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“Valperga”– Mary Shelley IX

Creato il 05 dicembre 2011 da Marvigar4

castello

Mary Shelley (1797-1851)

VALPERGA

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La vita e le avventure di Castruccio, Principe di Lucca

Traduzione integrale di Marco Vignolo Gargini dall’originale in inglese Valperga; or the Life and Adventures of Castruccio, Prince of Lucca

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Capitolo 9

Descrizione del Castello di Valperga. Amicizia e Amore.

   «Questa strada la conosco bene», pensava Castruccio attraversando la pianura di Lucca e dirigendosi verso i colli dei Bagni [1]. «C’è sempre quella montagna che, come un muro scosceso e massiccio, sormonta e collega gli altri Appennini; le vette più basse sono ancora radunate intorno alla montagna, attirando e trattenendo le nubi che si fermano sulle loro cime e poi lentamente escono. Che splendido abito di neve hanno indossato questi vecchi monti per proteggersi dal tramontano [2], che li tormenta per tutto l’inverno, mentre i loro fianchi neri sembrano quasi ombre di una statua di marmo. Osservando questi colli, è come se all’improvviso stessi ricordando un’esistenza precedente, come se una ressa d’idee irrompesse in me e la nascita dei miei primi anni, morti da tempo, rivivesse adesso. Là su quella collina c’è un vecchio ovile, dove una volta mi rifugiai durante una tempesta, e c’è il castello dei Fondi, accanto al quale crescono dei grossi lecci; e in quel recesso della montagna si trova la sorgente sacra dove nelle mattine d’estate Eutanasia e io abbiamo spesso raccolto fiori e messo le foglie come barche, guardandole inghiottire e poi riemergere nel mulinello di quella strana polla; mi chiedo se l’alto cipresso ancora getta la sua ombra sull’acqua; penso proprio che mi piacerebbe sedermi come in passato sulle sue radici muscose, con Eutanasia al mio fianco.»

   Il cuore di Castruccio in seguito si rasserenò molto a riconoscere gli oggetti che aveva dimenticato per così tanti anni, con i quali aveva avuto una gran familiarità. La forma tipica dei rami di un albero, la tortuosità di un sentiero molto battuto, i mormorii dei piccoli ruscelli ornati da alberelli, tutte cose che sarebbero apparse indifferenti a chi le vedeva per la prima volta, ma che in lui avevano impresso un marchio specifico, un aspetto peculiare, che destava i suoi ricordi sopiti da tanto tempo.

   La strada che portava da Lucca a Valperga attraversava in linea retta la pianura fino ai piedi della roccia dove il castello fu costruito. Questa roccia sporgeva sulla strada gettando un’ombra profonda e si proiettava formando un precipizio su tre lati: il lato nord, ai cui piedi scorreva il Serchio, era separato dal monte da un burrone e un torrente lottava giù in fondo, tra pietre sparse e le radici nodose e nude degli alberi che adombravano il crepaccio. Castruccio iniziò a salire lungo il sentiero che conduceva al portone del castello, tagliato sul lato a picco di questa rientranza e contornato da siepi di mirto rinsecchito su cui incombevano dei castagni. Le foglie dei castagni erano cadute e le loro spoglie gialle, brune e rosse erano sparse sulle foglie lucenti del mirto sottostante. Il sentiero era ripido, sinuoso e stretto, tanto che Castruccio, che adesso osservava la natura con l’occhio di un soldato, considerò l’ottima difesa che poteva costituire Valperga, se quello era l’unico accesso al castello. Il torrente rimbombava in basso, tenendo perennemente sveglia l’aria, i suoi erano gorgoglii più comuni e sempre più forti tra le montagne enormi e le solitudini inquiete che non tra i ritrovi umani; ma là tutti i rumori erano melodiosi, per nulla bruschi e invadenti.

   In cima al sentiero c’era un ponte levatoio che lo connetteva con la piattaforma quasi isolata della roccia su cui stava il castello: l’edificio ricopriva quasi questo spazio lasciandone solo un po’ per un piccolo appezzamento di terreno, che dominava la pianura ed era protetto da un barbacane sul quale pochi alberi, lecci scuri e acacie chiare, fondevano il loro contrastato fogliame. Dietro il castello la montagna di rose, arida e quasi perpendicolare e, guardando su, il precipizio cupo e macchiato dal tempo torreggiava sopra, mentre il cielo azzurro sembrava riposare in alto. Lo stesso castello era un edificio grande e caratteristico, turrito e graziosamente ombreggiato dagli alberi. Castruccio entrò dal portone sul lato del ponte levatoio e passò tra la struttura principale e il barbacane a guardia del passaggio. Così fece il giro verso la facciata del castello, che si apriva su di un terreno erboso, qui fu accolto da molti servitori e condotto all’appartamento d’Eutanasia. I conti di Valperga erano stati ricchi e il castello era magnifico più di quanto furono quelle forti prese rocciose. La grande sala del banchetto era dipinta con varie figure che, seppur grossolane e irregolari nell’ombreggiatura e nella prospettiva, erano all’epoca considerate con ammirazione. Un gran camino, ora illuminato da un fuoco acceso, dava un’aria allegra alla sala. Parecchi servitori e due bei grossi cani stavano intorno al fuoco rannicchiati, dato che il freddo gennaio entrava dalla porta opposta, attraverso la quale Castruccio passò in un cortile interno ed aperto del castello.

   Questo cortile era attorniato in ogni lato da chiostri in stile gotico, meno uno dove l’enorme montagna formava la barriera: in alto, vicino alla cima della roccia, crescevano pochi cipressi e, a posare lo sguardo su di loro, sembravano bucare il cielo con le loro scure e immote guglie. In un lato di questo cortile si trovava un bello scalone di marmo di Carrara e Castruccio vi salì per accedere alla camera d’udienza. Essendo inverno, era ricoperta di drappi color scarlatto, il soffitto era dipinto e il luminoso pavimento di marmo rifletteva con vaghi colori la Venere e i suoi cupidi raffigurati sopra. Un piccolo tripode di marmo bianco stranamente intarsiato stava in mezzo alla stanza, a supporto di un turibolo bronzeo in cui bruciava l’incenso. Parecchi vasi antichi e tripodi ornavano l’ambiente. I tavoli erano fatti con le pietre più raffinate, o mosaici vitrei, e i sedili o i divani rivestiti da stoffe scarlatte intessute in oro. All’interno si trovava l’appartamento di Eutanasia, drappeggiato di seta azzurra e con il pavimento a mosaico, i divani erano riccamente ricamati e un tavolino verde antico [3] stava in mezzo alla stanza. C’erano nelle incavature parecchi scaffali per libri, manoscritti, ecc., e nelle strombature delle finestre dei ripiani in bronzo, su cui erano posti finemente dei vasi intarsiati in oro, ricolmi di fiori di stagione. Ma, in mezzo a tutto questo lusso, il fregio più pregiato della stanza era proprio la bella padrona.

   Castruccio e Eutanasia s’incontrarono. Dopo molti anni d’assenza si guardavano con curiosità e interesse. Eutanasia aveva atteso il suo arrivo con insolita ansia: non sapeva spiegarsi l’agitazione che provava all’idea d’incontrarlo, ma appena lo vide, bello come un dio, con la forza e l’amore in ogni tratto del suo aspetto e in ogni movimento della sua figura graziosa, i battiti inquieti del suo cuore cessarono e fu calma e felice. E non era così avvenente anch’essa? La sua figura era leggera e ogni arto era plasmato secondo quelle regole con cui le belle statue antiche erano state modellate. Una folta chioma d’oro le cingeva il collo e, se non fosse stata trattenuta da un velo a far da corona sulla testa, avrebbe toccato terra. Gli occhi erano azzurri, di un azzurro che sembrava intriso nel profondo di un cielo italiano, e dalle loro orbite si riverberava la pura e insondabile vivacità che colpisce la vista come l’oscurità di un cielo romano. Questi occhi belli però erano orlati da lunghe, appuntite ciglia che attenuavano il loro fuoco e aggiungevano delicatezza. La anima stessa della sincera Carità risiedeva nella sua fronte, e le labbra esprimevano la più dolce sensibilità. Nel suo aspetto, oltre ad ogni tipo di bontà che vi si poteva scorgere, c’era un’espressione che sembrava richiedere anni per leggerla e capirla, una saggezza esaltata dall’entusiasmo, una selvatichezza temperata dalla padronanza di sé, che colmava ogni sguardo e movimento con un eterno mutamento. Eutanasia era vestita secondo la moda dei tempi, anche se il suo abito era piuttosto semplice, non essendo ornato con oro o gioielli: una veste di seta azzurra era lunga fino ai piedi, cinta alla vita da una fascia ricamata; le ampie e lunghe maniche erano ricamate sull’orlo e rivestivano le mani, salvo quando, tirate su, facevano scoprire le rosee dita e i polsi sottili.

  S’incontrarono in quella occasione e poi di nuovo e la diversità delle loro fazioni politiche non fece altro che avvicinarli di più. Eutanasia capì che Castruccio intendeva operare qualche cambiamento nel suo paese, e si augurò sul serio di non tirarlo dalla sua parte, ma di mostrare quanto quella separazione e inimicizia fossero futili, se l’amore della pace e del bene animava tutti i cuori. Si augurò anche di leggere nella sua mente per sapere se l’amore per la libertà viveva in lui. Eutanasia aveva questa fisima, se si può definire così, di amare l’ombra stessa della libertà con entusiasmo illimitato. Eutanasia era stata allevata come un guelfo tra i capi di quel partito a Firenze, un partito il cui motto era la libertà. Il suo stesso rango l’avrebbe obbligata a partecipare alle contese dell’epoca, ma lei non era una faziosa in modo gretto: suo padre e gli studi che aveva fatto con lui le avevano impartito le più alte lezioni, la storia della repubblica di Roma aveva incrementato in lei l’amore per la libertà e annullato nella sua mente ogni interesse per gli intrighi meschini. Castruccio era un ghibellino leale e la sua anima era tutta votata al progresso di quel partito. Non simpatizzava con Eutanasia, ma sembrava farlo, perché l’amava e l’ascoltava con occhi splendenti di piacere mentre lei parlava con la sua voce argentina, e tutto ciò che proveniva dalle sue labbra gli sembrava saggio e buono. Spesso si sarebbe fatto trascinare dall’eloquenza gentile della donna, e allora lui avrebbe parlato della repubblica, dell’energia e virtù che tutti i cittadini acquisirebbero quando ognuno, censurandosi a vicenda, avesse ancora il potere, e gli uomini, non come bambini obbedienti al semplice comando, discutessero e regolassero il proprio utile. L’ammirazione d’Eutanasia per la personalità di parecchi capi fiorentini rendeva interessante i particolari dei mutamenti che erano avvenuti negli ultimi anni e i molti aneddoti su cui lei si soffermava per dimostrare il potere e la grandezza della sua amata Firenze.

   I loro colloqui non riguardavano soltanto la politica. La mente d’Eutanasia era un deposito di dolci tradizioni: lei amava la poesia e recitava continuamente i versi di Guido o di Dante, e quando facevano delle escursioni tra i boschi o si univa alle battute di caccia con Castruccio e gli altri suoi amici, la sua conversazione sembrava un brano di poesia. Castruccio raccontò le sue avventure ed Eutanasia non si stancava mai d’ascoltare i dettagli sulle corti inglese e francese e sui loro usi: due tipi di società così diametralmente opposti fra loro ed entrambe così diverse dagli scenari a cui lei era stata abituata. L’amore e la confidenza che provavano a vicenda aumentavano: i mesi invernali trascorsero e i primi giorni di primavera, che portano con sé foglie verdi e aria mite, li sorpresero come amici devoti, convinti d’essere uniti per la vita dai legami più forti di un amore perenne.

   Eutanasia ammise di averlo amato sin dalla prima volta e nessuna falsità aveva mai macchiato il suo animo puro: una pozzo di passioni, le più intense e straboccanti, era aperto nel suo cuore, ogni sentimento era mitigato, ogni emozione modulata da questo mutamento: lei era presa dall’amore e, con l’ammirazione e la stima che formavano solo una parte di questo amore, divinizzò l’oggetto amato, credendo che tutte le virtù e tutti i talenti vivessero nell’anima di Castruccio. Così, libera da qualsiasi timore nascosto o sospetto ingeneroso, concesse il suo cuore a lui e fu per un po’ felice. Passarono molto tempo insieme e ogni giorno scoprivano in ognuno qualche nuovo pregio, qualche dote fino ad allora sconosciuta.

   Le emozioni di Eutanasia erano davvero cambiate con la nascita di questo sentimento nuovo e forte. Finora lei era stata sola al mondo tanto che, non trovando nessuno che con lei condividesse tutto, aveva consegnato il tesoro del cuore all’ascolto del solo silenzio. Era paga in mezzo ai divertimenti di Firenze, l’ingegno e l’immaginazione della gente offrivano alla sua vita una varietà gradevole, ma nella gente c’era uno spirito mutevole e incostante che non attirava la sua fiducia. Il suo sguardo era stato spesso acceso, lo spirito desto nella conversazione, là dove il genio raffinava altri geni, e le idee di un intelletto sembravano far nascere altri intelletti. Ma, quando la tenerezza placava il suo cuore e il sentimento sublime dell’amore universale la penetrava, Eutanasia non trovava una voce che le corrispondeva così bene come il canto gentile dei pini nell’aria di mezzogiorno, o i lievi mormorii della brezza che scompigliavano i suoi capelli e rinfrescavano le sue gote, e lo sciabordare infinito delle acque.

   Adesso non era così, le parole e gli sguardi di Castruccio le rispondevano, e lei si sentiva felice come non lo era mai stata. Nessun dubbio, nessun dolore. Tutto era calma e sicurezza, e il suo cuore si placava, finché le lacrime non uscivano sotto il peso di un piacere assoluto. Eutanasia era sincera, generosa e sicura, per questo era subito convinta e si fidava, mentre le passioni dominanti che sempre avevano determinato la sua vita non erano sopite, ma, unite e accresciute dall’amore, sprizzavano con un’energia immensa. Vissero insieme molti mesi nella gioia di questo rapporto: speravano, sentivano che i loro destini s’erano intrecciati e non si sarebbero divisi mai, e la loro unione sarebbe stata rinviata finché Castruccio non si fosse liberato del suo paese. L’estate incombente ben presto li avrebbe avvertiti del distacco. In uno di questi giorni, uno degli ultimi prima della separazione, Eutanasia riferì a Castruccio quei pochi avvenimenti della sua vita serena che erano accaduti dalla loro separazione dieci anni prima. Il racconto fu breve, ma tra i più interessanti per chi ascolta.



[1] Bagni di Lucca.

[2] N.d.a. Il tramontano è il vento del nord; lo scirocco quello di sud-ovest e il libeccio di sud-est.

[3] verde antique nel testo.



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