per fare la guardia arrivò a casa mia un membro del
CDR con un foglietto:
- Ale, qui c’è la convocazione per questa sera – mi disse.
Sul foglietto c’era scritto pressappoco così: “CDR n. 3, zona 4, ‘Carlos M. Cespedes’, Niquero,
si convoca il signor Alessandro a fare la guardia con Tino per il giorno 4 febbraio dalle ore 0.00 alle
ore 2.00”. Dal punto di vista prettamente formale il fatto che la convocazione fosse per il giorno 4
alle ore 0.00 faceva pensare: “Devo fare la guardia la notte tra il giorno 3 e il giorno 4, poiché se chi
ha scritto il biglietto avesse voluto dire la notte tra il giorno 4 e il giorno 5 avrebbe scritto: giorno 4
ore 24.00, oppure giorno 5 ore 0.00”. Però dato che a Cuba si usa esprimere le ore solo con le cifre
da 1 a 12 (non date appuntamenti alle ore 20 poiché nessuno vi capirebbe) e dato che le formalità
raramente sono rispettate, tranne quando si ha a che fare con l’Ufficio Immigrazione, si può
facilmente immaginare che la convocazione era in effetti per la notte tra il giorno 4 e il giorno 5.
Ormai avevo imparato a capire come ragionavano i cubani, quindi non mi feci cogliere in fallo e mi
presentai all’appuntamento con Tino nel giorno giusto e all’ora giusta.
Passeggiavamo per le strade poco illuminate della zona di nostra competenza, quattro isolati in
tutto, in cui a quell’ora il silenzio regnava sovrano o quasi, ad eccezione di qualche cane che al
nostro passaggio cominciava a ringhiare e poi ad abbaiare rabbioso, attirando così l’attenzione di un
altro cane due case più in là il quale a sua volta iniziava ad abbaiare anche lui e tutti e due in un
coro scoordinato risvegliavano altri cani nel raggio di cento metri e poi altri e altri ancora e in pochi
secondi in un’area di quattro ettari avevamo scatenato l’ululato incontrollato di un branco di cani
idioti che evidentemente non avevano nient’altro da fare a quell’ora della notte, esattamente come
me e Tino che facendo finta di niente continuavamo a camminare indisturbati. Il grande ululato
durava per fortuna solo un paio di minuti, poi il silenzio tornava come prima, sia perché qualche
padrone usciva in cortile a prendere a calci il suo miglior amico, sia perché anche l’intelligenza del
cane suggeriva che era meglio smettere, dato che a Niquero dopo mezzanotte anche ladri, assassini
e stupratori desideravano riposare. Così il canile a cielo aperto tornava ad essere una tranquilla
cittadina di periferia.
Dopo quella prima volta feci ancora la guardia con Tino, un mese dopo, ma questa volta dalle 2
alle 4 del mattino. Facevamo il nostro solito giro. Cercavamo di non disturbare i vicini con il nostro
chiacchiericcio, ma soprattutto cercavamo di non svegliare qualche cane. Tuttavia imparammo
presto che esistevano anche i galli, i quali, essendo parenti stretti delle galline e avendo quindi
pressappoco le loro stesse capacità intellettive, notevolmente inferiori a quelle del più stupido dei
cani, iniziavano a cantare senza nessun motivo, magari anche a distanza di due o tre minuti dal
nostro passaggio. Se già un cane che abbaia, a qualsiasi ora, rende nervosi, un gallo che canta alle
tre e un quarto del mattino mentre state dormendo tranquillamente nel vostro letto fa
immediatamente venire voglia, chissà perché, di accendere il barbecue. Inoltre scoprii che anche tra
i galli esisteva la stessa solidarietà che c’era tra i cani, per cui iniziato uno partivano tutti gli altri. Se
si considera che un gallo emette il suo gorgheggio ripetendolo almeno quattro volte a distanza di
circa dieci secondi e che poco prima che egli termini l’ultima ripetizione un altro gallo ha già
iniziato il suo ciclo canoro è facile capire che la durata totale del concerto non era inferiore al
quarto d’ora, ipotizzando che l’orchestra fosse composta di soli otto o nove elementi (ma è una
stima approssimata per difetto). Il risultato sonoro era qualcosa di veramente spaventoso per la sua
vastità: si sentivano canti di galli provenire da distanze inverosimili, forse addirittura qualche
chilometro da dove ci trovavamo noi. A differenza dei cani non c’è modo di far interrompere un
gallo che canta; è qualcosa di stranamente incomprensibile, architettato da madre natura, come il
formarsi di un uragano, o il distacco di una valanga, o il momento topico prima dell’orgasmo: è
impossibile arrestarlo, tanto meno tornare indietro. Quando un gallo inizia il suo gorgheggio non
s’interrompe neanche se lo ammazzi; e se ne fa uno ne seguiranno almeno altri tre o quattro.
In questo caso non restava che attendere la fine naturale del concerto. La notte trascorreva
tranquilla e io e Tino scambiavamo poche parole sperando che quelle due ore passassero il più in
fretta possibile per tornarcene a dormire. Niente era successo anche stavolta, avevamo incrociato
per strada solo qualche ubriaco nottambulo e un tizio in bicicletta che tornava a casa dal lavoro
straordinario notturno (o forse dall’amante, o da entrambi i posti). Nella notte fresca di marzo
salutai Tino, entrai in casa mia e mi addormentai subito.
Il mese successivo mi toccò il turno da mezzanotte alle due, però stavolta non era Tino il mio
compagno, bensì un certo Julio che nemmeno conoscevo e che abitava due case più in là della mia.
Bussai alla sua porta ma non rispose. Sbirciai dalla persiana semiaperta e intravidi una luce fioca
provenire dalla cucina e quindi immaginai che qualcuno doveva essere in casa. Lo chiamai per
nome discretamente un paio di volte, bussai ancora, ma nessuno si fece vivo. Mi decisi allora a fare
la guardia da solo, tanto ormai conoscevo benissimo il mio compito e sapevo che non sarebbe
potuto capitarmi niente di pericoloso. Giunsi in una zona molto buia, davanti a quello che una volta
era il supermercato di Niquero, ora adibito a magazzino, e nell’oscurità riconobbi la voce di uno dei
miei vicini di casa, tale Serrano, un tizio attempato, gran chiacchierone, dai modi sempre molto
ossequiosi:
- Ah, salve! – esclamò.
- Salve! – risposi.
- Sta facendo la guardia? – domandò stupito.
- Sì.
- Da solo?! Ma non è mica bello fare la guardia da solo – disse preoccupato – Come mai?
- Il mio compagno ha il sonno duro.
- Chi è il Suo compagno?
- Julio, quello che abita vicino a casa mia.
- Strano. Però a volte la gente… Sa com’è… Magari fanno finta di non sentire… Non hanno
proprio il senso della responsabilità. Vorrà dire che La accompagnerò io a fare la guardia stanotte.
Ci intrattenemmo a chiacchierare del più e del meno con un altro tale, seduto su un gradino, il
quale stava facendo la guardia al magazzino: a lui toccava stare tutta la notte lì. Serrano non si
stancava mai di parlare; io avrei anche risparmiato il fiato e probabilmente l’altro avrebbe fatto
altrettanto e se non ci fossimo stati noi a disturbarlo si sarebbe anche fatto volentieri un sonnellino.
Poco dopo Serrano decise che dovevamo andare a fare un giro di ronda. Ancora non avevo
capito cosa ci facesse lui in giro a quell’ora della notte, invece di essere a casa a dormire.
Giungemmo sulla strada principale ben illuminata e ci soffermammo alcuni istanti sul marciapiede.
- Qui finisce la nostra zona, possiamo tornare indietro – disse Serrano.
Erano ormai quasi le due. Proprio in quel momento passò di lì un tale in bicicletta.
- Salve Serrano!
- Oh, salve Breznev! – esclamò il mio compagno.
Breznev? Chi è, il segretario del PCUS? Ma non era già morto da un bel pezzo? Il tale si fermò,
aveva più o meno la mia stessa età, un tipo molto cordiale e sorridente. Salutò Serrano con una
stretta di mano e fui presentato:
- Questo è Ale, l’italiano, forse hai già sentito parlare di lui, vive qui a Niquero, è sposato con
una compagna del nostro barrio. Ale, lui è Breznev, il direttore dell’ospedale.
- Piacere. – disse stringendomi la mano.
Direttore dell’ospedale a trent’anni? Complimenti, pensai.
- Come mai in giro a quest’ora? – gli domandò Serrano.
- Ho avuto da fare in ospedale, un sacco di problemi. Guarda che ore sono!
Parlava con entusiasmo e si vedeva che era appassionato al suo lavoro. Poi si rivolse a me.
- Tu lavori al centro di calcolo, vero?
- Sì.
- Mi pareva di ricordarmi di te, ti avevo visto l’altro giorno quando sono passato di là. Senti,
devo chiederti una cosa: il gruppo di italiani che è venuto l’anno scorso qui a Niquero, e che tu
conosci bene, ha portato una donazione…farmaci, strumenti per l’ospedale, eccetera… Adesso ho
un problema: c’era anche un apparecchio elettronico per misurare la glicemia che è stato dato in uso
domiciliare a una nostra paziente, solo che non riusciamo più a farlo funzionare perché mancano
delle striscioline.
- Striscioline? – domandai stralunato, non sapendo di cosa stesse parlando.
- Sì, sono delle piccole striscioline di carta. Funziona così: la paziente deve prelevare una
goccia del suo sangue, metterla sulla striscia di carta e inserirla nell’apparecchio, il quale misura la
glicemia e fornisce il risultato del test. Però senza le striscioline penso che non ci sia altro modo di
farlo funzionare. Abbiamo il manuale d’uso, però è in italiano. Allora volevo chiederti se potevi
venire a dare un’occhiata, magari c’è scritto come farlo funzionare anche senza le strisce.
- Va bene. Quando?
- Vieni domattina in ospedale. Chiedi di me: mi chiamo Ernesto, ma qua mi conoscono tutti
come Breznev.
- D’accordo. – Ci stringemmo la mano. Poi io e Serrano, vista l’ora, tornammo ognuno a casa
propria.
Quella notte, a differenza delle altre notti noiose in cui avevo fatto la guardia, non potei dire che
non fosse successo niente di insolito: conobbi un tale che si faceva chiamare con l’altisonante
cognome di un ex-capo di stato sovietico e fui interpellato per trovare soluzione ad un complicato
problema di bioingegneria medica.
Il mattino dopo mi presentai all’ospedale “Helasio Calaña” di Niquero. Mi faceva un certo
effetto dover chiedere di un certo Breznev: pensai che mi avesse preso in giro e che adesso avrei
fatto morire dal ridere tutti i presenti. Invece la donna cui feci la domanda mi rispose seriamente:
- Sì, aspetti, ora glielo chiamo.
Breznev arrivò quasi subito. Mi salutò cordialmente e mi portò in un laboratorio dove era
custodito quell’apparecchio di cui mi aveva parlato il giorno prima.
- Vedi – disse – quest’apparecchio fa parte di una donazione che ha portato qui un gruppo di
italiani, quelli che conosci anche tu.
Era un apparecchio elettrico portatile, di dimensioni ridotte, moderno, bello da vedere,
probabilmente l’ultimo ritrovato della tecnologia; ma non poteva funzionare lì, né ora né mai,
perché aveva bisogno di materiale di consumo costituito da una banalissima strisciolina di carta di
determinate dimensioni, almeno così mi spiegò Breznev. Il gruppo di italiani che generosamente
aveva donato quello strumento forse non aveva immaginato cosa sarebbe successo quando fossero
finite le poche striscioline a disposizione. In effetti avevo conosciuto quegli italiani: facevano parte
di un’associazione di solidarietà con la quale feci il mio primo viaggio qui a Cuba. Ma non era
colpa loro se l’apparecchio ora non poteva funzionare: era colpa della tecnologia moderna che non
teneva conto di tante cose, tra le quali il fatto che un paese come questo fosse sottoposto a embargo
commerciale da più di quarant’anni, oppure che gli apagones (i black-out) fossero quotidiani e
quindi non ci fosse corrente elettrica per diverse ore al giorno.
- Qui c’è il manuale, è in italiano: vuoi provare a leggerlo? Magari ci capisci qualcosa.
Lessi il piccolo manuale, ma non trovai nessuna soluzione. Rigirammo l’apparecchio tra le mani
per un po’: a dire il vero non è che io sapessi esattamente come funzionasse e non ne avevo mai
visto uno prima d’ora. Poi notai che sulla copertina posteriore era riprodotto esattamente il disegno
della strisciolina da mettere nell’apparecchio. Così, istintivamente, proposi a Breznev di utilizzare
quell’immagine, ritagliandola, per provare a far funzionare l’apparecchio.
- Sì, sembra una buona idea – disse – Pensi che funzionerà?
- Non saprei – risposi. – Forse sarebbe meglio fare delle fotocopie, così non sciupiamo
l’originale.
- Sì, ma dove? A Niquero non ci sono fotocopiatrici.
- Sì lo so.
Mi soffermai a pensare un momento.
- Però forse so anche come ovviare a questo inconveniente.
- E come?
- Al Museo Municipale. Lì c’è un apparecchio per mandare i fax e so che può essere usato anche
per fare delle copie. Prestami il manuale: vedo se riesco a fare qualcosa.
Andai al Museo, dove mi conoscevano tutti, esposi il caso e con la collaborazione solidale dei
dipendenti non ebbi problemi a farmi prestare il fax per fare delle copie della copertina del manuale.
Tornai all’ospedale, ritagliammo le striscioline e provammo l’apparecchio. Niente da fare. Non
c’era modo di farlo funzionare. Evidentemente, nella nostra ingenuità, ignoravamo che quelle
striscioline non erano di semplice e volgare carta per scrivere ma (come scoprii molto tempo dopo)
ricoperte di uno speciale materiale reattivo. Insomma, l’apparecchio era totalmente inutilizzabile
senza le sue preziose striscioline originali.
- Peccato – disse Breznev.
- Già, sarebbe stato troppo bello – risposi.
- Senti, se posso disturbarti volevo ancora mostrarti un’altra cosa.
Mi portò in un laboratorio dove c’era un’apparecchiatura per eseguire l’elettrocardiografia.
- Vedi questo? Serve per fare l’elettrocardiogramma. Il problema è che funziona solo se
collegato a questa stampante – disse indicandomela. – La stampante è rotta e comunque anche
quando funzionava non c’era la carta per alimentarla, quindi da tempo non possiamo più fare
elettrocardiogrammi.
Ecco un altro caso impossibile, pensai. Chissà cosa rimuginava ora la mente di Breznev? La mia
curiosità fu soddisfatta quasi subito.
- Quello che io pensavo... siccome l’apparecchio non è altro che un computer... vedi qui? Esce
un cavo che va alla stampante... Allora, se il segnale che esce di qui invece di mandarlo alla
stampante lo mandiamo, dopo averlo eventualmente trattato, ad uno schermo possiamo ovviare al
problema della stampante rotta e persino al problema dell’approvigionamento della carta.
- Idea eccellente... – risposi. – Quindi si tratterebbe di capire come è fatto il segnale che esce
dall’apparecchio e va alla stampante.
- Esattamente! Guarda: qui ci sono due dischetti che servono per far funzionare l’apparecchio:
credo che su uno ci sia il programma o il sistema operativo, non so, mentre sull’altro ci sono i dati
della misurazione rilevata. Se te li presto pensi di riuscire a leggerli con il tuo computer per capirci
qualcosa?
- Va bene, dammeli. Vediamo cosa contengono. Se i dati misurati sono stati registrati in un
formato facilmente decifrabile siamo a posto: basta scrivere un programma che li interpreta e li
disegna sullo schermo nel formato voluto, esattamente come faceva la stampante.
- E’ proprio quello che mi aspettavo che mi dicessi!
- Ve bene. Tra qualche giorno ti faccio sapere.
Ci congedammo e tornai a casa dove avevo il mio computer portato dall’Italia e mi misi subito al
lavoro. Inserii il primo dischetto ma il programma contenuto non era possibile eseguirlo; inserii
l’altro dischetto, quello contenente i dati, sperando che almeno quello (che era il più importante) si
potesse utilizzare, ma andò peggio: non si riusciva nemmeno a leggerlo, probabilmente perché era
stato scritto in un formato non decifrabile dal sistema operativo del mio computer. Ci rimasi male
perché l’idea di Breznev era davvero buona. Non volendo deluderlo così facilmente ed essendomi
appassionato al caso mi misi lo stesso a scrivere un programma per visualizzare una forma d’onda
sullo schermo del monitor, con una grafica che somigliasse a quella dell’elettrocardiogramma, così
come lo ricordavo io. Se poi, un giorno, fossimo riusciti a leggere quel maledetto dischetto sarebbe
stato semplice sostituire la forma d’onda con i dati della misurazione effettuata sul paziente.
Dopo poche ore avevo già creato il “motore” principale; il giorno seguente apportai delle
modifiche e dei miglioramenti per renderlo “presentabile”. Andai finalmente a trovare di nuovo
Breznev: gli dissi che purtroppo i dischetti non erano stati utili ma che avevo preparato comunque
un prototipo di programma per visualizzare l’elettrocardiogramma sul monitor, come ipotizzava lui.
Volle vedere subito la mia invenzione, venne a casa mia e gliela mostrai: gli piacque, ma
rimanemmo entrambi con l’amaro in bocca, dato che non se ne poteva fare niente.
- Peccato per questi dischetti – disse – Vedo se riesco ad averne altri, magari da qualche
apparecchio simile in un altro ospedale...
- Prova. Magari sono solo questi che non si riescono a leggere. Chissà che non siamo più
fortunati...
Ma la fortuna non fu dalla nostra parte. Non trovammo nessun altro dischetto utile allo scopo e
l’elettrocardiografo dell’ospedale rimase inutilizzato, così come il mio prototipo. Dell’apparecchio
per la glicemia non seppi più nulla.
Feci la guardia notturna del CDR ancora qualche volta con Tino, prima di tornare
definitivamente in Italia come avevamo da tempo deciso io e Maribel.
Poi un pomeriggio di un sabato qualunque del mese di ottobre si svolse, in strada di fronte alla
casa del nostro vicino, come di consueto, la riunione periodica del nostro CDR al quale eravamo
tutti invitati a partecipare. Io quella volta non ne avevo voglia, ero troppo frustrato da una serie
interminabile di corse a Manzanillo e Bayamo che dovemmo fare per preparare i documenti per
l’emigrazione di Maribel in Italia e mi sentivo abbastanza fuori luogo a partecipare a quella
riunione. Rimasi seduto nel salotto di casa mia a leggere il giornale, mentre sentivo di sottofondo la
voce del presidente del nostro CDR che parlava ai presenti. Evidentemente, per qualche motivo, la
mia assenza fu notata e qualcuno venne a chiamarmi:
- Ale, c’è la riunione del CDR! Il presidente vorrebbe che anche tu partecipassi!
Colto da un senso di responsabilità verso i miei vicini di casa con i quali avevo sempre avuto
ottimi rapporti e che non erano certo colpevoli delle mie traversie con ambasciate, questure e uffici
d’immigrazione, posai il giornale, mi alzai e andai in strada a sedermi tra il pubblico.
Il presidente iniziò con i soliti convenevoli, poi proseguì mostrando i risultati raggiunti in certi
campi in cui la popolazione era stata coinvolta, come la raccolta differenziata dei rifiuti e
l’abbellimento delle strade del quartiere in occasione delle feste importanti, dopodiché illustrò i
prossimi compiti del CDR. Infine procedette alla consegna di alcune onorificenze:
- Quale migliore donatore di sangue del nostro CDR consegno questo diploma a Rogelio
Rodriguez!
Seguì immediatamente un applauso caloroso del pubblico. Rogelio, il venditore ambulante che
abitava di fronte a casa nostra, apparentemente burbero e qualunquista, era invece colui che più di
tutti si era prodigato nel corso dell’anno a farsi prelevare il sangue da donare: si alzò e ritirò il suo
bel certificato. Lo stavo ancora osservando con ammirazione mentre tornava a sedersi e quasi non
sentivo le parole del presidente che nel frattempo continuava:
-...e quindi come migliore guardia del CDR consegnamo questo diploma a Alessandro Pilotto...
Appena sentii pronunciare il mio nome sobbalzai sulla sedia. Colto inaspettatamente mi alzai e
con l’emozione di un bambino mi avvicinai al presidente a prendere il certificato, il quale recitava:
C.D.R.
SE OTORGA EL PRESENTE
CERTIFICADO
AL COMPAÑERO
ALESSANDRO PILOTTO
POR HABER RESULTADO
DESTACADO
EN LAS TAREAS DE LA VIGILANCIA
DURANTE EL AÑO 1996
Il mio nome e cognome erano scritti addirittura a mano in stile gotico... Non sapevo cosa dire e
meno male che non mi diedero la parola. Mi chiedevo se l’avevo meritato più per tutte quelle ore di
guardia notturna con Tino o più per l’impegno profuso con Breznev tentando di far funzionare quei
dannati apparecchi. Un applauso mi accompagnò mentre tornavo a sedermi e percepii chiaramente
che era la dimostrazione sincera d’amicizia del vicinato.
P.S.
Attualmente, vivendo in Italia, quel certificato è appeso ad una parete nell’entrata di casa; le
persone che vengono a visitarmi si soffermano a guardarlo e, a parte poche eccezioni, si dividono in
due categorie: la prima è quella degli italiani che non sanno che cos’è un CDR e cosa significhi
“DESTACADO” e quindi con seria attenzione mi chiedono spiegazioni, che io volentieri do, ma
alla fine di solito annuiscono dando la sensazione di avere capito tutto e invece non hanno capito
niente; la seconda categoria è quella dei cubani che facendosi una grossa risata e pronunciando frasi
come “Facevi lo spione, eh?!” dimostrano anch’essi di non avere capito niente.
CONTINUA...
ALESSANDRO PILOTTO
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