Magazine Racconti
La moto di Nestor
Nestor era un carissimo amico di un nostro cugino, felicemente sposato e con 2 bambini. Aveva
una moto, cosa rara da queste parti, una MZ 250 che si era portato dalla Germania Orientale,
quando si era recato a lavorare là negli anni 70 e 80, come tanti altri cubani. Era riuscito a portarsela
a Cuba, poiché a quell'epoca era ancora permesso. Ora non si può più fare e non è neanche possibile
comprarsene una, pur avendo i soldi. Ero stato spesse volte a casa sua, perché era una persona
veramente piacevole con cui parlare, di animo buono, sempre sorridente; non l'ho mai visto una
volta incazzarsi, al massimo alzava un po' la voce con i figli quando lo facevano irritare, ma niente
di più. Prova della sua bontà era anche il fatto che la moto la prestava gratis un po' a tutti, forse
perché non sapeva dire di no.
Ma ora la moto era ferma da tempo: non aveva più le gomme, completamente consumate, forse
proprio per averla prestata a decine di persone. "Nestor è troppo buono" diceva la moglie "Tutti
vengono qui, gli chiedono la moto, gliela consumano e poi non li vedi più".
Così un giorno, su suggerimento di Maribel, decisi di proporgli una "società": io gli avrei
comprato le gomme nuove e lui in cambio mi avrebbe prestato la moto quando avessi avuto bisogno
di spostarmi. L'idea gli piacque molto e si entusiasmò perché finalmente avrebbe potuto riutilizzarla
anche lui.
Durante un viaggio a Bayamo riuscii a trovare le gomme e le camere d'aria della misura giusta (a
Niquero nenanche a pensarci, non si vedevano pneumatici nuovi da un decennio). Spesi parecchi
dollari, ma pensai che ne valeva la pena. Tornai da Nestor e gli si illuminarono gli occhi: dopo un
paio di giorni la moto era bella pronta per correre di nuovo.
La prima volta che gliela chiesi in prestito fu per andare a Bayamo per sbrigare una delle solite
faccende per la residenza. Il problema era trovare la benzina e l'olio da metterci dentro. Comprarla
al distributore Cupet in dollari era fuori discussione: circa un dollaro al litro, troppo cara. Non
potevo spendere i miei pochi quattrini in benzina. Ma spargendo la voce in giro qualcuno che aveva
benzina da vendere si trovava sempre e a Niquero costava pure meno che a L'Avana, circa 3 o 4
pesos al litro. L'olio, invece, me lo procurò Ermes, un vicino di casa che lavorava al Central
Azucarero e al quale una volta regalai una camera d'aria nuovissima per la sua bicicletta: da quella
volta si sentì quasi in debito perenne nei miei confronti, e quel giorno (era appena uscito da
lavorare) venne da me con un flacone di shampoo che teneva nascosto sotto la camicia e con il
quale mi aveva procurato un po' di olio: "Grazie, Ermes, ma non vorrei che ti cacciassi nei guai per
colpa mia...", "No non è niente, Ale". Non era olio fresco, probabilmente l'aveva preso da qualche
bidone di olio usato da buttare, ma andava benissimo per miscelarlo con la benzina e gliene fui
veramente grato.
Ero quindi pronto per partire per Bayamo. Là ci viveva anche Andy, una sorella di Maribel,
quindi normalmente si passava da casa sua a mangiare ed eventualmente passare la notte. Lei
abitava in uno dei "barrios" più popolari, dove le case sono fatte di mattoni, lamiera, teli di iuta e
cartone, alle finestre (che non sono finestre, ma feritoie fatte con mattoni) si mettono pezzi di sacchi
neri come tendine, e i pavimenti sono di terra battuta con qualche piastrella di recupero appoggiata
sopra. La casa di Andy era composta da cucina, comedor, camera da letto, gabinetto e patio, il tutto
in 20 metri quadrati senza pareti divisorie. Le uniche pareti erano quelle che dividevano la casa di
uno dalla casa dell'altro. In quelle strade non c'erano auto, ma solo ragazzini che giocavano
schiamazzando. La porta di casa rimaneva normalmente aperta, perché ogni tanto qualche vicino si
affacciava per salutare o chiedere un fiammifero in "prestito", oppure veniva qualcuno a vendere
qualcosa. Da Andy si stava bene, perché si respirava la sua indipendenza: era l'unica figlia ad essere
andata via da casa molto presto, aveva trovato lavoro a Bayamo ed era contenta così.
Quel giorno rimanemmo a casa sua fino alle 5 del pomeriggio, poi riprendemmo il cammino per
Niquero: preferivo tornare a casa prima che facesse buio, non si sa mai.
E infatti sembrava che me lo sentissi che doveva capitare qualcosa di imprevedibile. Al calar
della sera, quando feci per accendere il faro.... niente! Beh, pensai, devo accelerare per guadagnare
il più possibile terreno. Ma per quanto corressi, la strada era ancora lunga. Passammo Manzanillo
che era ancora un po' chiaro, ma quando arrivammo a Campechuela, dopo aver schivato per
miracolo un cavallo selvaggio che proveniva contromano (senza le luci accese!) non si vedeva più
niente di niente. Il nulla. Nero assoluto. Sopra, sotto, a destra e a sinistra. Carajo! Un buio così non
l'avevo mai visto. Non c'era nemmeno la luna, che almeno avrebbe schiarito un po' le ombre della
strada. Dovetti rallentare quasi a passo d'uomo. Ci restavano ancora 40 chilometri, ne avevamo già
fatti 80 in un'ora circa, ma a quel passo quando saremmo arrivati?!?! Ogni tanto arrivava qualche
auto da dietro, così approfittavo della sua luce per aumentare la velocità; cercavo anche di evitare
che mi sorpassassero, ma questi di solito andavano troppo veloci e mi lasciavano indietro, così il
buio assoluto piombava di nuovo su di noi. Guidavo piegato in avanti per cercare di vedere
qualcosa, ma non individuavo nemmeno la ruota davanti. A tratti mi sembrava di percepire il
grigiore della strada e seguivo quello, poi d'un tratto spariva anch'esso e io scoprivo di essere sul
bordo, anzi quasi fuori, così dovevo sterzare bruscamente e rallentare. Conoscendo lo stato della
strada e la zona altamente rurale di quella provincia la mia unica paura era quella di finire in un
buco, oppure di schiantarmi contro una vacca o un carretto a cavalli. Passando per Medialuna
riposai un po' le pupille, poiché c'era l'illuminazione pubblica. Ma poi di nuovo il buio. Ci vollero 4
ore per percorrere quei 40 chilometri. Arrivammo a casa alle 10 di sera, ormai ci avevano dati per
dispersi in un viaggio che normalmente dura 2 ore. Riportai la sera stessa la moto a Nestor e quando
gli raccontai l'accaduto mi disse: "Coño, Ale! Mi ero dimenticato di dirti che c'è un falso contatto!"
Tolse la sella e mi fece vedere dei fili: "Vedi, se muovi questo qui... ecco, adesso la luce s'accende".
Avrei voluto strozzarlo, ma ero troppo stanco per farlo.
La seconda volta che presi la moto di Nestor fu per andare a Medialuna, 20 km da Niquero, dove
viveva una zia di Maribel. Stavolta, pensai, non mi succederà niente di simile, ormai so come si fa
ad accendere il faro. E infatti, a parte il diluvio che ci prendemmo al ritorno, andò tutto bene.
Ma la terza volta, andando di nuovo a Bayamo, per poco non ci ammazziamo. Stavo seguendo
un camion puzzolente e gli stavo piuttosto vicino in attesa di sorpassarlo, quando all'improvviso
compare sulla strada un buco enorme! Non ebbi il tempo di evitarlo e ci finimmo sopra: la moto
ebbe un sobbalzo tremendo, ma rimanemmo in equilibrio, solo che uno degli specchietti retrovisori
si staccò e andò in frantumi e, cosa ancor più incredibile, la chiave dell'accensione a causa dell'urto
si sfilò, fece una parabola verso l'alto e finì sulla strada chissà dove. E il bello è che la moto rimase
accesa! Mi fermai per cercare lo specchietto e la chiave e li trovai entrambi; verificai anche la ruota
davanti e, con dispiacere, notai che il cerchione si era leggermente piegato. Si poteva ancora
guidare, ma mi sentivo addolorato per Nestor: se gli avessi rotto irrimediabilmente la moto, come
facevo a comprargli i ricambi o una moto nuova? Proseguimmo e il resto del viaggio, quella volta,
andò bene.
Ma la volta successiva, sempre sulla strada di ritorno da Bayamo, la gita si trasformò di nuovo in
avventura (sarà che Bayamo porta sfortuna?). Eravamo io e Maribel, avevamo appena superato il
villaggio di Campechuela e ci restavano solo più 35 km per arrivare a casa, quando la moto
improvvisamente inizia a sbandare. Riesco a fermarmi senza cadere e mi accorgo che abbiamo
bucato la ruota posteriore. Questa non ci voleva: peggio che andare di notte a fari spenti! Così, in
mezzo a un campo di platano a sinistra e un campo di mais a destra mi metto a smontare la ruota
maledetta. Dico a Maribel di aspettarmi lì, io sarei tornato a Campechuela a cercare un gommista. Il
paese dista un paio di chilometri, così mi metto a fare l'autostop. Mi carica un signore su una jeep
piccolissima (solo due posti); a fianco a lui siede la moglie, così io mi devo arrangiare nel vano
posteriore, insieme a delle casse di ortaggi. Dopo circa 500 metri l'auto comincia a fare dei rumori
strani e a sbandare. Il tipo si ferma, scende, guarda le ruote, poi prende una chiave inglese e lo sento
trafficare su una ruota. Poi risale in macchina. "Cosa c'è?" domanda la moglie. "No, niente, c'erano
dei bulloni un po' svitati...". Andiamo bene! penso. Riuscirò ad arrivare, non dico a casa, ma almeno
dal gommista sano e salvo? Giunti in paese ringrazio e scendo. Vado all'unico Cupet che c'è, quello
in moneta nazionale, do la ruota al tizio che lavora lì, la apre e me la riporta subito dopo dicendo
laconicamente: "Non si può riparare: la camera d'aria è squarciata". Scompare così velocemente
come era apparso e rimango lì come un fesso, non sapendo più che fare. Chiedo ad un signore se
per caso c'è una "tienda" dove vendono camere d'aria, ma il posto più vicino è Manzanillo, a 20 km.
Improvvisamente mi ricordo di aver visto, venendo in qua, un piccolo cartello sulla strada
principale che indicava la presenza di una "ponchera particular". Torno sui miei passi e per fortuna
non avevo avuto le allucinazioni. Un paio di isolati verso l'interno del paese trovo una botteguccia
dove un signore anziano sta lavorando con delle camere d'aria. Vediamo se è in grado di fare anche
i miracoli.
"Buongiorno, guardi ho un grosso problema, la camera d'aria si è squarciata... sono già andato
anche al Cupet, ma non hanno potuto fare niente. Chissà se lei ha qualche idea?"
"Oh, che guaio!" dice con rammarico. "Vediamo un po'... che misura è?"
"Diciotto".
"Aspetta un momento..."
Va nel retrobottega a cercare qualcosa, mentre io sto ad aspettarlo. Mi guardo intorno e noto che
la bottega, a dispetto dell'apparenza, è molto ben organizzata: il tipo ha l'aria di saperci fare e
sembra che la saggezza e l'esperienza che gli deriva dalla sua lunga età non gli manchino davvero.
"Ecco quà!" esclama tornando da me "Ho questa camera qui, solo che è una diciannove e le
manca la valvola".
"Quindi?" domando timoroso, non sapendo se il suo annuncio sia da prendere in senso positivo o
negativo.
"Quindi bisognerà adattarla".
"Adattarla?" chiedo stupito, non sapendo fin dove potesse arrivare la sua fantasia.
"Sì, la accorciamo un po'.. dovrebbe starci lo stesso nel pneumatico... Fammi provare".
Così, manipolando ad arte la camera e facendo rientrare una parte del tubolare dentro se stesso
riesce ad ottenere una camera d'aria diametro diciotto pollici da una di diametro diciannove.
Semplice no? Chissà perché i produttori di pneumatici non ci hanno mai pensato?
"Adesso proviamo a gonfiarla, ma prima togliamo la valvola dalla tua e la mettiamo qui".
Se non lo vedessi non ci crederei. La camera calza permettamente dentro il pneumatico: sembra
fatta apposta.
"Solo che perde ancora aria... ci deve essere un buco..." mi dice. Già, penso, sarebbe troppo bello
che una camera di recupero senza valvola sia anche intera...
Così immerge la camera in una bacinella e, trovata la falla, si mette all'opera con colla e pressa.
Per riparare un buco ci sono voluti circa 20 minuti di attesa, ma intanto era già passata più di un'ora
da quando avevo lasciato Maribel sola in mezzo ai campi con la moto senza una ruota... Speriamo
che non cominci anche a piovere...
"Ecco fatto" esclama il tipo. Ma quando la gonfia, la camera perde ancora.
"Mmhhh, ci deve essere ancora un buco da qualche parte...."
Altri venti minuti di attesa. Nel frattempo mi offre un sigaro e si parla del più e del meno.
Altro tentativo, ma la camera perde ancora aria.
Alla fine si scopre che i buchi erano tre, ma ora la gomma è come nuova (si fa per dire...).
"Bene, ora dovresti essere a posto!" dice soddisfatto.
"Lei è stato eccezionale!" dico. "Quanto le devo?"
"Mah, dammi quello che vuoi... Io prendo 2 pesos per ogni riparazione... In più c'è la camera
d'aria..."
Quando mi dicono "Dammi quello che vuoi" vado sempre in crisi. Tiro fuori un biglietto da venti
(comunque non è che avessi molto di più in tasca) e glielo porgo. Lo accetta senza problemi, ci
salutiamo e mi incammino. Intanto sono passate già due ore. Un'auto mi dà un passaggio, trovo
Maribel ormai esausta, rimonto la ruota e ripartiamo. Mentre viaggio mi chiedo se quel tipo fosse
un angelo mandato dal cielo o cosa.
Chiesi la moto in prestito a Nestor ancora un paio di volte, prima di arrendermi definitivamente.
(Evidentemente doveva esserci qualche strana maledizione dietro tutto questo: non era possibile che
succedessero tutte a me!)
Una volta per andare a Medialuna a fare un giro di piacere che si trasformò in un giro di dolore.
Avevamo appena percorso un paio di chilometri quando Maribel si accorge di avere dimenticato il
carnet de identidad a casa; mi fermo per fare inversione di marcia e il motore si spegne. Mentre
tento di riaccenderlo la pedivella mi sbatte violentemente sul ditone del piede. Un dolore
allucinante! Non riesco nemmeno a stare in piedi e mi devo sedere sul bordo della strada, gridando
di dolore con le lacrime come non mi succedeva da quand'ero bambino. Si sarà senz'altro rotto,
pensavo. Dopo alcuni minuti il dolore si affievolisce leggermente, riusciamo a far partire la moto a
spinta e torniamo a casa. Nestor si offre di accompagnarmi all'ospedale, per farmi visitare.
Troviamo il radiologo anche se è sabato pomeriggio, e miracolosamente riusciamo a fare la
radiografia immediatamente. Caspita! penso, non si troverà la benzina ma l'efficienza sanitaria è
eccellente, in mezzo a tutte le difficoltà che ci sono... Comunque il dito non è rotto; devo fare degli
impacchi freddi e non sforzarlo: si metterà a posto da solo.
L'ultima volta che montai la moto rimanemmo a piedi ancora una volta, perché la batteria si era
completamente scaricata e il motore non ne voleva più sapere di ripartire. Dovetti lasciarla
parcheggiata in una casa e tornare a Niquero con l'autostop. Poi Nestor mi disse che per avviarla
anche con la batteria scarica bastava staccare uno dei cavi... Quando mi vide tornare a piedi non era
più sereno e sorridente come al solito.
Decisi allora che, per evitare ulteriori incidenti, era meglio se la moto non la prendevo più. Mi
addolorava dover raccontare a Nestor che ogni volta che usavo la sua moto mi succedeva qualcosa
di spiacevole. Non potevo nemmeno premettermi il lusso di rischiare tanto: se gliela avessi
irrimediabilmente danneggiata come gliela riparavo? Mica si possono comprare i pezzi di ricambio!
Per lui la moto era un bene troppo prezioso, non me la sentivo di essere uno dei responsabili della
sua "morte".
Da allora mi sentivo più sollevato: una responsabilità in meno, pensavo. Se avevo bisogno di
muovermi preferivo chiedere un passaggio a pagamento.
Così, nei giorni seguenti, capitava che camminando per le strade di Niquero vedevo la moto di
Nestor sfrecciare veloce, ma a bordo non c'era lui. Evidentemente l'aveva di nuovo prestata a
qualcuno...
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