Ho spesso l’impressione che il ricordo sia una forma di stoltezza. Ci rende la testa pesante, ci dà le vertigini, come se non si stesse guardando all’indietro attraverso le fughe del tempo, bensì giù verso la terra da grandi altitudini, da una di quelle torri che si perdono nel cielo.
da W.G. Sebald, Gli emigrati.
Se ne avrete l’opportunità leggetelo W. G. Sebald, uno che ha sempre amato vagabondare sia nella scrittura che nella vita.
La sua è una scrittura davvero “diversa”, discorde, insolita.
Mi ha sempre spiazzato la sua curiosità, la grande erudizione, ma anche l’analisi ricca e incisiva che fa del passato. Per lui, tedesco nato nel 1944, la memoria era accettare e assorbire l’esperienza della generazione precedente alla ricerca di un’identità liberata dalle colpe dei padri.
Sebald è uno scrittore navigato in grado di riscrivere pagine di storia con la spigliatezza, l’eleganza e il piacere del cronista, ma anche un intelligente e acutissimo osservatore della quotidianità.
La sua scrittura racchiude il destino degli sconfitti, la voce dei profughi. La geografia letteraria di Sebald sembra voler ricordare che la cultura è anche documento di barbarie, come diceva Benjamin. Anche se lui col fascino e l’attrattiva del suo linguaggio tramuta le rovine in frammenti di bellezza, in sfumati, vaghi ricami di speranza.