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“Valperga”– Mary Shelley III

Creato il 16 novembre 2011 da Marvigar4

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Mary Shelley (1797-1851)

VALPERGA

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La vita e le avventure di Castruccio, Principe di Lucca

Traduzione integrale di Marco Vignolo Gargini dall’originale in inglese Valperga; or the Life and Adventures of Castruccio, Prince of Lucca

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Capitolo 3

Francesco Guinigi, il contadino militare. Castruccio risiede da lui per un anno.

   Castruccio attraversò Bologna, Ferrara e Rovigo[1] per arrivare a Este. Non era il periodo più propizio per una visita in Lombardia. La bellezza di quella regione consiste nella sua vegetazione squisita: i suoi campi di grano ondeggiante seminati insieme a file d’alberi a cui fanno da festone le viti, formano delle prospettive, sempre varie nelle combinazioni, che deliziano e rilassano gli occhi; ma l’autunno aveva quasi spogliato il paesaggio e le pianure erano sommerse dall’inondazione dei vari fiumi. La mente di Castruccio, tesa ad immaginare gli eventi futuri, non si rallegrò davanti a questo scenario invernale; ma egli vide con gioia le montagne, che erano la meta del suo viaggio, diventavare sempre più distinte. Este è collocata vicino ai piedi dei colli Euganeani, su un declivio sormontato da un esteso e pittoresco castello, oltre il quale c’è un convento; da dietro spuntano le colline, dalle cui vette si scopre la vasta pianura della Lombardia, limitata ad ovest dai lontani Appennini bolognesi, e a est dal mare e dalle torri di Venezia.

   Castruccio salì sulla collina subito sopra la città per cercare l’abitazione di Guinigi. Il vento autunnale soffiava sopra la collina disseminando le foglie cadute dei castagni e le rapide nubi, trasportate sull’illimitata pianura, sembravano, con l’andare e il venire delle ombre, un mare agitato d’acque scure. Castruccio trovò Guinigi davanti alla porta di casa sua, una casupola dal tetto basso, più adatta a un contadino che non a un uomo cresciuto tra guerre e palazzi. Guinigi aveva circa quarant’anni: le asperità della guerra avevano già prima di allora diradato i capelli sulle sue tempie, e segnato qualche ruga sulla sua faccia, radiosa di benevolenza. L’intelligenza brillante del suo sguardo era temperata dalla gentilezza e dalla saggezza, e il suo aspetto deciso da soldato aveva ceduto a favore delle sue ultime occupazioni da campagnolo, poiché, sin dal suo esilio, aveva smesso di combattere e si era assuefatto con piacere al cambiamento.

   Non appena Castruccio lo vide si mise ad ammirare con un senso di gioia profondissima il figlio di Guinigi, un bambino di sette anni che lavorava con i contadini a spillare il vino dalle botti: era proprio il momento in cui finiva la vendemmia e gli ultimi lavoranti erano impegnati a spremere l’uva. Il giovane si fermò: ma per l’aria di dignità che era visibile sotto i suoi vestiti da contadino, non poté credere che quello era l’amico di suo padre; suo padre, che in esilio non aveva mai dimenticato d’essere un soldato e un cavaliere. Gli dette la lettera e, quando Guinigi l’ebbe letta, abbracciò il figlio orfano del suo vecchio compagno e lo accolse con una affetto che riscaldò il cuore di Castruccio. Sentire il nome di uno straniero colpì subito Arrigo, il suo piccolo figlio, che si fece avanti con entusiasmo per salutarlo, portando con sé un gran canestro d’uva e fichi. Guinigi era molto divertito dallo stupore lampante con cui il suo ospite considerava l’aspetto della casa e del suo padrone, e disse: «Vieni nella casa di un contadino che mangia il pane lavorato dalle sue mani; questa è una novità per te, ma la troverai istruttiva. Ai miei occhi, che non hanno la stessa luce dei tuoi, la vista dei doni della natura e dei contadini senz’armi che coltivano la terra è molto più piacevole di un esercito di cavalieri che stanno in bella schiera a sommergere i campi di sangue e a distruggere le speranze benefiche del contadino. Ma queste sono dottrine nuove per te e forse tu, nel profondo del tuo cuore, non preferirai mai, come me, questa casupola a quel magnifico castello che sta lassù.»

   A dire il vero, Castruccio fu molto deluso. Una volta sceso dalla città e viste le allegre insegne sventolare dalla cima del castello, udito il clangore delle armature e scorto i raggi del sole brillare sulle armi della sentinella, aveva sperato di dover trovare nel suo futuro protettore uno dei prediletti del grande capo. Si sarebbe accostato a lui con più rispetto se fosse stato un monaco del convento vicino piuttosto che un campagnolo contento, un contadino le cui visioni ristrette non andavano oltre le botti e le stalle.

   Queste furono le prime sensazioni di Castruccio, ma ben presto si rese conto d’essere entrato in un nuovo mondo nella società di Guinigi, un mondo con la cui fonte d’azione non poteva legare, ma nemmeno disprezzare. Era caratterizzato da una moralità semplice eppure sublime, che si basava su principi naturali e non ammetteva falsità. Guinigi pensava soltanto al dovere dell’uomo verso l’uomo, mettendo da parte le differenze sociali, e con umiltà considerava il più umile dei contadini affine alla sua nobile mente. Esercitando le più elevate virtù, coltivava anche un gusto e un’immaginazione che rendeva degno ciò che si sarebbe definito volgare, come le nuvole del giorno che diventano campi color viola e oro, dipinte dal sole al tramonto. La sua immaginazione si sarebbe arrestata solo quando lui l’avesse obbligata a foggiarsi di belle corruzioni, morte, e miseria, quando era camuffata con abiti reali, con le insegne di un esercito vittorioso, o la falsa aureola della gloria sulle rovine fumanti di una città distrutta. Allora il suo cuore era disgustato, e i vessilli del trionfo o il canto della vittoria non potevano fargli dimenticare i molti morti e i gemiti della tortura che facevano esultare gli assassini privilegiati della terra.

   Quando Guinigi e Castruccio divennero intimi, il ragazzo desiderò conversare con lui e sforzarsi di provargli che nel presente stato di follia dell’umanità era meglio se un uomo prendeva il sopravvento per governare gli altri. « Sì », disse Guinigi, « Che sia un uomo, se non è concesso a più di uno, a prendere il sopravvento con saggezza, e che sia d’insegnamento agli altri: insegni loro le arti preziose della pace e dell’amore.»

   Guinigi era uno entusiasta strano. Uomini, come Alessandro e gli altri conquistatori, si erano abbandonati alla speranza di sottomettere il mondo e di diffondere con i loro trionfi lo sviluppo tra le barbarie. Guinigi sperava, quanto futilmente!, di porre una pietra per il tempio della pace tra i colli Euganei. Aveva un’anima straripante d’affetto che non poteva limitarsi a suo figlio, o alla crescita del suo paese, o ad essere spirituale nell’adorazione metafisica di un’ideale bellezza. Si dedicava ai suoi simili e per vederli felici riscaldava il suo cuore con un piacere provato da pochi. Quest’uomo, i suoi voli fantasiosi, la sua appassionata bontà e le sue umili occupazioni, erano un enigma che Castruccio non riuscì mai a risolvere. Ma, pur non condividendolo e comprendendolo, subito provò per lui il più caloroso degli affetti.

   Castruccio voleva parlargli del suo destino futuro. Guinigi disse: «Tuo padre ti ha raccomandato ai miei consigli, e tu mi devi permettere di fare la tua conoscenza, prima che possa darti dei suggerimenti. Sei molto giovane, e non c’è fretta. Dammi sei mesi, non rimarremo passivi. Faremo escursioni per il paese: l’inverno per il contadino è il tempo degli svaghi, così sarò al tuo servizio quanto basta. Staremo molto insieme e parleremo di molti argomenti, e gradualmente capirò le basi su cui costruirai la tua vita futura.»

   Viaggiarono, si recarono a Padova, a Venezia, la splendida città che solleva la sua testa dalle onde del mare; per giorni percorsero la costa insieme, non avendo altro fine che godere le bellezze della natura. Poi, a casa, salirono i colli Euganei e penetrarono nei loro recessi. Guinigi aveva un ultimo scopo, desiderava imprimere nella mente del suo allievo un amore per la pace e un gusto per i piaceri rurali. Un giorno si trovavano sulla vetta del Monte Selice, un colle simile a un cono tra Este e Padova, e Guinigi con il dito indicò il paesaggio intorno. «Che paradiso è questo!» disse. «Adesso è spoglio, ma d’estate, quando il grano ondeggia tra gli alberi, e l’uva matura fa ombra alle strade, quando vedi dappertutto contadini lieti portare le belle mandrie a pascolare, e il sole, e l’aria, e la terra stanno tutte lì a produrre per l’uomo tutto ciò di cui ha bisogno, e il terreno è coperto di vegetazione e l’aria accende la vita, è un luogo in cui il Creatore del mondo riposerebbe volentieri, felice della sua creazione. Com’era diverso qualche anno fa! Hai sentito parlare di Ezzelino il tiranno di Padova, sotto la cui egida i fiumi scorrevano sangue, e l’infelice contadino trovava il suo raccolto mietuto dalla spada del soldato invasore? Guarda quei contadini laggiù, che pascolano il bestiame coronato di fiori: vestiti con i migliori abiti da festa e camminando in solenne processione; i loro buoi procedono benedetti da Sant’Antonio, perché siano messi al riparo dalle avversità delle stagioni successive. Pochi anni fa, al posto dei contadini, erano i soldati a marciare lungo la strada: a ranghi stretti mostravano la loro disciplina esemplare, le armi riempivano l’aria di suoni trionfali; i cavalieri pungolavano i loro destrieri, che inarcavano i fieri colli, quasi felici del proprio destino. Che andavano a fare? A distruggere una città, a uccidere i vecchi, gli inermi, le donne, e i bambini, a demolire case serene. E così, terminato l’eccidio, i poveri disgraziati sopravvissuti non avevano altro riparo che le nude, annerite mura, dove prima le loro case sorgevano ordinate.»

   Castruccio ascoltò impaziente e gridò: «Ma chi non desidererebbe essere un cavaliere, piuttosto di uno di quei contadini, le cui menti sono umiliate dal lavoro?»

   « Io no », replicò deciso Guinigi. «Per quanto la mente umana possa essere contorta, che gioia ci può essere in quella che è una malattia, e preferirla alla coltivazione della terra e alla contemplazione della sua bellezza! Che strano errore è quello, che una vita da contadino sia incompatibile con l’evoluzione dell’intelletto! Ahimè! Povere anime, sono troppo piegate dal lavoro per istruirsi, e la loro fatica, che non incontra il plauso dei loro simili, appare come una degradazione. E se volessi rappresentare la felicità su questa terra, la mia immaginazione evocherebbe la famiglia di un contadino tra i campi, la cui proprietà è sicura e il cui tempo scorre tra il lavoro e i piaceri intellettuali. Adesso il mio destino è questo. Il crepuscolo della mia vita si avvicina gentilmente, e non ho rimpianti per il passato, né desideri per il futuro, ma amo andare avanti così come sono.»

   « Sì », gridò ancora Castruccio, « Hai trascorso la tua vita, e sai che cos’è, ma io, da vivo, preferirei morire piuttosto che vivere da perfetto sconosciuto. Non è la fama che rende gli uomini dèi? Non voglio passare i miei giorni nell’indolenza: io devo agire, essere felice… essere qualcuno. Mio padre non voleva che diventassi un contadino e un viticoltore, ma che seguissi le sue orme, e questo è il mio proposito, e morirei pur di raggiungerlo.»

   Un anno passò e Castruccio viveva ancora nella piccola casa di Guinigi. Capì che non era vano per quel nobiluomo vantarsi di mangiare il pane che aveva lavorato: lo vide alle prese con l’aratro, tagliare le viti, fare tutto quello che fa un agricoltore. C’è un che di pittoresco nel duro lavoro di un contadino italiano. Non è, come nei climi del nord, dove si sopportano il freddo, l’umido e le cure per essere scarsamente ripagati, e l’ansia infinita spesso termina con la perdita del raccolto dovuta alla durezza del clima. Guinigi e i suoi compagni si alzavano con il sole che, sorgendo dal mare, illuminava la vasta pianura con i suoi raggi. La vegetazione più bella cresceva intorno a loro: le strisce di terra erano coltivate a frumento e fagioli; erano divise in alcune parti da file d’olivi, in altre da olmi o da pioppi, e le viti si appoggiavano. Le siepi erano fatte di mirto, il cui profumo aromatico si diffondeva nell’aria immobile di mezzogiorno, quando i lavoratori riposavano, appisolandosi sotto gli alberi, cullati dal mormorio dei ruscelli che bagnavano i loro terreni. La sera cenavano sotto il cielo aperto: gli uccelli dormivano, ma la terra era illuminata da numerose lucciole e l’aria era piena del canto dei grilli e della presenza dei coleotteri. L’occidente s’era abbuiato presto, ma negli evanescenti raggi del tramonto guidava la luna a mo’ di barca, mentre Venere, come un altro satellite della terra, brillava proprio sopra la luna crescente, appena più splendente, e il profilo dei frastagliati Appennini era marcato dal buio sottostante.

   I loro raccolti erano abbondanti e frequenti. In giugno alla falciatura seguiva subito la mietitura, e l’ara ben battuta, come la descrive Virgilio, accoglieva i cereali; poi c’era il raccolto del grano, e alla fine la splendida vendemmia, quando i magnifici bovini della Lombardia bianchi come colombe a malapena potevano trascinare i carri scricchiolanti carichi di frutta.

   Castruccio seguiva le fatiche di Guinigi, e Guinigi, ben fermo sulla vanga, avrebbe dato al giovane principi morali universali e placata l’accesa immaginazione del ragazzo per seguire i suoi percorsi. In quel paese tutto aveva per Castruccio l’aspetto immediato della bellezza divina ed eterna: conosceva ogni fiore del campo e poteva descrivere le sue varie caratteristiche e quale insetto lo avrebbe scelto per succhiarne il nettare. Conosceva la forma e la vita d’ogni piccolo essere di quella popolata regione, dove il sole sembra ravvivare ogni atomo nella vita, e ciò che era insignificante agli occhi di tutti, per lui appariva investito di attributi diversi e attrattive insolite.

   Guinigi sedeva ancora, con Castruccio accanto a lui, sulla porta della sua casetta, osservando il lavoro serale dei contadini, quando il vino veniva spillato dall’ultimo tino. Arrigo, di un anno maggiore, li aiutava. Castruccio disse: «Invece di sei mesi te ne ho concessi dodici, e non ho fatto cenno al mio futuro destino. Certo, siamo stati impegnati così piacevolmente durante l’estate che quasi l’ho dimenticato. Ma io non posso vivere un altro anno tra queste colline, tu non sai che amarezza ho nel cuore, quando sento il cozzo delle armi provenire da quel castello, io, che ho consumato una giovinezza modesta.»

   Guinigi sorrise e gli rispose: «Io ho riflettuto per te e ho penetrato i tuoi pensieri segreti, anche se tu non parli. Domani faremo un viaggio, e ben presto sarai presentato ad una persona che ti condurrà verso quella vita le cui promesse di gloria sono tanto attraenti per te. Quindi, dì addio a queste colline: non le rivedrai ancora per tanti anni.»

   Quella notte la speranza tolse il sonno a Castruccio. La sua immaginazione, che allora s’era fermata alle falci, ai carri, alle viti e alla filosofia semplice di Guinigi, adesso rientrava nei suoi percorsi abituali, nei desideri di un mondo più illustre allevati dal ragazzo. Le nubi a pecorelle nascondevano la luna, e la terra era investita da una luce vaga che gradualmente spuntava. Castruccio vide i cavalli sellati pronti sulla porta, e s’affrettò a raggiungere Guinigi. Prima di partire baciò con affetto Arrigo che dormiva e mormorò: «Temo che questi occhi saranno velati di lacrime, quando saprai che non farò ritorno. Dolce ragazzo! Ti amo come un fratello, e spero un giorno futuro di dimostrarti il mio affetto nei fatti più che nelle parole.»

   Guinigi sorrise dello spirito ambizioso di Castruccio, sorrise considerando che, pur chiedendo protezione, essendo ancora un ragazzo, i suoi pensieri erano sempre rivolti a quel potere che un giorno avrebbe acquisito e a quella protezione che lui avrebbe dato agli altri.

   Cavalcarono in silenzio lungo la via già nota che portava a Padova. Dopo aver fermato i cavalli in questa città, proseguirono il loro viaggio verso Venezia. Chi non conosce Venezia? Le sue strade lastricate dall’eterno mare, le sue belle cupole e i maestosi palazzi? Oggi Venezia non è la stessa che Castruccio visitò, adesso gli abitanti corrotti se ne vanno ‘accovacciati come granchi per le loro calli consunte’[2]: allora i veneziani erano al culmine della loro gloria, poco prima che si istituisse il regime aristocratico, e il popolo lottava per ciò che aveva perduto… la libertà.

   Guinigi e il suo giovane compagno rimasero muti durante il loro lungo tragitto. Guinigi stava per incontrare gli amici della sua giovinezza passata tra le battaglie e forse la memoria richiamava quelle scene. Castruccio sognava il futuro, e l’incertezza del suo destino amplificava soltanto la fantasia della splendida parte che lo attirava e che stava per recitare nel grande teatro. Alla fine, giunti sulle rive della Laguna, presero la gondola che li portava in città. Guinigi si rivolse al ragazzo: «Tu mi affidi il tuo destino e io devo spiegarti il progetto che ho per te, e allora puoi giudicare se merito tutta la fiducia che mi dimostri e riponi in me. Sappi, mio caro Castruccio, che l’Italia è in condizioni misere e distolta da lotte civili, e sappi quanto poco onore uno come te, esule dalla sua città nativa, possa acquistare, qualunque sia la fazione che può scegliere. Gli sforzi più faticosi possono essere sacrificati all’intrigo politico, e sicuramente si è ripagati soltanto con l’ingratitudine, qualunque potere si serve. In più, oggi un’arte politica vergognosa regna nei palazzi dei principi italiani, che li rende cattivi maestri per una gioventù che, finché può, dovrebbe preservare quella innocenza e quella sincerità di cui il mondo troppo in fretta li priverà. Inevitabilmente sarai disgustato dalle idee anguste, dai tradimenti, dalle frodi degne di pezzenti che sono negli animi e influenzano le azioni dei nostri fierissimi nobili.

   È perciò necessario che tu avvii la tua carriera cavalleresca fuori d’Italia. Gli onori che otterrai da un sovrano straniero ti nobiliteranno agli occhi dei tuoi compatrioti, e ti permetteranno, quando tornerai, di giudicare con imparzialità lo stato del tuo paese, e di scegliere, senza essere influenzato dalla grettezza delle fazioni, il corso che vorrai intraprendere. È con quest’intento che io ti presento ad un mio vecchio amico, un inglese che sta per tornare nella sua patria. L’ho conosciuto molti anni fa, quando aveva accompagnato Carlo d’Angiò in Italia. È trascorso molto tempo da quando Sir Ethelbert Atawel è tornato in Inghilterra, ma, in occasione della successione al trono di un nuovo re, è stato eletto, come persona esperta degli usi del santo soglio, alla testa di un’ambasceria presso il papa. Terminata la sua missione, ha attraversato le Alpi per prendere l’ultimo congedo dai suoi amici italiani, prima di iniziare ad assumere un ruolo insigne nel suo paese. Ti affido, mio giovane amico, ai consigli di questo nobile gentiluomo. Per quasi venti anni siamo rimasti separati, ma il nostro attaccamento non è nato solo da un rapporto casuale, tra noi c’erano una grande stima e un legame saldato da un giuramento e, sebbene a distanza di tempo la vita ci ha tanto mutato d’aspetto, io dico ancora di mantenere alla lettera e per intero il giuramento che feci a lui, e credo che anche lui farà lo stesso con me.

   Un altro motivo mi spinge a mandarti in Inghilterra. Laggiù c’è un tuo parente facoltoso di nome Alderigo, che ha chiesto ad Atawel di informarsi sulla sorte dei vari membri degli Antelminelli in esilio, e in particolare di tuo padre. Sembra proprio dalla sincerità delle sue informazioni che, qualora tu ti recassi in Inghilterra, non ti troverai senza amici e non vivrai in miseria. Come te io sono in esilio e come te io sono privato di tutte le risorse, e mi sono salvato dall’imbarazzo solo grazie al lavoro di cui fortunatamente vado fiero. So che per te non è piacevole dipendere dal favore di Atawel, ma puoi contare sulla eccezionalità della tua parentela, e credo che Atawel abbia il potere e la volontà di esserti utile.»

   La gondola entrò nel Canal Grande e si fermò sui gradini di un elegante palazzo. Castruccio non fece in tempo a commentare le parole di Guinigi, lo seguì in silenzio per tutte le stanze sfarzose, ricoperte di seta e tappezzerie, con pavimenti di marmo, fino al salone dei banchetti, dove il proprietario del palazzo sedeva circondato dall’aristocrazia veneziana. Castruccio, d’animo infantile, si fece piccolo piccolo a vedere il raso e l’oro di questi nobili, e poi si soffermò sull’aspetto dignitoso del suo compagno vestito con gli abiti umili di un contadino italiano: ma il suo disagio divenne orgoglio e stupore nello scorgere quest’uomo modesto ricevuto con onore e abbracciato amorevolmente da questo consesso di signori. I saluti più cordiali risuonavano sin dal fondo del salone, quando tutti si strinsero attorno per dare il benvenuto al vecchio amico e consigliere, al quale molti di loro erano assai obbligati per la sua saggezza e per il suo fermo coraggio. C’era una tenerezza nel sorriso di Guinigi che lo elevava sopra gli altri, una sensibilità raggiante nei suoi occhi che aggiungeva grazia ai suoi movimenti rapidi ed espressivi, e un garbo che temperava la franchezza dei suoi modi. Guinigi presentò Castruccio ai signori. Il giovane era reso splendido dalla meraviglia e incontrò un’accoglienza accattivante da parte degli amici del suo protettore.

   «Rimarrò solo pochi giorni a Venezia», disse Guinigi al padrone di casa, «ma ti vengo ancora a trovare prima che mi ritiri nella mia fattoria. Adesso dovresti dirmi dove posso trovare il tuo ospite inglese, Sir Ethelbert Atawel, perché ho una faccenda con lui da concludere.»

   E un uomo si alzò e avanzò venendo da una zona appartata del salone. La sua figura formava uno strano contrasto con i volti abbronzati e gli occhi scuri degli italiani che gli erano intorno. Aveva i tratti del sassone ben nutrito, addolciti da una delicatezza non comune: i suoi capelli biondi adombravano leggermente le belle tempie, e la sua snella persona denotava eleganza piuttosto che senso del potere; il suo volto aveva l’espressione di chi pensa molto, pensieri plasmati da una mente curiosa e ancora delicata. Avanzò verso Guinigi, le sue labbra erano quasi convulse, una lacrima spuntò furtiva appena afferrò la sua mano e disse: «Ti sei dimenticato di me?»

   Guinigi rispose con enfasi fremente: «Mai! ».

   I cuori dei due amici erano al colmo della gioia. Si congedarono dalla compagnia e scesero verso la gondola, dove avrebbero potuto esprimere in privato il loro affetto richiamato alla mente.



[1] Rivigo nell’originale.

[2] Crouching and crab-like through their sapping streets è un verso dell’Ode di Lord Byron dedicata a Venezia.



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