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Il film racconta bene il fiorire di questa mitologia popolare, addentrandosi con successo nella psicologia antisociale di Vallanzasca, fin da piccolo insofferente a qualsiasi regola (il suo primo "crimine" è stato liberare delle tigri da una gabbia), esemplare modello dell'epoca delle bande, come quella di Luciano Lutring del Giambellino o quella della Magliana, bande di amici che decidevano di votarsi al crimine per professione, con ruoli e strategie ben definite.
Un'epoca in cui anche il mondo della delinquenza comune aveva dei valori, oggi invece non c'è più spirito di gruppo, i delinquenti o sono legati alle mafie locali oppure sono poveri disperati che agiscono al momento del bisogno. Manca sempre di più l'idea del "colpaccio" in banca o del sequestro. Lo stesso Vallanzasca in un'intervista rilasciata in anni più recenti a Pippo Baudo dichiarò di non riconoscersi più nell'attuale malavita.
Il film di Placido, che pecca un po' di esagerazione ed esasperazione nella violenza e negli effetti quasi splatter degli omicidi, cerca di sforzarsi a ricostruire questo clima particolare con un risultato finale di un ritmo scorrevole e avvincente, un buon esempio di poliziottesco anni 2000. Kim Rossi Stuart è un po' ridicolo nel caricare troppo l'accento milanese di Vallanzasca, ma il suo personaggio fa emergere molto bene il contrasto tra un un look raffinato e "ganzo" e un linguaggio volgare di periferia, con toni di sfida. Confrontando la sua recitazione con alcuni spezzoni d'epoca il "bel rené" era proprio così, si credeva il padreterno, aveva un atteggiamento libertario da sfottò, fino all'ultimo non ha mollato e ha cercato nell'evasione dal carcere la sua unica e ultima ragione di vita. Il suo essere leggendario forse si spiega in questo modo, con la sua coerenza, con la sua tenacia e con l'incarnare dei valori (per quanto sbagliati, pur sempre valori), un uomo tosto, ma dai modi galanti (pensava qualcuno), aveva centinaia di ammiratrici che gli scrivevano quando era in carcere, manco fosse un cantante rock. Eppure Renato con un po' di cultura e savoir-faire in più, avrebbe potuto essere in pieno il sogno proibito degli italiani, un personaggio carismatico, supportato da una bellezza che ricorda molto quella di Franco Nero, molto cinematografico già nella sua essenza, ancora prima di essere manipolato nella finzione. Penso che siano queste le ragioni di tanta acclamazione e di questa mitologia, che ha destato non poche polemiche soprattutto nei parenti delle sue vittime.
Eppure penso che dietro la violazione delle norme ci sia un autentico e profondo attaccamento alla vita, un istinto atavico di essere fino in fondo noi stessi, la cancellazione nitzcheana della falsità di un mondo "pulito" per farne ermergere un altro, quello animalesco della sopraffazione, che in fin dei conti, poi, cerca giustizia, affetto, sopravvivenza, conservazione.
Si può amare la figura Vallanzasca o vedere dei film di violenza, unicamente perché, anche senza volerlo o saperlo si ama la violenza, come un artista che può celebrarla pur rimanendo nei gangli del vivere civile. L'artista è un delinquente addomesticato, in fondo. Non a caso Luciano Lutring attualmente si sta dedicando alla scrittura e alla pittura, ha sublimato al meglio i suoi vecchi istinti, il pennello ha sostituito la pistola. Ma è un esempio magari banale, stupido, probabilmente non sarà nemmeno così.
Ma tant'è...andate a vedere questo film su Vallanzasca, cercate di sapere qualcosa di lui.
E qui concludo con una citazione di Pier Paolo Pasolini, rilasciata nella sua ultima intervista, del 1975: Scandalizzare è un diritto, essere scandalizzati un piacere e chi rifiuta il piacere di essere scandalizzato è un moralista.
Qui sotto il link del trailer del film
http://www.youtube.com/watch?v=kWlxQNqS7II
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