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Valeria Ferraro: La poesia al tempo degli androidi

Da Narcyso

Valeria Ferraro, WASURENAMU, Edizioni Forme Libere 2012

valeria ferraro
A pronunciare questi versi é il “corpo dilaniato di un androide dell’ultima generazione – siamo nell’anno 2997 – i cui “circuiti ancora funzionanti (…) contenevano testi scritti in una lingua morta, l’italiano, preceduti da una parola isolata, “wasurenamu”, che in giapponese significa “voglio dimenticare”. Testi ritenuti bizzarri e quindi “archiviati come memorie di un androide (…) nel ventre di uno dei tanti Centri Computazionali Periferici” di quell’epoca.
A leggere il testo, quindi, senza l’ausilio della nota finale, ci troviamo di fronte a uno spiazzamento narrativo dovuto al fatto che l’io narrante non é un vivente ma una macchina che evoca di se stessa pensieri e accadimenti, che non rinuncia alla registrazione di stati d’animo; che scrive poesie insomma.
E’ evidente il significato metaforico che il testo di Valeria Ferraro assume in rapporto all’oggetto/soggetto della lingua poetica, del dire o dell’essere detto, e non in ultima istanza, del rapporto tra procedimento a caldo del gesto di scrivere e raffreddamento – dire mentre sgorga la voce, dire dopo, per riesumazione.
Chiarita la struttura e la motivazione, questi versi non possono esimere il lettore da una doppia lettura: la prima, appunto, a freddo, esplorativa e “difficile” in quanto non informata dal sottotesto appena chiarito, e la seconda che ritorna a schiarire i passaggi ambigui, i riferimenti per nulla evidenti. Questa lettura è dunque accompagnata da un coinvolgimento emotivo che smuove il gioco il meccanismo dell’identificazione.
Che cosa rilegge, dunque, il lettore? Legge l’archeologia di una dimenticanza o di una rimozione culturale: una volta c’era la poesia. Che poi sia un androide femmina a scrivere poesia, vuol dire che Valeria Ferraro attribuisce al corpo della poesia una connotazione percettiva piú forte e probabilmente piú vicina al proprio nominare e sentire.
La volontá di conoscersi attraverso l’esperienza del mondo – esperienza di primi sguardi – non puó eludere la questione della lingua: nominare per la prima volta trovando le parole giuste:

udiamo
la voce dell’acqua
solo se s’imprigiona
fra pareti
e tanto piú acuta
quanto piú resistenti
queste, come pietra
lungo il mare

allora inventiamo
la parola sciabordare

p 26

Si veda, poi, come ai primordi dello sguardo, il cosiddetto minimalismo possa ancora funzionare come tecnica di rafforzamento di un dipingere semplice eppure esattissimo.

ruota panoramica
briciole intorno alla fontana
barche alla pesca
un gatto di ceramica
una rana

p 85

La poesia, quindi, segna le tappe primordiali della conoscenza, é laboratorio della percezione, e non a caso qui si parla della sensibilitá di un corpo femminile al “”rogo, faló”

io non so
come chiamare
ció che ora mi sta di fronte
che si sente crepitare

potenza
orrore
pietá?

p 29

Questo corpo artificiale dialoga con un altro, da cui riceve consensi e dissensi, urti di conoscenza, ma anche identificazioni, desideri e utopie:

guardo vecchie pellicole
anche se non mi é permesso

spiagge affollate
- il sonoro é perduto -

p 33

a dire che la possibilitá della poesia si fonda sul dubbio della conoscenza, non sulla pienezza dell’esperienza:

sono confusa
ancora non riesco a capire
se per me dia maggiore
trepidazione
il ritorno o la partenza

p 35

ed é questa esperienza di trepidazione che conduce chi scrive a porsi nella misura della fratellanza con l’altro:

bisogna considerare
chi ti ha manovrato
assemblato ispezionato
curato levigato
con assoluta pietá
tutta la gente che vedi
ha stigmate
profonde come le tue
- é sopravvissuta -

p 42

fino all’esperienza dell’abbandono nell’altro, e quindi del sacrificio.

Il testo che descrive l’ innamoramento, é quello in cui percepiamo assai poco l’artificiositá del corpo, corpo che potrebbe coincidere totalmente – per desiderio o per processo di proiezione – con quello del suo demiurgo:

io leggo poesie sola
e mangio macedonia
potrei avere trent’anni
potrei essere straniera
lui ne ha piú di cinquanta
beve birra, fuma
ed é vestito di nero
io ho le labbra appiccicose
dallo zucchero della frutta
potrei chiamarmi Sonja

p 38

Sappiamo, successivamente, che “Sonja” ha subito una grave ferita, quando ha cercato “di rientrare a Tokyo//senza una ragione/in cerca di perfezionamento//per una promessa vaga/di conoscenza e protezione//si trattava, credo/ di innamoramento” p 83. Il giapponese, quindi, forse l’ultima lingua imparata da Sonja, é il luogo metaforico del “voler dimenticare”, del non potersi sottrarre, come tutte le cose, umane e non umane, alle tenaglie del proprio destino.
Colpisce, in questo libro singolare, la minuziosa analisi delle esperienze sensoriali della protagonista, umanissime, in realtá, tali da far sospettare che, nell’archiviazione postuma di queste memorie di un androide, ci sia la volontá di archiviare un progetto fallito: un atto di auto ricreazione

《non preoccuparti -
nemmeno per noi
é chiara questa commistione
di nuova e vecchia vita -
non vergognarti
della tua logica imitativa 》

《noi vorremmo talvolta
seguirti, nella tua sparizione 》
p 43

Rimane intatto, invece, nel tempo, ció che facciamo scrivendo poesie:

da che cosa strappare poesia
se non insanguinandosi -
assorbire pallida vita
fabbricarla e mangiarla
pezzo a pezzo
sporgendosi arditi -
spezzarla con queste mie dita

p 70

Sebastiano Aglieco

Bruge, luglio 2012


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