Come si fa a conservare debitamente la memoria di una tragedia che colpisce all'improvviso e strappa alla vita migliaia di innocenti? Una tragedia che cinquant'anni dopo aleggia ancora nella storia senza che nessuna amministrazione o tribunale si dimostri capace di offrire una risposta esauriente alle domande che inevitabilmente emergono dalle macerie? Qual è il modo giusto per onorare i defunti, per mostrare rispetto verso i familiari?
È forse la visita guidata che ogni giorno alle 10 parte dal centro visitatori e prosegue verso diga e frana? È la corsa podistica non competitiva "I percorsi della memoria", giunta nel 2015 alla decima edizione e che ogni anno si protrae per 25 chilometri attraverso i luoghi della tragedia? È il memoriale, le targhe, le bandierine che sventolano al vento?
Non c'è un modo esaustivo per elaborare un lutto collettivo. Ciascuna di queste pratiche è utile e legittima, ciascuna di esse è d'aiuto per avvicinarsi a quel contatto morale ed emotivo che consentirebbe di espiare la colpa di essere ancora qui, di non essere tra quelli finiti sotto le macerie. Eppure alla fine non basta mai, è un processo senza soluzione definitiva. Alla fine tutto quel che resta è il silenzio.
Volevamo vederla anche noi, questa diga di cui sentivamo parlare da quando eravamo ragazzini. Quel nome che si trasmette come un velo di tristezza su sguardi e volti. Vajont. Eravamo arrivati da Belluno in moto. Avevamo risalito le Dolomiti fino a Longarone. Poi si gira a destra, si supera il Piave, si sale sul passo fino a 700 metri, si entra nel Friuli Venezia Giulia, e alla fine eccola lì. La diga. Neanche un graffio. Uno pensa di trovare un segno, una ferita, un cerotto a ricordare quel che è accaduto, invece la diga è imperturbabile.
E abbiamo trovato tutto quanto, il centro visitatori, la visita guidata, i volantini della corsa podistica. Abbiamo fatto le foto, abbiamo parlato con i passanti. Ma a unirci con quella notte del 1963 era il silenzio.
All'inizio Vajont era il nome di un torrente, un corso d'acqua che scorre nella Valle di Erto e Casso e confluisce nel Piave tra Longarone e Castellavazzo, tra le Dolomiti bellunesi. Poi è arrivata la diga. Gli scavi iniziano nel 1956 senza alcuna autorizzazione (una pratica che si ripeterà anche per le prove di svaso nel 1959). La roccia però non ci sta, sotto ogni colpo si sbriciola in mille pezzi, complici i differenti strati di composizione geologica. Non se l'aspettavano, cominciano a dibattere, a prendere decisioni contraddittorie, eppure nel 1958 il Genio Civile autorizza la SADE a cominciare con i getti in calcestruzzo.
La SADE - Società Adriatica di Elettricità - era stata fondata nel 1905 da Giuseppe Volpi, conte di Misurata, per "la costruzione e l'esercizio di impianti per la generazione, trasmissione e la distribuzione di energia elettrica in Italia e all'estero", ed era divenuta in poco tempo regina del mercato italiano grazie anche ai contatti del conte con il mondo della politica. La SADE diventa così responsabile per la progettazione e la realizzazione della diga del Vajont. Grandi opere per una grande nazione. Però nel 1959 la frana di Pontesei e il crollo del Frejus scuotono l'opinione pubblica. Si accumulano timori anche per il Vajont, ma i lavori procedono, pur tra qualche insipida commissione tecnica. Intanto a Erto, proprio sopra il torrente, la popolazione insorge, ma per un altro motivo. Si parla di espropri terrieri, "Erto come l'Abissinia, terra di conquista", una comunità montana privata delle proprie risorse per fare largo al progresso. O agli affari di alcuni ( vi ricorda qualcosa?). A denunciare i soprusi ci si mette anche Tina Merlin - giornalista tenace, partigiana e comunista - con un articolo sull'Unità in data 5 maggio 1959: "Un fatto grave e contrario a tutte le leggi, che ha avuto inizio da qualche mese e che tuttora perdura, ha portato all'esasperazione gli abitanti della valle. Essi si vedono continuamente invadere ed espropriare i propri campi dalle società che hanno in appalto la costruzione della strada di circonvallazione per conto della Sade. Nessun decreto di espropriazione o trattative per la cessione dei beni sono intervenuti fra la Sade e i proprietari. La società elettrica infrange tutte le leggi dello Stato e i contadini hanno sempre dovuto sottostare finora ai soprusi della Sade." Per questo articolo la Merlin viene denunciata, ma il giudice che la assolve dirà: "Ha ragione lei". Peccato che non lo ascolta nessuno.
Il 12 dicembre 1962 un legge dello Stato stabilisce che tutte le opere relative alla produzione di energia elettrica devono passare dalla SADE all' Enel, il nuovo Ente Nazionale Italiano per la produzione di energia elettrica. Fino a quel momento la SADE intensifica gli studi, i risultati sono sempre più allarmanti, il punto è sempre la natura della terreno non idoneo a sostenere un'opera di tale portata. Ma di tornare indietro non se ne parla.
Alle 22.39 del 9 ottobre 1963 una frana gigantesca (due chilometri quadrati di superficie e circa 260.000.000 di metri cubi) si avventa sul torrente, provocando un'onda d'acqua che in pochi istanti spazza via quasi 2000 vite umane e sconvolge completamente la morfologia delle valli del Vajont e del Piave. Di Longarone rimangono solo poche case. Il centro di Erto è risparmiato, ma delle sue frazioni non c'è più traccia. Numerosi studi di università italiane e straniere stabiliranno negli anni successivi che le cause della frana sono state il terreno con scarse qualità meccaniche, gli invasi per regolare le acque del torrente e le forti piogge dei giorni precedenti. La ragione dell'onda assassina, ovviamente, è stata la diga.
Sette anni e mezzo dopo, a soli 14 giorni dalla prescrizione, si conclude il processo Vajont. Gli imputati sono SADE e Enel. L'accusa: disastro colposo di frana aggravato dalla prevedibilità dell'evento, inondazione e omicidi colposi plurimi. La prima perizia dice che la frana non era prevedibile. Ma per il giudice Mario Fabbri le conclusioni sono piene di errori e omissioni. Servono degli esperti indipendenti per una seconda commissione, ma in Italia non c'è nessuno con tali competenze che non abbia legami con la SADE. Vanno a prenderli in Svizzera e in Francia. Il sindaco di Longarone Giampiero Protti dirà che "potentissime forze si muovono contro di noi".
Il 25 marzo 1971 la Cassazione condanna a cinque anni Alberico Biadene (dipendente Enel-SADE e ideatore del progetto della diga) e a tre anni e otto mesi Francesco Sensidoni (dipendente del Ministero dei Lavori Pubblici). Entrambi godranno di un condono di tre anni. SADE si fonderà prima con Montecatini e dopo anche con Edison, diventando Montedison. Per i risarcimenti occorrerà attendere altri 30'anni.
Ecco. Ora che abbiamo affrontato la storia, ora che abbiamo coltivato la memoria, torniamo alla tragedia. Torniamo al silenzio.
Fonti: Corriere delle Alpi e Vajont.net.Per approfondimenti: "Vajont" (1997), di Marco Paolini e Gabriele Vacis.1963digaLongaronetragediaVajont