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“Valperga”– Mary Shelley V

Creato il 22 novembre 2011 da Marvigar4

val di susa

Mary Shelley (1797-1851)

VALPERGA

o

La vita e le avventure di Castruccio, Principe di Lucca

Traduzione integrale di Marco Vignolo Gargini dall’originale in inglese Valperga; or the Life and Adventures of Castruccio, Prince of Lucca

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Capitolo 5

Castruccio nelle Fiandre e in Francia. Alberto Scoto. Benedetto Pepi.

   Dopo una buona navigazione di poche ore Castruccio arrivò ad Ostenda. Sbarcò senza amici e anche senza l’equipaggiamento di un gentiluomo. Quello che Castruccio provò durante il viaggio può essere a malapena descritto. La rabbia, il dolore e la vergogna lo mantennero in una continua oscillazione che, seppur amara, era molto meglio della fine della speranza e del senso di totale abbandono al suo sbarco nelle Fiandre. Il mondo ormai era alle sue spalle: era stato strappato con rapidità terribile agli affetti che aveva coltivato per un anno, agli agi, ai lussi e all’amicizia di un potente monarca, e consegnato al più completo abbattimento. Non aveva nemmeno la lancia e il cavallo, con cui gli antichi cavalieri erranti andavano da soli alla conquista dei regni. Castruccio pensò con rimorso al sangue che per la prima volta aveva macchiato le sue mani. Lui aveva ricevuto un affronto e solo il sangue poteva riparare quest’ingiuria: in Francia o in Inghilterra una tenzone singolare e secondo gli usi di corte avrebbe terminato la contesa, ma in Italia lo stiletto[1] nascosto era l’arma della rivalsa e l’uccisione di uno si vendicava con l’assassinio di un altro, finché la lista degli omicidi riparatori non diventava lunghissima e calcolata con cura da ciascuna fazione, che giustificava il proprio delitto e biasimava quello degli avversari. Comunque, anche se la mente di Castruccio era imbevuta della moralità del suo paese, era troppo giovane e troppo novellino per provare un orrore naturale per essere stato la causa di morte di una creatura umana. Seduto in mezzo alla vasta spiaggia su una pietra trasportata dal mare, ascoltando il malinconico sciabordare delle onde, versò lacrime amare di pentimento e di colpa. Una sola idea lo placò, quella che il suo avversario non fosse morto… e allora? La sua imprudenza e irragionevolezza lo avevano precipitato giù dall’alto della prosperità e gioia, per diventare quel desolato, indifeso essere che era adesso.

   Il sole tramontò in un cielo torbido. «Ah! Com’è diverso dalla mia amata Italia!», sospirò Castruccio. «Che differenza dai cieli tersi e dai tramonti color arancio della mia terra natale!»

   Parlava in italiano, e un uomo che gli era vicino, senza farsi vedere, ripeté la parola così cara agli esuli, il nome del paese natale: «Italia.»[2] Castruccio alzò gli occhi, e l’uomo continuò: «L’Italia è anche la mia patria. E chi sei tu, amico mio, solo e straniero, che rimpiangi le gioie di quel paradiso terrestre?»

   «Io sono un lucchese», rispose Castruccio. «Sono il cugino d’Alderigo, il ricco mercante in Inghilterra.»

   «Il nome di un italiano », disse l’altro, «è un passaporto sufficiente per la mia modesta ospitalità; ma, in rapporto al mio grande amico, Messer Alderigo, è per me un gran piacere offrirti tutti quei piccoli servigi che sono in grado di darti. Vieni a casa mia, forse ti verrà alla mente un ricordo piacevole di una famiglia italiana che, durante una lunga assenza, non ha mai dimenticato gli ulivi d’Italia e non ha mai smesso di desiderare di ritornarci.»

   Castruccio accettò con gioia quest’invito amichevole. Si accorse che il suo padrone di casa era un ricco mercante d’Ostenda, che viveva con stile italiano, circondato da una famiglia la cui lingua e i tratti somatici lo riportarono alle pianure lombarde, o alle vallate della sua nativa Toscana.

   Quella sera durante la conversazione il suo ospite accennò alle guerre che c’erano allora tra il re francese e i Flemings, e che Alberto Scoto era a capo sotto le insegne degli ultimi con una truppa di italiani. Questo racconto accese in Castruccio la speranza di poter trovare un qualche rimedio per le sue avversità. Obbligato ad intraprendere una nuova carriera, e la sua attitudine lo portava ad essere un guerriero, pensò che l’occasione di servire un compatriota fosse una circostanza troppo favorevole per essere trascurata. Fece molte domande su questa truppa e il suo illustre comandante. Alberto Scoto un tempo possedeva un vasto dominio in Lombardia, aveva cacciato i Visconti da Milano ed era stato riconosciuto tiranno e signore delle città più fiorenti della Lombardia. Quando a causa di una forza congiunta di una congiura e un tradimento fu destituito dal suo potere, egli non perse la reputazione di generale affermato, e Filippo il Bello, re di Francia, accettò con molto entusiasmo i servizi da lui offerti. Negli ultimi tempi era stato considerato appartenente alla fazione guelfa, ma prima di lasciare l’Italia aveva cambiato schieramento, e ora, in esilio, la scelta di parte s’era del tutto persa in lui.

   Castruccio non aveva ancora mai fatto una campagna d’armi e il suo spirito eccitato lo portava a guardare con sdegno l’accidia nella quale finora era vissuto. Dal momento in cui era sbarcato in Francia s’era proposto di intraprendere una carriera militare, e si convinse che non ci sarebbe stata nessuna scuola migliore di quella di Alberto Scoto, dove sarebbe stato disciplinato secondo i modi del suo paese, e avrebbe imparato sotto la guida di un generale così esperto la tattica degli eserciti che un giorno sperava di comandare.

   La mattina seguente discusse riguardo queste idee con il suo ospite, il quale senza sforzo entrò nell’ottica delle sue proposte, e promise di dargli la possibilità di introdurlo presso Scoto per ottenere almeno la sua attenzione. I progetti di Castruccio furono presto realizzati.

   Il mercante prese congedo con amicizia dal suo giovane compatriota e, al momento della partenza, gli consegnò un borsello pieno di monete: «Mi ripagherai», disse sorridendo, «con il ricavo del tuo primo bottino di guerra, oppure, se quest’autunno le mie attese andranno deluse, Messer Alderigo non permetterà di perdere un suo amico per la gentilezza che ha usato verso un suo congiunto.»

   Castruccio attraversò senza problemi le pianure delle Fiandre, e giunse al campo dei Francesi, vicino Douai. Con qualche difficoltà riuscì ad entrare nella tenda di Scoto: ma quel generale esperto colse rapidamente nell’aspetto del giovane straniero il portamento del soldato e l’aria d’indipendenza, e questo lo influenzò favorevolmente. Dopo aver letto la missiva dell’ospite di Castruccio, si rivolse al giovane con cortesia. «Il nostro compatriota», disse, «m’informa che tu sei il capo della nobile famiglia degli Antelminelli, un nome così famoso in Italia da essere da solo una presentazione sufficiente per chi è nato in quel paese. Tu desideri metterti al mio servizio e io mi sento onorato della tua scelta. Le mie truppe non possono che guadagnarci con l’acquisto di un volontario così nobile.»

   Le maniere di Scoto erano garbate e, nella conversazione con il giovane, la sua pronta capacità di giudizio scoprì subito le qualità di Castruccio. Cenarono insieme, poi, avendogli offerto un vestito più consono, lo presentò al re di Francia, dal quale ebbe un’accoglienza benevola. Castruccio non mancò di informare subito della sua situazione Alderigo, il quale all’istante gli inviò una somma di denaro del tutto sufficiente per i suoi bisogni presenti.

   Adesso Castruccio aveva rimpiazzato l’apatica allegria della corte inglese con le fatiche dinamiche di un campo militare, e il giorno seguente ebbe inizio il suo servizio militare. Scoto lo consegnò ad un seguito d’armigeri, scegliendolo tra i più ricchi che aveva. Castruccio ebbe in dotazione un piccolo copricapo di ferro che ricopriva la testa e che portava sotto l’elmo. Lo stesso elmo era di ferro ben intarsiato in oro con emblemi, e la gorgiera era placcata con lo stesso prezioso metallo. Il pettorale era finemente ornato e allacciato sulle spalle alla piastra dorsale, lavorata con meno raffinatezza. I gambali erano stupendamente intarsiati e rilucevano d’oro; la spada era della più fine tempra e il fodero, riccamente guarnito, posto di lato con un’allacciatura ricamata; uno scudo e un’ottima lancia completavano il suo equipaggiamento. Armi di manifattura meno costosa furono scelte per il suo cavallo che, selezionato direttamente da Scoto, era robusto ed energico.

   Il giorno dopo il campo era in moto. Sarebbe inutile descrivere gli eventi di questa campagna: ci furono molte battaglie e alcune città furono prese. I francesi, che fin qui avevano perso, riguadagnarono le loro posizioni e il reggimento di Scoto si distinse in ogni azione, mentre Castruccio si mise bene in vista per il coraggio, l’intraprendenza e i successi conseguiti. Scoto l’aveva compreso e plaudiva calorosamente l’ardimento e la condotta del giovane: la fama delle sue azioni si sparse per tutto l’esercito, così la sua prima campagna militare lo coronò con quella considerazione che a lungo aveva agognato. Lo stesso re Filippo fu testimone delle sue imprese: vide Castruccio alla testa del reggimento far volgere a favore della Francia l’incerta fortuna di una giornata di aspri scontri. Il re dimostrò la sua gratitudine elargendo tante lodi e ricompense da riempire Castruccio d’onore e gioia.

   Scoto durante l’inverno prese quartiere in una delle città fiamminghe e Castruccio fu invitato a partecipare alle feste della corte parigina. Obbedì ai comandi e trascorse alcune settimane approfittando di tutti quei divertimenti che il palazzo di Filippo offriva. La sua grazia e avvenenza attirarono l’attenzione delle donne, la sua fama nelle armi lo distinse tra i nobili francesi.

   Verso la fine dell’inverno tornò al campo di Scoto, dove pare fosse tenuto in alta considerazione. Questo generale fu ben felice di trasmettere la sua esperienza a un discepolo così attento, nel tentativo di formare il genio di chi in previsione doveva innalzarsi ai ranghi più alti tra i signori italiani. Castruccio era ammesso alla sua tenda a tutte le ore, insieme cavalcavano e, sotto i precetti di una persona molto esperta degli affari politici dell’Italia, iniziò a capire e meditare su quale fosse la parte che avrebbe svolto al ritorno nel suo paese. Ciononostante l’insegnamento di Scoto era di cattivo esempio e, se l’allievo acquisiva una visione obiettiva della politica italiana, allo stesso tempo apprendeva l’uso di quei sistemi che allora tanto disonoravano quel popolo. La Punica fides[3] era stata trasportata attraverso il Mediterraneo, e nei palazzi italiani veniva praticata ogni forma d’inganno e artificio, a sua volta proveniente dalla corte dei papi, come una fonte inquinata, e i cortigiani e politici potenti non permettevano che quest’arte fallisse per mancanza d’istruttori. Scoto più di tutti aveva ottenuto successo nell’esercizio di questa politica e ora iniziava Castruccio ai segreti del potere. Fin qui la sua mente era stata innocente e tutti i suoi pensieri erano rivolti all’ideale dell’onore. Le sue labbra erano sincere, l’ingenuità si annidava nel suo cuore, il pudore era sempre lì pronto a tenerlo lontano dalla stravaganza, e la sua natura tenera sembrava rendergli impossibile ogni forma d’asprezza o disumanità. La corte inglese aveva infuso un po’ di fiacchezza nel suo credo morale, ma almeno là non aveva imparato l’ipocrisia e le furberie tipiche del politico attempato. Ancora la via difficile dell’onore e la sua mente singolare abbracciavano le sue scelte. Ma diciannove anni è un’età pericolosa, e mal gliene incolse al giovane che si confidava con un istitutore potente. Se Castruccio dapprima ascoltava con attenzione i consigli di Scoto, in seguito la frequente ripetizione e la sua mente plasmabile come cera ben presto lo resero succube.

   «Tu, mio caro Castruccio», disse Scoto, «tornerai presto al tuo paese, dove il talento e il valore che hai ti apriranno una brillante carriera. Un soldato, se ha giudizio, per un po’ mantiene il successo in Italia e, se tiene salda la prudenza, non è detto che cada com’è accaduto a me. Un capitano in Italia dovrebbe prestare scarsa attenzione alla disciplina, all’equipaggiamento dei suoi seguaci e alla diffusione tra i nemici del terrore legato al suo nome. Questo deve essere il primo passo, senza il quale le basi del suo potere sono come la sabbia; perché nell’ora del pericolo non significa niente avere molte città in pugno, se non le sai controllare con il ferro e non sai a chi destinare l’oro nell’assemblea dei cittadini: sventura e sconfitta piombano su quel capo che regna solo per scelta del popolo, una scelta più incostante e falsa della proverbiale infedeltà della donna.

   Ma, avendo una volta messo su un esercito, formatolo e mostrato la sua tempra con le vittorie, allora è arrivato il momento di cambiare l’arte della guerra e sostituirla con quella della diplomazia, lavorando in modo sotterraneo come una talpa, senza dare nell’occhio, finché il tuo potere prevale là dove è atteso. Non ti attaccare troppo al denaro: sei potente se è in tuo possesso, ma non vali più niente se lo cedi nelle mani degli altri. Piuttosto le alleanze, i matrimoni, gli onori nominali e le promesse sono le giuste attrattive da usare con i nostri compatrioti. Con uno o con altri di questi mezzi, di tale varia materia sono composte le confederazioni italiane, un singolo capitano può introdurre il dissenso e tradimento tra le file dei nemici. Fu così che io caddi, perché non ebbi fiducia nei miei mezzi ma in quelli dei miei alleati.

   In Italia ci sono due specie di uomini, quella di chi spesso fende come una spada a doppio taglio, e poi torna al proprio padrone, e quella di chi con l’appropriato controllo ha una versatilità infinita nella realizzazione di trattati segreti, e nel recapito della corrispondenza nel cuore delle assemblee nemiche: questi sono i preti, e gli Uomini di Corte[4]. I preti perlomeno sono degni di fiducia anche se sono i più venali: tuttavia talvolta io li ho visti stare presso il loro protettore, se li trattava con molto rispetto e una apparente sottomissione, e poi tradirlo, anche se li retribuiva bene, perché li trascurava e non li blandiva. In gioventù gli uomini spesso si fidano dei loro atti e delle loro spade, ma ogni giorno si legge un’altra pagina del libro dell’esperienza, che ci dimostra che gli uomini sono onesti solo a parole, parole lievi come l’aria, che però sono state spesso in grado di rivoltare imperi: testimonianza ne è i trionfi dei papi, che dissolvono gli eserciti dei loro nemici e gli spogliano del rango, dei beni e della vita, con scomuniche e anatemi, ossia parole. Ma, scoprendo questo potere infinito delle parole si diventa cauti nell’usarle; non badare alla loro quantità, piuttosto stai attento alla loro qualità. Ma torniamo al nostro argomento: i preti e gli Uomini di Corte.

   Questi ultimi sono dei poveri cani, spesso fedeli, facilmente appagati, e che possono addentrarsi in ogni dove, vedere tutto, udire tutto, e se riesci ad entrare nelle loro simpatie, diventano di una utilità infinita: bastano molte parole, molto buon umore e un po’ d’oro. Quando Della Torre e io cacciammo Matteo Visconti da Milano, quel capitano si ritirò nel suo misero castello di San Colombano tra i colli Euganei a mangiare pane e cipolle. Immediatamente Della Torre cominciò a sospettare che Matteo avesse ricevuto soldi dalla Germania e stesse segretamente raccogliendo armi e uomini nel suo castello. Così Della Torre inviò un uomo di corte, all’epoca un famoso personaggio, tal Marco Lombardi, che in passato aveva profetizzato al conte Ugolino le sue future disgrazie, e gli disse: “Adesso, mio valoroso Marco, se vuoi guadagnarti un palafreno e un vestito trapuntato d’oro, ti do un incarico, che se portato a termine ti farà avere palafreno e vestito. Vai, come se fosse una gita di piacere, al castello dove vive adesso Matteo Visconti, e scruta con attenzione ogni luccichio d’armi o la presenza di soldati e, quando prendi congedo dal capitano, chiedigli in modo buffonesco di rispondere a due domande, queste: la prima, se è felice del suo stato presente e se non è ridotto male; e la seconda, quando spera di tornare a Milano.”

   Marco assunse subito l’incarico e visitò il castello di San Colombano, dove trovò Visconti mal vestito, denutrito e accompagnato malissimo: intorno a lui c’erano pochi seguaci raggrinziti e zoppi, non più abili a combattere e troppo stanchi per lavorare, venuti a crepare di fame sotto il suo tetto. La sua signora non era messa meglio, senza un’ancella al suo servizio, e, ho sentito dire, c’era solo un frate cappuccino con lei e suo marito, ad annoiarli a morte entrambi. Marco fece solo una piccola sosta al castello, perché non c’era da mangiare, ma, quando prese congedo da Visconti, chiese con insistenza al capitano di fargli avere un palafreno e una veste in seta. “Volentieri”, rispose Visconti, “se potessi, ma non credo proprio di poterteli dare, dal momento che non li ho.”

   “Nobile conte”, soggiunse Marco, “rispondetemi a due domande e in cambio di queste io avrò quei doni.”

   E gli pose le domande, secondo le istruzioni di Della Torre. Visconti, che non era uno sprovveduto, rispose: “Francamente io trovo la mia situazione presente a me conforme, sin da quando mi ci sono adattato; dì questo al tuo padrone, Messer Guido Della Torre, che ti ha mandato; e digli anche che quando i suoi crimini supereranno i miei, allora sarà il volere di Dio a farmi tornare a Milano.”

   Della Torre tirò un sospiro di sollievo, dato che senza dubbio temeva l’oro germanico più delle punizioni per le sue colpe commesse, e ricompensò Marco come promesso.»

   Queste furono le lezioni di Scoto, e il lettore mi perdonerà volentieri se le ho riportate senza dilungarmi tanto, come invece fece il capitano. Castruccio ascoltò con curiosità, tra la rabbia e il convincimento; e in quei giorni il seme dell’arte del comando fu gettato, seme che, germogliando in seguito, contribuì a fargli conseguire potere e gloria. Mentre l’inverno stava terminando, Scoto si rivolse a Castruccio: «Avrei tanto desiderato, mio giovane amico, di farti combattere sotto le mie insegne un’altra campagna militare, avrei goduto del sostegno della tua presenza e del tuo valore, ma la sorte ha ordinato diversamente, e tu devi andare in Italia. Arrigo di Lussemburgo, adesso imperatore di Germania, sta avanzando verso il tuo paese, dove raccoglierà i resti del partito ghibellino e tenterà di riorganizzarli. Tu sei un ghibellino di famiglia altolocata e fedele alla causa, e non devi perdere quest’occasione per la tua promozione. Torna in Italia! Raggiungi l’imperatore! E non ho dubbi che in tal modo tu riconquisterai a Lucca i tuoi beni e i tuoi diritti. Va adesso, Castruccio. Sei pronto per l’azione e per il comando, e non dimenticare i miei consigli. Qui o in Inghilterra non ti servono, ma in Italia sono necessari per il tuo successo. Sono sicuro della grande fortuna che ti attende e che riscalderà il mio vecchio sangue, se penso che io, esule e soldato di ventura, a combattere per i colori che non sono i miei, avrò contribuito al successo di uno spirito così nobile come il tuo.»

   Castruccio seguì i consigli di Scoto. Lo salutò amorevolmente e ricevette ancora i ringraziamenti cerimoniosi del re francese. I regali costosi che gli fecero lo arricchirono notevolmente e la sua spada, della più fine tempra, con l’impugnatura e il fodero sontuosamente lavorato e impreziosito di gioielli, gli fu offerta dalle stesse mani della regina. Consegnò questi doni e il bottino che aveva conquistato al mercante italiano, affinché per mezzo suo venissero trasferiti in Italia. Andò a cavallo, accompagnato da un servo e da un mulo che portava la sua armatura.

   Viaggiando ad andatura tranquilla, arrivò dopo un intervallo d’alcune settimane all’estremità sud-est della Francia. Raggiunse le splendide Alpi, i confini del suo paese nativo: le cime bianche dei monti tagliavano l’atmosfera serena e la quiete, la profonda quiete di un inverno alpino, regnava tra i dirupi. Man mano che avanzava in questi luoghi desolati, perse ogni traccia delle impronte umane e di quasi tutti gli animali: un’aquila a volte poteva volare sopra un burrone, o un camoscio s’intravedeva sulle vicine rocce perpendicolari. I pini giganteschi erano completamente rivestiti da un enorme manto di neve, i silenziosi torrenti e le cascate ghiacciate ricoperti e quasi nascosti dalla bianca massa uniforme. I sentieri delle valli e i pendii dei monti, comunque impervi, erano pressoché impraticabili; una nevicata continua cancellava ogni traccia e soltanto pochi paletti qua e là guidavano il viaggiatore nel suo pericoloso cammino. L’avvoltoio, lasciando il nido sulle rocce, lanciava i suoi versi stridenti dall’alto, come per dire all’avventato avventuriero che osava disturbare il suo rifugio, che le sue membra lacerate erano il tributo dovuto a lui, il re di quella regione. Ogni tanto il cammino era disseminato dalle orme di qualche intraprendente camoscio, le cui zampe arrancavano nella neve; l’arrivo di Castruccio spaventò gli uccelli rapaci e li fece fuggire dalle loro prede per metà congelate. Ci fu un varco particolarmente pericoloso: il sentiero era tagliato dal lato di una montagna scoscesa. Al di sotto, il ruscello, che si addentrava nel più profondo della valle, era nascosto dalla sporgenza del precipizio. Al di sopra, la montagna, resa quasi sconcertante dalla presenza degli avvoltoi, tenebrosa, salvo là dove la neve trovava un riparo tra i suoi crepacci, s’innalzava così tanto da far venire il capogiro al viaggiatore che fissava su in alto nel cielo. Il sentiero era stretto e, essendo interamente esposto a sud, la neve che lo ricopriva si scioglieva leggermente e si ghiacciava, rendendolo scivoloso e rischioso. Castruccio scese da cavallo e, distogliendo lo sguardo dall’abisso in basso, proseguì lentamente finché l’allargamento del cammino e l’apparizione di pochi pini diminuì il terrore di ciò che lo circondava.

   Poi, quando il cammino si fece meno pericoloso, risalì a cavallo e con cautela andò avanti lungo il bordo del precipizio, fino a quando udì una voce dietro di lui che sembrava chiedere aiuto. Smontò immediatamente, legando il cavallo a un punto sporgente della roccia, tornò verso quell’abisso che aveva appena passato con tanta difficoltà. Lì vide un mulo che se ne stava buono sul sentiero, ma, sulla parte ripida del precipizio, poco giù, si accorse che un uomo era agganciato ad uno spunzone del monte, con una tale energia che tutta la sua forza e il suo essere sembravano lì appesi con lui, e la sua voce gli mancava non appena si sforzava di chiedere di nuovo aiuto. Il servitore di Castruccio era rimasto attardato molto indietro, tanto che Castruccio si trovò costretto ad affrontare da solo il tentativo assai difficile di tirar fuori l’uomo da quella situazione tremenda. Sciolse la sua fascia e, legando un capo alla sella del mulo tenendo l’altro nella mano, la gettò giù verso l’uomo. In questo modo, con enorme fatica, riuscì a sollevare quel poveretto che, bianco e rattrappito dalla paura, si reggeva a malapena in piedi, come imbambolato, quando si ritrovò sano e salvo dalla morte che aveva temuto. Castruccio lo calmò rivolgendosi con voce gentile, gli disse che ormai il peggio era passato e che stavano per scendere per un sentiero meno ostico verso la pianura italiana, ‘dove,’ aggiunse, ‘potrete trovare un paradiso che guarirà tutti i vostri mali’.

   L’uomo lo guardò con un misto di stupore: ciò che avrebbe potuto essere interpretato come disprezzo i suoi muscoli, irrigiditi dal freddo e dalla paura, lo riportarono al significato che era nella sua mente. Rispose ironicamente: «Io sono italiano». Castruccio sorrise intuendo che queste parole erano da considerarsi una sconfessione della sua frase sulle meraviglie vantate d’Italia.

   Dopo un pausa di riposo per fare in modo che lo sfortunato viaggiatore riprendesse fiato e vitalità, proseguirono il loro cammino in montagna, parlando poco, perché il sentiero era ancora troppo rischioso per permettere una conversazione. Malgrado ciò, quando Castruccio osò staccare gli occhi dalle tracce segnate dal suo cavallo, non poté fare a meno di esaminare con curiosità la fortuna che il compagno gli aveva offerto. Questo era un uomo che con il suo volto rinsecchito e rugoso poteva dimostrare sì e no circa sessant’anni, eppure, per l’agilità e l’aspetto generale più giovanile della persona, non poteva avere più di quarant’anni. Aveva occhi piccoli, neri e luminosi, il naso aquilino, le labbra erano come una linea sul suo volto, non marcate e lineari a parte tre profonde rughe agli angoli della bocca, le sopracciglia alzate da sembrare vanesie, e una fronte alta che denotava un buon grado d’intelligenza. La sua figura alta, ben eretta e muscolosa, era vestita con abiti al contempo miseri e di rango, cosa che divertiva Castruccio nell’osservarli. Portava speroni d’oro da cavaliere e, ripiegato con cura sulla sua sella, aveva un ricco mantello sormontato con lacci dorati. Indossava un abito striminzito di tessuto liso, con una sorta di pantaloni stretti di semplice pelle di pecora, allacciati con nodi alle sue gambe. Un ampio mantello con cappuccio lo avvolgeva, di flanella grossolana, chiamato sclavina[5] perché fabbricato in Sclavonia, e che all’epoca era indossato dagli italiani più indigenti. Ai piedi aveva dei brutti stivali sempre di pelle di pecora, che formavano un contrasto singolare con gli speroni d’oro. La testa era ricoperta solo da un copricapo di maglia di ferro cucito con il vestito, che all’epoca si chiamava majata[6].

   Il sole era sceso durante il loro viaggio quando, sentendo un cavallo non lontano, il compagno di Castruccio si drizzò sul suo mulo e indicando quel punto chiese se non dovesse rimanere lì per la notte. «No», rispose Castruccio, «tra mezz’ora la luna si leverà e non appena sarà del tutto piena potremo, credo, andare avanti con sicurezza.»

   «Io non mi fiderei della luna», disse l’uomo, «Le sue ombre sono profonde e terrificanti, e la sua luce non è meno pericolosa: delle volte un raggio che sbuca tra gli alberi sulla strada dà l’idea di un torrente scrosciante, e le sue nere ombre possono celare i rischi più spaventosi. Non oso procedere con il chiaro di luna e non me la sento di proseguire insieme a voi su questa strada terribile. Vi chiedo d’accettare di passare la notte in quella casa.»

   «Io sarei d’accordo se quella fosse davvero una casa e non un ovile senza tetto. Non mi aspetterei di trovare in questi luoghi un letto più soffice della pietra, o un tetto che ci ripari meglio del cielo con la luna piena.»

   La casupola era chiusa e i suoi inquilini stavano dormendo, ma, chiamato dalla voce stridula del viandante più anziano, un uomo ruzzolò giù dal letto fatto di foglie secche e pelli di pecore, e spalancò la porta. Dando il benvenuto ai viaggiatori, l’uomo soffiò subito sulle braci di un fuoco che stava in mezzo all’unica stanza della casupola, per illuminare i muri spogli di questo triste alloggio; il fumò si alzò e riempì la parte alta della stanza, e solo una piccola porzione uscì dal pertugio rotondo sul tetto. Un ampio letto, o meglio un dormitorio di foglie secche e gambi di grano, si trovava in un lato della stanza, dove molti uomini e donne erano coricati, sbirciando i viaggiatori da sotto le loro coperte di pelle di pecora. Non c’erano mobili, a parte un rozzo banco e un tavolo ancora più rozzo. Le nude mura erano nere e pericolanti, mentre il cielo sbucava dalle tante fessure nel tetto. Dentro la stanza c’era un tale puzzo d’aglio e fumo che Castruccio, tornando subito verso la porta, chiese al suo compagno se non avesse preferito proseguire il viaggio. L’ultimo sembrava più a suo agio di fronte alla vista e all’odore di una simile miserabile stamberga, e usò tutta la sua eloquenza possibile per persuadere Castruccio che era preferibile restare nella capanna piuttosto che stare all’aria aperta. Però, visto che Castruccio era decisamente determinato a non entrare, gli disse che, dopo essersi riscaldato per pochi minuti le sue dita gelate e assaggiato il vino offertogli, avrebbe proseguito il cammino con lui.

   Il compagno di Castruccio non aveva esagerato l’estremo pericolo della strada al chiaro di luna. I cavalli spaventati spesso si rifiutavano di andare avanti, o di penetrare le torbide aperture che le ombre della montagna gettavano su loro, sebbene rese bianche dalla neve. Cavalcarono piano e con cautela, la mattina seguente si ritrovarono ad aver fatto un po’ di strada nella loro discesa. Poco prima di mezzogiorno raggiunsero Susa, quando, passati i pericoli del viaggio, il vecchio viaggiatore, recuperata la voce e la memoria, si avvicino a Castruccio e gli chiese dove intendesse riposare dopo un così duro viaggio. Castruccio rispose che sperava di trovare una locanda in città, altrimenti si sarebbe rivolto a qualche monastero, dove non aveva dubbi di avere cibo e riparo per il giorno e la notte seguenti.

   «Signore», disse l’uomo, «Non sono uno straniero in Susa e qui in particolare ho un vecchio e buon amico, Messer Taddeo della Ventura, ben noto ai fiorentini e agli altri italiani che oltrepassano la montagna per vendere le loro mercanzie: quest’uomo stimato mi accoglierà come un vecchio amico e ospite, e, siccome voi mi avete generosamente e coraggiosamente salvato la vita, io non posso che sdebitarmi introducendovi ai soffici divani e agli ottimi vini di Messer Taddeo.»



[1] In italiano nel testo

[2] C.s.

[3] La fides punica, fiducia punica, è sinonimo di slealtà.

[4] In italiano nel testo. N.d.a. Uomini di corte: cantastorie, menestrelli, attori o buffoni che frequentavano le feste e le corti tenute dai nobili italiani e contribuivano non poco ai divertimenti di quell’epoca. Sono citati spesso da Boccaccio.

[5] In italiano nel testo.

[6] In italiano nel testo.



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