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“Valperga”– Mary Shelley I

Creato il 11 novembre 2011 da Marvigar4

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   Se non fosse dipeso da tutto il tempo (e anche qualche soldino) che una casa editrice mi ha fatto perdere, a quest’opera la mia traduzione di Valperga; or the Life and Adventures of Castruccio, Prince of Lucca sarebbe stata nel 2006 la prima in Italia… poco male e peggio per quella casa editrice. Adesso la traduzione è qui per tutti (ovviamente a puntate, come si usava una volta).

Marco Vignolo Gargini

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Mary Shelley (1797-1851)

VALPERGA

o

La vita e le avventure di Castruccio, Principe di Lucca

Traduzione integrale di Marco Vignolo Gargini dall’originale in inglese Valperga; or the Life and Adventures of Castruccio, Prince of Lucca

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Prefazione di Mary Shelley

Gli scritti sulla vita di Castruccio noti in Inghilterra sono generalmente tratti dal romanzo di Machiavelli. Il lettore può trovare dettagli sulle sue reali vicende nella bella pubblicazione di Sismondi Storia delle repubbliche italiane nel Medioevo. Insieme a quest’opera, io ho consultato La vita di Castruccio di Tegrino, e gli Annali Fiorentini di Giovanni Villani.

Quella che segue è una traduzione dell’articolo di Moreri su Castruccio.

Castruccio Castracani, uno dei più celebrati capitani della sua epoca, visse nel quattordicesimo secolo. Apparteneva alla famiglia degli Antelminelli di Lucca e, avendo combattuto giovanissimo a favore dei Ghibellini, venne esiliato dai Guelfi. Non molto tempo dopo prestò servizio nell’esercito di Filippo re di Francia, nella guerra contro i Fiamminghi. In seguito passò di nuovo le Alpi e, unendosi ad Uguccione della Faggiuola, capo dei Ghibellini toscani, conquistò Lucca, Pistoia, e parecchie altre città. Divenne alleato dell’imperatore Luigi di Baviera, contro il papa Giovanni XXII, Roberto re di Napoli, e i fiorentini. Luigi di Baviera lo investì con il titolo di Duca di Lucca, insieme al titolo di Senatore di Roma. Sembrava che niente potesse opporsi al suo coraggio, alla sua buona sorte, quando morì prematuramente nel 1330, all’età di quarantasette anni”.

Le date che appaiono qui talvolta differiscono da quelle adottate nel racconto.

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Capitolo 1

Nascita di Castruccio. La sua famiglia esiliata da Lucca quando lui aveva undici anni.

Le altre nazioni europee erano ancora immerse nelle barbarie, mentre l’Italia, dove la luce della civiltà non si era mai del tutto eclissata, cominciò ad emergere dalle tenebre delle rovine dell’Impero d’Occidente e a ricevere dall’Oriente i raggi di ritorno della letteratura e della scienza. All’inizio del quattordicesimo secolo Dante aveva già dato una forma permanente al linguaggio, che era figlio di questa rivoluzione; egli era personalmente impegnato in quelle lotte politiche, in cui gli elementi del bene e del male si affrontavano, che da allora avevano assunto un aspetto più stabile; la sua delusione e l’esilio gli offrirono l’opportunità di fare da mediatore e produssero la sua Divina Commedia.

La Lombardia e la Toscana, le regioni più civilizzate d’Italia, mostrarono esempi straordinari del genio umano, ma al contempo erano al loro interno lacerate dalle fazioni e quasi distrutte dal furore delle guerre civili. Le antiche contese tra i Guelfi e i Ghibellini ricominciarono con rinnovato ardore, sotto le nuove distinzioni dei Bianchi[1] e dei Neri[2]. I Ghibellini e i Bianchi erano alleati dell’imperatore, affermando la supremazia e l’universalità della sua influenza su tutti gli altri poteri, ecclesiastici o civili; i Guelfi e i Neri erano i partigiani della libertà. Firenze era la capitale dei Guelfi, e usò come pretesto e strumento il potere papale e a sua volta ne era usata.

Le distinzioni tra Bianchi e Neri ebbero origine a Pistoia, una città di una certa importanza tra Firenze e Lucca. Espulsi i Neri da Pistoia, gli esiliati fissarono la loro dimora a Lucca, dove rafforzarono e accrebbero il loro partito a tal punto che, nell’anno 1301, riuscirono ad espellere i Bianchi, tra i quali figurava Castruccio Castracani degli Antelminelli.

La famiglia degli Antelminelli era una delle più in vista a Lucca. Aveva seguito gli imperatori nelle loro guerre in Italia, e aveva ricevuto in ricompensa titoli ed emolumenti. Il padre di Castruccio era il capo della sua casata; era stato un seguace dello sfortunato Manfredi, re di Napoli, e i suoi sentimenti di ghibellino ricevettero un nuovo fervore dall’adorazione che provava per il suo nobile padrone. Manfredi era il figlio naturale dell’ultimo imperatore degli Svevi; prima dei vent’anni aveva ottenuto i più brillanti risultati dopo aver passato le più romanzesche traversie, in ognuna delle quali il padre di Castruccio era stato il suo fedele paggio e compagno. L’incessante animosità con cui i papi successivi perseguitarono il suo regale padrone, accrebbe il suo sentimento d’odio, aumentato dal disprezzo nei confronti della loro politica vile e astuta.

In seguito a Lucca si rianimarono le dispute tra Guelfi e Ghibellini, con i nomi di Bianchi e Neri, e Ruggieri degli Antelminelli fu il primo avversario e la vittima principale delle macchinazioni del partito del Papa. Castruccio allora aveva solo undici anni, ma la sua giovane immaginazione fu profondamente impressionata dalle scene che gli si pararono davanti. Quando i cittadini di Lucca si riunirono nel giorno stabilito per scegliere il proprio Podestà, o magistrato principale, le due parti divise in piazza ostentarono tutto il loro reciproco disprezzo: i Guelfi erano in maggioranza, ma i Ghibellini, come Brenno, nel desiderio di gettare la spada sulla bilancia, assalirono la parte più agguerrita con le armi in mano. Furono respinti. I Guelfi, sbaragliati i nemici, rimasero in possesso del campo dove, sotto la guida dei loro capi, votarono l’esilio perpetuo dei Ghibellini, e un araldo lesse la citazione, che imponeva a tutti i distretti di Lucca di schierarsi la mattina dopo con i rispettivi stendardi e, eventualmente, di attaccare ed espellere con la forza quelli del partito avversario che si fossero rifiutati di obbedire al decreto.

Ruggieri tornò dalla Piazza del Podestà, accompagnato da molti dei suoi principali amici. Sua moglie, Madonna Dianora, aspettava con ansia il suo ritorno, mentre il giovane Castruccio era in piedi davanti alla finestra e, indovinando dall’espressione del volto di sua madre la causa della sua inquietudine, guardava agitato giù per strada casomai vedesse avvicinarsi suo padre: applaudì con gioia e non fece in tempo ad esclamare ‘Arrivano!’ che Ruggieri entrò. La moglie lo osservò dolcemente e con la voglia di far domande, ma preferì non parlare: le sue guance sbiancarono quando udì suo marito dare l’ordine di barricare il palazzo e di non permettere a nessuno di entrare, eccetto quelli che conoscevano la parola d’ordine della sua stessa fazione.

«Siamo in pericolo?» chiese Madonna Dianora a bassa voce ad uno dei suoi più intimi amici. Suo marito la sentì per caso e rispose: «Fatti coraggio, ragazza mia, abbi fiducia in me, come l’hai sempre avuta. Vorrei poterti mandare in un luogo sicuro, ma non converrebbe farti attraversare le vie di Lucca. E allora, Dianora, devi condividere la mia sorte.»

«E non l’ho mai condivisa?» replicò sua moglie. Gli amici si erano ritirati in una sala adiacente, e lei continuò: «Non c’è destino a me più caro che vivere o perire con te, Ruggieri; ma non possiamo salvare nostro figlio?»

Castruccio sedeva ai piedi dei suoi genitori e li fissava con il suo sguardo tenero e ardente. Aveva osservato sua madre mentre parlava e si era appena voltato verso suo padre quando lo sentì rispondere: «Siamo stati cacciati dalla Piazza del Podestà e non abbiamo molte speranze di sconfiggere i nostri nemici. Il destino più mite che ci possiamo attendere è la confisca dei beni e il bando; se decretano la nostra morte, solo le pietre di questo palazzo ci divideranno dal nostro destino. E Castruccio… se qualcuno dei nostri amici potesse portarlo via di qui, io avrei doppio coraggio… ma il rischio è troppo forte.»

«Padre», disse il ragazzo, «Sono solo un bambino e non posso far nulla, ma ti prego di non allontanarmi da te: anche tu, mia cara, carissima madre, io non ti lascerò.»

Per la strada si sentì un galoppo. Ruggieri si mosse e uno dei suoi amici fece ingresso e disse: «È la guardia che va verso la porta della città. L’assemblea del popolo è sciolta.»

«E cosa hanno decretato?»

«Nessuno s’azzarda nemmeno a chiederlo; ma coraggio, mio nobile signore.»

«Dici a me “coraggio”, Ricciardo? Va bene. Mia moglie e mio figlio ormai hanno fatto di me una donna.»

«Stanno recitando l’Ave Maria», rispose il suo compagno. «Presto farà notte e, se avete fiducia in me, tenterò di portare Madonna Dianora in un luogo nascosto.»

«Vi ringrazio molto, mio buon Ricciardo», disse la donna. «Il mio posto più sicuro è a fianco di Ruggieri. Ma il nostro ragazzo… salvatelo, e la benedizione di una madre, il suo calore, i suoi ringraziamenti più sentiti, tutti i tesori che posso darvi, saranno vostri! Conosce Valperga?»

«Sì, il castello di Valperga. C’è la contessa adesso?»

«Sì… e lei è nostra amica. Sarei felice se il mio Castruccio fosse dentro le mura del castello.»

Mentre Madonna Dianora conversava così con Ricciardo, Ruggieri si consultò con i suoi amici. La luce gradevole del giorno svanì e la notte portò con sé la sensazione del pericolo e d’una paura aumentata. I compagni di Ruggieri sedevano nella sala del banchetto del palazzo, vagliando la loro condotta futura: bisbigliavano perché temevano che un tono di voce più alto coprisse i rumori che venivano dalla strada. Ascoltavano ogni singolo passo, come se fosse quello del loro destino incombente. Ricciardo li raggiunse e Madonna Dianora rimase sola con il figlio, in silenzio. Dianora piangeva, tenendo la mano del bambino, lui provava a confortarla e a mostrarle quella forza d’animo che spesso aveva sentito lodare da suo padre, ma il suo piccolo petto si gonfiò nonostante cercasse di trattenersi, finché con il viso rigato da grosse lacrime non si gettò nelle braccia della madre, singhiozzando forte. In quel momento qualcuno bussò violentemente al portone del palazzo. I Ghibellini in assemblea si mossero subito e uscirono precipitosamente con le spade sguainate per raggiungere le scale. Ascoltavano ansiosi e muti le risposte che venivano date al guardiano della porta del palazzo .

Ruggieri abbracciò sua moglie con il timore che fosse l’ultimo abbraccio. Lei non pianse, i suoi sentimenti più alti erano tutti rivolti ad un solo obiettivo: la salvezza di suo figlio. «Se fuggi», disse in lacrime «Valperga è il tuo rifugio; tu conosci bene la strada che vi porta.»

Il ragazzo per un po’ non rispose, poi, con un sospiro, stringendosi a lei «Tu, mia cara madre, mi mostrerai la strada.»

La voce dell’uomo che li aveva distratti bussando rassicurò i Ghibellini rinchiusi, e l’uomo fu ammesso dentro. Era Marco, il domestico di Messer Antonio dei Adimari. Nato a Firenze e guelfo, Antonio aveva abbandonato la sua città natale quand’era dominata dall’opposta fazione, e si era ritirato nel castello di Valperga, di cui sua moglie era contessa e castellana. Era legato a Ruggieri dai più forti vincoli dell’amicizia, e adesso si sforzava di salvarlo. Marco si fece latore delle decisioni decretate dall’assemblea del popolo. «Allora le nostre vite sono salve», singhiozzò Dianora con uno sguardo pieno di gioia, «e tutto il resto è come le foglie secche dell’autunno: cadono dolcemente senza far rumore.»

«La notte fa presto a calare», disse Marco, «e prima dell’alba dovete partire; verrete con me a Valperga?»

«No», replicò Ruggieri, «saremo anche al lastrico, ma non graveremo sui nostri amici. Ringrazia il tuo signore per la gentilezza infinita che mi ha usato. A lui lascio il compito di salvare per me ciò che può dalle rovine della mia fortuna. Se il suo interesse privato è ben saldo e non teme i nostri governanti, imploralo di far di tutto per proteggere le mura indifese di questo palazzo: era la dimora dei miei antenati, la mia eredità. Io qui ho vissuto le mie ore da ragazzo, un tempo la sua sala fu allietata dalla presenza di Manfredi. Forse un giorno il mio ragazzo ritornerà, e non vorrei che trovasse il palazzo di suo padre in rovina. Non possiamo rimanere vicino a Lucca, ma ci ritireremo in una città della nostra fazione, e là aspetteremo tempi migliori.»

Dianora fece in fretta i preparativi per la partenza, i cavalli furono portati davanti al portone, e le stelle stavano scomparendo alla luce dell’alba mentre il corteo a cavallo procedeva per le stradine di Lucca. Il loro cammino fu sicuro fino alle porte della città, e il cuore di Ruggieri sobbalzò quando in aperta campagna si trovò salvo insieme alla moglie e al figlio. Ma il sentimento di gioia era represso dal ricordo che la vita era tutto ciò che restava a loro e che la miseria e l’oscurità erano le infermiere burbere dei loro anni di declino, i tutori impietosi del giovane e ambizioso Castruccio.

Gli esiliati proseguirono il loro tragitto lentamente verso Firenze.

Firenze allora si trovava in un terribile stato di discordia civile. I Ghibellini avevano il dominio, ma non passava giorno senza risse e spargimenti di sangue. I nostri esiliati trovarono molti loro concittadini sulla stessa strada, imbarcati nella stessa triste impresa di cercare protezione in uno stato straniero. Il piccolo Castruccio vide molti dei suoi più cari amici tra essi, e il suo cuore, commosso dalle loro lacrime e dai loro lamenti, si accese di rabbia e di desiderio di vendetta. Era da scene come queste che lo spirito di fazione sorse e divenne così forte in Italia. I bambini, troppo giovani per analizzare la propria disgrazia, videro la miseria dei genitori e provarono il primo odio implacabile nei confronti dei loro persecutori: queste scene non furono mai dimenticate nei giorni che seguirono, le ferite rimasero sempre aperte e il sangue che circolava giovane nelle loro vene mantenne vivi i sentimenti di passione e di rabbia così com’erano nati la prima volta.

Quando arrivarono a Firenze furono accolti con cordialità dai capi dei Bianchi di quella città. Carlo di Valois aveva appena inviato degli ambasciatori al governo per offrire la sua mediazione nel ricomporre le dispute, e proprio da quel giorno il partito dei Ghibellini che era preposto al Consiglio della città era in riunione per discutere l’annosa questione. Quindi si può facilmente immaginare che, completamente presi dai loro propri affari interni, i Ghibellini non potessero prestare l’attenzione che in altre occasioni avrebbero prestato ai rifugiati lucchesi. Il giorno dopo Ruggieri lasciò Firenze.

Gli esiliati proseguirono per Ancona. Questa era la città nativa di Madonna Dianora e là furono ricevuti con cordialità dai suoi parenti. Ma per Ruggieri era un cambiamento duro da digerire, passare dalla vita attiva di capo di una fazione all’inoperosità di un individuo, che non era coinvolto alle sorti del governo sotto cui viveva, e aveva scambiato le distinzioni di rango e benessere con quello sterile rispetto che l’onorata vecchiaia poteva richiedere. Ruggieri era stato un uomo di grande coraggio e questa virtù, non più attiva, assunse l’aspetto di pazienza e di forza. Il piacere a cui teneva di più era la cura incessante che metteva nell’educare suo figlio. Castruccio era un ragazzo pronto e arzillo, audace, incurante degli esiti e dominato solo dal suo affetto per i genitori. Ruggieri incoraggiava la sua predisposizione all’avventura e, pur provando comprensione per i timori e le ansie di sua moglie, quando Castruccio si avventurava in mare in una giornata di vento a bordo di una barchetta, o quando lo vedeva, senza sella o briglie, montare un cavallo e, a capo di una banda di suoi compagni, cavalcare verso i boschi, lui non osava esprimere quei timori, o controllare l’audacia di suo figlio.

Così Castruccio crebbe attivo, snello e aggraziato nel fisico, fiducioso di poterla scampare sempre da solo. Il ragazzo comunque non era avventato, sembrava capire istintivamente i limiti della possibilità, e spesso reprimeva la sfrontatezza dei suoi compagni e mostrava il suo giudizio e la sua pazienza superiori nel superare le stesse difficoltà con mezzi più lenti e sicuri. Ruggieri lo disciplinò per tempo in tutti i compiti di cavaliere e soldato: Castruccio brandiva una lancia adatta alla sua taglia, tirava con arco e frecce, e gli studi essenziali a cui si applicava divennero, in accordo con la sua natura dinamica, la fonte di uno svago inesauribile. Accompagnato da una ghenga di ragazzi, fingevano che una corte cinta da vecchie mura, o qualche torre diroccata, fosse la città di Troia, o un’altra città famosa dell’antichità, e allora mimando la balestra, la lancia e le frecce, attaccavano e difendevano, mettendo in pratica quelle lezioni che i loro precettori gli avevano insegnato.

Il primo anno del loro esilio sua madre morì: la natura fragile di Madonna Dianora fu annientata dalle difficoltà e dal dispiacere. Lei raccomandò suo figlio al padre con tenero amore, e poi chiuse gli occhi in pace. Questo evento sconvolse per molto tempo la giovane mente di Castruccio e gli fece interrompere gli studi. Suo padre, che amava profondamente sua moglie, e che in lei aveva trovato un’amica a cui confidare quei rimpianti che l’orgoglio gli impediva di esprimere ad ogni altra persona, adesso la piangeva con un dolore immenso.

Ruggieri non ce la faceva a guardare le lacrime silenziose negli occhi di Castruccio che, al ritorno dai suoi esercizi con i compagni, non trovava sua madre ad abbracciarlo; sentiva che i suoi sentimenti rifiutavano la lezione che volevano imprimere.

Ruggieri si consolava di tutte le sue trascorse disgrazie ammirando il promettente talento e l’indole di suo figlio, e la tenerezza del genitore, la più forte delle sue passioni, ma spesso la più sfortunata, era per lui un raggio di sole, solitario, ma lucente, che illuminava i suoi anni di esilio e di infermità.

E nel momento in cui godeva di più questa benedizione, la sua sicurezza fu presto disturbata. Una mattina Castruccio scomparve e il seguente messaggio d’insicurezza indirizzata a suo padre fu l’unica traccia che lasciò delle sue intenzioni:

Carissimo padre, perdonami. Tornerò tra pochi giorni. Io sono al sicuro, quindi non inquietarti per me. Non essere arrabbiato con me perché, anche se sono indignato per la mia debolezza, io non posso resistere! Sta’ pure certo che tra meno di due settimane il tuo indegno figlio sarà ai tuoi piedi.

Castruccio.

Era l’anno 1304, Castruccio aveva quattordici anni. Ruggieri sperava che suo figlio fosse al sicuro, che mantenesse la sua promessa e tornasse presto, ma intanto aspettava con un’ansia indescrivibile. La causa della fuga di Castruccio era singolare, mostrava a un tempo gli atteggiamenti tipici dell’età, del paese in cui era vissuto e l’immaginazione e l’indole del ragazzo.



[1] In italiano nel testo.

[2] C.s.



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