Magazine Poesie

Valeria Rossella - La città di Kitež

Da Ellisse

Valeria Rossella - La città di KitežValeria Rossella - La città di Kitež - Nino Aragno Editore, 2012
Kitež è una città mito. Al centro di una leggenda russa ripresa anche da Rimskij-Korsakov in una delle sue opere, la città, di fronte alla minaccia dell'invasione dei Tartari nel 1200, si inabissa nelle acque del lago Svetlojar per rendersi invisibile, apparendo soltanto come immagine speculare, raggiungibile solo forse con la fantasia, simbolo, in questo libro di Valeria Rossella, anche di una duplicità dell'esistenza, "luogo nascosto - come nota Giovanni Tesio nella sua presentazione - del rovescio e del riflesso, luogo inafferrabile e misterioso,  che trasforma i morti in vivi, nascondendoli nello specchio sfigurante del contrario". Confine, quindi, osmosi di linguaggi, occasione per rimeditare la vita da altre prospettive, come se si guardasse il cielo da sotto la superficie dell'acqua. Dei ricordi, dei rimpianti, del non detto, dei luoghi in cui avremmo potuto essere, delle azioni non portate a termine, di questo è fatta quasi sempre la poesia. Ciò che connota questo bel libro, il filo rosso che lo attraversa in tutta la sua estensione, è il tentativo del poeta di una continua ricostruzione del tempo lineare, un ritornare sui propri passi che però non è comune seppur poetico recupero del ricordo, bensì volontà di rinvenire in esso una svolta del pensiero, una piega nascosta dei fatti, una curvatura dell'esperienza in cui anche la cultura che sostiene Rossella ha una parte rilevante e feconda, essendo insieme chiave di lettura del cammino inverso e innesco di epifanie rivelatrici. L'altro filo rosso è l'amore, sia esso  l'amore per l'arte e la sua lingua sottile che troviamo nella sezione Ut pictura poesis (ovvero, secondo Simonide, pittura come poesia che tace, poesia come pittura che parla), o l'amore per il compianto marito, il poeta Fabio Doplicher, nella commovente poesia estate, o triste. Inutile negarsi che questo lavoro poetico di "afferramento", se vogliamo di restauro del vissuto attraverso la scrittura (o la ri-scrittura), è per sua natura (anzi per la nostra natura di esseri umani) carente, parziale, latente direi come una lastra fotografica, e forse destinato ad una onorevole sconfitta, come se ai nostri destini sovrintendessero quelle "scimmie divine" che danno il titolo ad un'altra sezione del libro, abitanti di un Olimpo ottuso e violento, forse un po' anarchico, ancora più distante del Dio che crediamo di conoscere, qui quasi del tutto assente come il proprietario di un triste albergo a cui tutti siamo diretti. Il sentimento della morte ("la Camola del tempo") è sempre in agguato in queste poesie, traspare da un quadro di Velasquez, da "una ragazza [che] cuce  / sotto la pergola tra foglie di vite", una dissimulata Parca, da una delle "geografie" (è il titolo dell'ultima sezione), luoghi fisici e dell'anima, spazi pieni di echi e di inquietudini, posti in cui si è stati, si ritorna, si registra il cambiamento. Tuttavia su tutto spira quasi uno spirito stoico, controllato ma non distaccato, temperato da un'ironia che a tratti emerge, che prende in certi casi forme metriche ritmate e cantabili, per poi ritornare senza timore verso toni elegiaci, soprattutto, ripeto ancora, quando il tema è il ricordo del marito scomparso, come nella bella poesia Anzolo de sti loghi calmi, verdi, de aqua, in cui il dialetto triestino (Rossella è torinese) è scelta di adesione, è gesto poetico di estremo affetto. Ma quello che importa di più in questo libro, a mio avviso, è la forte centralità del poeta rispetto alla materia poetica che riesce a  maneggiare senza che ne debordi un io invasivo, rispetto ai confini tra passato e presente, a questi bivi tra luce e ombra che si è messo a perlustrare condedendosi pietà senza scivolare nel lamento né senza lasciarsi travolgere da confessionalismi sentimentali. Contribuisce a sostenere e condurre il libro anche una musica ariosa in cui un ricco linguaggio si effonde in versi liberi, una musica che, specie quando "suona" temi del tempo e del rimpianto, mi piace definire leopardiana (con certi avvii talvolta, con certa scelta di termini che mi fanno pensare ad  altri poeti che amo molto, il Raboni de Le case della Vetra, il Giudici de La vita in versi, Orelli, forse anche Fortini, Erba, e certo in questi versi si trova molta della bella tradizione italiana e forse qualche traccia,  in ragione del lavoro di Rossella come traduttrice, della fede nella parola della amata poesia polacca). (g.c.)

da La città di Kitez
La mia anima, fascina di elettroni, non è in frequenza radio.
Nessuna antenna la potrà captare. Indagare
nessuna màntica d'amore.
Rotola
fra l'immondizia per le strade, come un secco
bozzolo di efemera che vive
anni nell'acqua, insetto poche ore.
Non è on line.
Lente di microscopio non la potrà scrutare, scovare
nessuna tecnica di bird-watching.
Becchime per i passeri, accanto a quei santi e quei soldati,
ai pellegrini che trascinano piedi malati per gli affreschi
in Santa Maria della Scala mi ripeti
Forse per l'ultima volta vedo Siena - e l'ultima fu,
fino a che identici
saranno moto e quiete come nelle danze
sulle pareti delle tombe a Tarquinia,
la porta sommersa girerà,
Cocito, lastra di pianto, antimateria
e si congiungeranno l'ombra e la sostanza.
LA PIENA
Eh il temporale che rovescia dentro
la grande stanza l'acqua del naufragio,
signore delle lumache e dei destini,
vortichi nel mio pensiero che stenta a respirare,
voci gorgogliano nei tombini intasati di foglie.
   Attorto nel suo guscio di chiocciola
se ne va il tempo, e giace
immerso nel sangue in fondo al labirinto.
   Tu ragnatela
che toccata in un punto, tutta tremi:
da una terrazza sul Po mio nonno mi mostra
l'altezza della piena di cent'anni fa mentre sua madre lo trattiene,
i volti azzurrognoli nel cielo che stinge.
   La memoria dei vivi non conta,
la memoria dei morti sola resta
che di noi si ricordano, ci pregano
spingendoci sulle stesse terrazze ad ascoltare
il rumore del fiume, l'acqua che sospira
onnisciente e a volte si ritira
scoprendo un letto d'ossa...
   Mio Dio, il confine è uno specchio,
mio nonno mi guarda mentre gli mostro il fiume
che già conosce il posto che mi spetterà.
   (per Fabio:
   durch die Nacht zu dir)

estate, o triste,
appari in una finestra d'ospedale e si spalanca
il sarcofago di un duro
cielo di lapislazzulo   Infili
il tuo cranio di lepre
fra le teste dei dottori che si scuotono
no no
il tempo non esiste il tempo non esiste
dice l'anestesista qui in rianimazione
c'è sempre luce
un ninnolo di luce terrea e perpetua
appeso al metacarpo della tua zampetta
   Mia creatura
dai dolci occhi di carruba   profumo di susino
in questo regno del più e del meno
lucciola e carbonchio rondine
e pterodattilo torsolo e frutto   Brucia
una musica votiva Leise flehen meine Lieder
forma del tempo che ti porta in becco
al cumulo di pagliuzze infinite del suo nido
scintillanze sul dorso delle foglie quando il sole
danza come un derviscio tra gli ulivi, e il mare
nella sua lingua disarticolata dice
la speranza la devi sopportare
   Dimmi quale legge ora ti governa
sterna marina, sterna lucerna
dimmi
qual è la forma in cui posso apparirti
durch die Nacht zu dir
ma viene avanti questa fronte nuvolosa
né cose né parole
e ciò che è espresso torna inesprimibile
da Ut pictura poesis
EVARISTO BASCHENIS
Lunghissime mani affilate si affacciano allo stipite
e suonano strumenti afoni.
Dallo spiraglio penetra un sudario
di luce porpora e avorio spento, membranosa.
Fra catafalchi rossi e tavoli da cucina,
possiamo origliare lo sciupìo di ciò che sta nel tempo.
Saturno alita gelido
su pollame e cipolle,
trote e lumache, musicisti e servi. In bilico sui piani
mele bacate e volumi con pidocchi dei libri
e pesciolini d'argento fra le pagine.
Unica traccia delle dita, le impronte sulla polvere
che copre i liuti e le mandole, gretole di una gabbia vuota
da cui volata via è la musica, a cinguettare
nel puntaspilli di velluto nero, con capocchie di luci
dai nomi arabi: Deneb, Aldebaran. Alphecca.
ANNUNCIAZIONE (LEVOGIRA)
(LORENZO LOTTO)

È perché gli angeli sono tutti tremendi
che la ragazza in primo piano
a sinistra del quadro trasale spaventata
nella sua veste rosso sangue.
Strano, che l'angelo venga da destra
irrompendo corporeo.
Un Dio Padre dalle braccia contadine
sbuca tra le nuvole, sospeso su un giardino del Rinascimento.
Il balzo di un gatto,
e tutto sarà detto. Benedicta tu in mulieribus,
benedicta per il figlio che ti sarà svenato sotto la terza costola.
da Scimmie divine
IN ASSENZA DEL PROPRIETARIO,
IL PERSONALE DELL'ALBERGO
ACCOGLIE I NUOVI OSPITI
I nuovi arrivi stazionano all'ingresso.
Non hanno valigie, né bagaglio a mano,
non prenotato il viaggio.
Un coro muto che strofina i piedi, una Sistina
di gabbiani che stride mentre si
spalancano le stanze.
Calcomanie, immagini, che avete perso tutto il sangue,
il tempo, un ruscello di foglie stellate
sotto piedi invisibili, vi ha resi tutti uguali.
Una ragazza cuce
sotto la pergola tra foglie di vite,
fa cenno perché entrino,
li raccoglie
come perle sfilate della sua collana.
L'altro palazzo è quasi uguale a questo
appena più sdrucciolevoli le scale
Il biancospino è quasi uguale a questo
però non ha profumo né ha sapore
il caffelatte del mattino
Senza posa, proprio come qui,
scorrono le nuvole ma
restano ferme le lancette
degli orologi benché il tempo
animi il suo negozio di pellami
con un guizzo galvanico. Senza posa
farfugliano le labbra ma
in perfetta assenza di respiro.
Stille leben nei toni del malva  
e del grigio: in un trafelato
brusio di crome ne parlò Chopin ma qui
il mondo dei suoni non ha cittadinanza.
Pura materia. Sintassi nessuna.
da Geografie
SCHERZO (Ritorno a casa)
(Andante sinistro per clarino)

M'hai riacchiappato, Torino.
M'hai riacchiappato, mia lugubre sonatina.
A Roma eri una vecchia spina.
Ora m'anneghi nei tuoi cieli di candeggina
e questa Dora, ninfa morticina,
borbotta sortilegi nei tombini.
Mi manderà emissari.
Il teschio di cane in abito da sera.
Non devo guardare nella cappelliera.
NUVOLE E PIETRE
Oggi ti parlo delle nuvole che su lungarno Acciaioli
sbirciano gufesche cupole, passanti e statue
Ne fanno boli d'inchiostro noncuranti e tragiche
Un popolo di nuvole, un fiato volubile di minaccioso pianto
torri, mandrie di uri, un quarto stato di saldatori celesti
un querceto, uno sciame di plancton, drappelli
trafelati di mentite spoglie
Un popolo di fiati, picei, senza scampo, che solo
trovò rifugio nella pietra di guardia alle tombe Medicee,
dove il dolore non duole, e non esiste
entropia nel moto
Valeria Rossella, nata a Torino nel 1953, è al suo quinto libro di poesia. Ha pubblicato sinora Discanti e incanti (Genesi, Torino 1981), L'usignolo meccanico (Edizioni del Leone, Spinea 1991), L'anima del violino (Galleria Pegaso, Forte dei Marmi 1996) e Il luminaio (Crocetti, Milano 2003). Ha tradotto le lettere di Chopin (Il Quadrante - Lindau editore) e alcuni poeti polacchi, fra cui Czeslaw Milosz (La fodera del mondo per la Fondazione Piazzolla, 1996, e Trattato poetico Adelphi 2011). Collabora con varie riviste culturali.
Valeria Rossella - La città di Kitež

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