Matilde Ferraris ha quarant’anni ed è reduce da diverse fughe -da Roma a Milano, da Milano all’Alto Adige, dall’Alto Adige a Urbino, e ancora da Urbino a Roma-, ma questa volta si è lasciata alle spalle qualcosa di ben più ingombrante di una semplice relazione finita male; è per questo che, nell’affollamento di un sabato di pasqua, proprio lei, che odia la confusione, salta su un treno diretto a Orvieto con l’idea di trasferirsi, un “paio di cambi di vestiario”, “La storia” di Elsa Morante e il “Libro di Giobbe” infilati in un borsone, l’inseparabile bicicletta elettrica e il computer portatile guardati a vista dal controllore: perché è molto più facile “fingere che niente sia stato e provare a inventarsi una nuova esistenza”, che togliere di mezzo le macerie e “azzardare una ricostruzione”(1).
Per fortuna, ad attenderla nella tranquilla e suggestiva cittadina umbra, ci sono un lavoro a lungo sognato -un posto da libraia nella libreria antiquaria del professor Paolini- e una comunità d’altri tempi, fatta di persone riservate, colte ed educate, pronte ad accoglierla.
Ma la calma e rassicurante provincia nasconde spesso dei lati oscuri, e Matilde, coinvolta dal fascinoso nipote del professor Paolini nell’indagine su un caso di cronaca risalente a circa dieci anni prima, dovrà rivedere le sue prime impressioni; e chissà che, nel farlo, non riesca anche a chiudere i conti con il passato…
Romanzo d’indagine sui generis, narrato in prima persona, al presente, con focalizzazione interna fissa(2) incrinata solo da qualche prevedibile (parallittica) reticenza funzionale alla costruzione dell’effetto sorpresa finale (efficace surrogato, in grado di controbilanciare la ovvia mancanza di suspense (3)), “La libraia di Orvieto” si richiama con successo alla tradizione -più teatrale(4) e cinematografica che letteraria- della commedia nera, senza rinunciare a un nutrito numero di citazioni letterarie (da Tolstoj alla Christie, da Simenon e Beckett, da Durrenmatt a Calvino, ecc.) che, oltre a conferire al testo un ovvio sapore meta-narrativo, rispecchiano i gusti della protagonista, contribuendo a fare di lei un personaggio a “tutto tondo”(5).
Il romanzo “La libraia di Orvieto”, di Valentina Pattavina, è edito da Fanucci.
(1)Valentina Pattavina, La libraia di Orvieto, Fanucci, Roma 2010, p. 13.
(2)Fanno eccezione il “Prologo” e la sua ripresa al capitolo “Dieci anni prima”, unici due inserti di taglio cinematografico in un romanzo per il resto dominato da costruzioni raffinate e “alto-letterarie”, lontanissime dalla lingua scarna caratteristica di tanta letteratura di genere contemporanea. I due inserti assumono, rivisti a lettura ultimata, un tono vagamente hitchcockiano, da Congiura degli innocenti.
(3)Vertendo l’indagine su un “cold case”, la protagonista non si trova mai in pericolo di vita, né, in generale, deve fronteggiare condizioni di particolare rischio; ciononostante, a dimostrazione delle capacità stilistiche e narrative dell’autrice, il lettore rimane incollato alle pagine…
(4)Tracce del passato dell’autrice, a lungo impegnata a teatro nella veste di “direttore tecnico”, emergono da ogni pagina, un po’ attraverso citazioni dirette (su tutte, quella del beckettiano “L’ultimo nastro di Krapp”), e un po’ per i modi di costruzione dell’effetto comico.
(5) Il delinearsi del personaggio passa anche attraverso l’inserimento di una serie di lettere rivolte a un’amica lontana; queste, poste in corrispondenza di nodi cruciali della narrazione, assolvono a una duplice funzione intra-testuale (corrispondenza -ma in fondo, in generale, scrittura- come auto-terapia messa in atto da Matilde per superare il suo trauma) ed extra-testuale (le lettere finiscono per rivelare al lettore il misterioso passato che, fin dalle prime pagine è avvertito come incombente).