Mary Shelley (1797-1851)
VALPERGA
o
La vita e le avventure di Castruccio, Principe di Lucca
Traduzione integrale di Marco Vignolo Gargini dall’originale in inglese Valperga; or the Life and Adventures of Castruccio, Prince of Lucca
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Capitolo 7
Milano. La corte dell’Imperatore Arrigo. Arrigo Guinigi. Il sacco di Cremona. Benedetto Pepi.
Dopo parecchi giorni di viaggio Castruccio arrivò a Milano e la sua prima preoccupazione fu di precipitarsi al palazzo di Matteo Visconti. Il capitano era andato all’assemblea del senato, a deliberare con i nobili di Milano sulla somma di denaro da destinare all’imperatore. Castruccio fu quindi presentato al figlio di Matteo, Galeazzo, che si trovava nel salone del palazzo, circondato da tutti i giovani della nobiltà ghibellina di Milano. Era una spettacolo di allegria e fasto. I giovani nobili si preparavano a partecipare a una regale battuta di caccia organizzata dall’imperatore. Erano sedotti da questa sontuosità illimitata, vestiti tutti con abiti di seta ricamata, di tessuto, o di velluto, bei mantelli e pantaloni ricoperti con la stessa foggia di quelli di Pepi, ma con linee più raffinate e sete in rilievo; le gorgiere erano ornate da file di perle. I capelli, con la divisa, erano riccioluti e lunghi fino alle spalle. Portavano diversi tipi di cappelli, alcuni bassi e ornati con piume, altri alti, a punta e la parte inferiore attorniata di perle per finire in un’abbondante visiera. Alcuni tenevano un falco sulla mano inguantata, o carezzavano il loro cane da caccia preferito, o vantavano l’abilità di un nobile destriero. C’erano molte signore nel gruppo che sembravano rivaleggiare con i loro compagni nello sfoggiare il lusso dei vestiti. Le vesti erano della stessa costosa stoffa e guarnite con una grande quantità di pietre preziose, le ampie maniche ricadevano quasi a terra sormontate da perle, mentre sotto portavano una manica più piccola di seta finissima aderente al braccio. Gli orli dei vestiti erano sfarzosamente ricamati con perle o piccole sfere d’oro, i veli che indossavano ugualmente sontuosi, e piccoli cappucci di pelliccia orientale bordati con frange d’oro e di perle, e le cinture erano incastonate con le più splendide pietre.
Castruccio si trattenne, mezzo abbagliato dalla scena. Nelle corti meno eleganti di Londra o Parigi non aveva mai visto così tanto splendore e lusso. Senza volerlo dette un’occhiata al suo abbigliamento che, seppur ricco, era sporco per il viaggio e non avrebbe potuto competere nei giorni migliori con il vestito peggiore indossato da questi nobili. Tuttavia riacquistò presto la padronanza di sé e il suo nome, che aveva valicato le Alpi e veniva ricordato con entusiasmo da molti dei seguaci dell’imperatore che lo avevano servito nei Paesi Bassi, fece sì che questa brillante assemblea lo ricevesse con accattivante favore. Si affollarono intorno a lui, lo invitarono in modo affabile a partecipare ai loro divertimenti, e la sua bella persona conquistò i sorrisi delle dame che erano presenti. Galeazzo Visconti lo accolse con quella gentilezza e cordialità che allora era in auge tra gli italiani, e lui, come il più garbato dei cavalieri del paese, si mostrò ben in linea con il fare cortese della sua età. A Castruccio fu dato un bel cavallo, un mantello di ricca pelliccia adatto alla stagione fredda, e divenne un membro dell’allegro e magnifico gruppo che cavalcò verso il palazzo dell’imperatore. Qui si unirono allo stesso sovrano, all’imperatrice e ai nobili tedeschi del suo seguito. Attraversando le strade di Milano, lasciarono la città uscendo dalla porta orientale e, dividendosi in varie parti, si sparsero fuori per cominciare la caccia. I tedeschi andavano dietro ai cani in aperta campagna, all’inseguimento di volpi e lepri, mentre gli italiani, che erano vestiti a gala, e non avrebbero voluto rovinare le loro fini sete tra i rovi e gli ostacoli dei campi, si accontentarono di scappucciare i falchi, di farli volare e di scommettere sulla velocità superiore dei loro uccelli predatori.
Durante la prima parte della cavalcata Galeazzo osservava Castruccio, che appariva troppo preso dai pensieri per seguire i discorsi dell’allegra brigata intorno a lui. Se ne stava dietro a gironzolare, magari lasciandosi prendere dalle sue fantasticherie, e Galeazzo, che si era separato dal resto del gruppo, lo raggiunse: insieme avviarono una conversazione che si soffermò a lungo sui progetti e desideri di Castruccio. Erano entrambi cauti e prudenti, ma, pur giovani, erano soggetti alle impressioni per le quali gli uomini perdono la loro sensibilità con il passare degli anni. Si piacquero e un singolo sguardo, una singola parola bastavano per entrare in sintonia e per unirli nei legami dell’amicizia.
Castruccio chiese quali erano le opinioni sulle reali intenzioni dell’imperatore, e Galeazzo rispose: «A stento riusciresti a indovinare quali cuori angosciati, che battono con diffidenza e timore, si celano sotto l’apparente buonumore di questi cacciatori. Noi milanesi siamo pieni di dissensi e d’ambizione e io, come loro comandante, mentre sto dietro a questo gioioso corteo con il falcone sul mio pugno guantato, sono davvero oppresso da angosce e dubbi. In pochi giorni i giochi saranno fatti e allora vedremo che potere avranno sulla Lombardia i Visconti o i Della Torre. Per il momento aspettiamo. L’imperatore attende rifornimenti in danaro e noi li stiamo accordando a lui con evidente zelo: tu, come politico, dovresti sapere bene che i soldi in uno stato sono il grande motore di tutti i cambiamenti. Io prevedo un cambiamento, ma tu, da straniero, devi stare in disparte ed essere guidato dalle circostanze. In questi tempi duri pensa a farti degli amici, unisciti all’imperatore e ai signori della Lombardia, molti dei quali sono estremamente potenti, e sta sicuro che, in caso di successo o meno, Arrigo non lascerà l’Italia non senza aver apportato una trasformazione politica delle repubbliche toscane. Adesso raggiungiamo i nostri amici. Domani avremo modo di parlarne meglio e, se dobbiamo ricorrere alle armi, non c’è bisogno che ti dica quanto sono fiero di avere nobilitato la mia fazione con l’acquisto di Castruccio dei Antelminelli.»
I due si unirono al resto della compagnia. Galeazzo presentò il suo nuovo amico ai signori ghibellini della Lombardia. Qui Castruccio vide per la prima volta il magnifico Cane della Scala, signore di Verona, e lo splendido Guido della Polenta, signore di Ravenna e padre dell’infelice Francesca da Rimini. Questi nobili si erano radunati a Milano per presenziare all’incoronazione dell’imperatore, avvenuta poche settimane prima. Tutti a prima vista esibivano gioia e buon umore. L’imperatrice guidava il corteo, accompagnata da un bel giovane che teneva un arco nella sua mano, e Cane della Scala le stava accanto decantando le virtù del suo falcone. Castruccio fu colpito dal contegno del giovane che cavalcava vicino all’imperatrice. Era sfarzosamente vestito, portava una faretra dorata con gemme e sulle sue spalle aveva una fusciacca con perle ricamata, annodata sotto l’altro braccio. Era in ogni modo attrezzato come se dovesse diventare il favorito di un’imperatrice. Allora Castruccio pensò di riconoscere quegli occhi azzurri accesi, e quel sorriso dolce e serio lo riempì di tenere lacrime di ricordo. Chiese ansiosamente a Galeazzo chi fosse il giovane. L’amico rispose: «È lo scudiero di Can Grande, e si chiama Arrigo. Non so se ha altri nomi. L’imperatrice desidera averlo al suo seguito, ma il ragazzo preferirebbe portare le armi alle dipendenze del suo generoso padrone, piuttosto che fare il paggio e starsene nell’anticamera della regina.»
«Non mi sorprende», disse Castruccio, «perché la sua infanzia l’ha passata a lavorare nei campi e ad ascoltare gli insegnamenti del suo divino padre. Perciò deve essere poco incline ad entrare negli intrighi e nelle stravaganze di una corte. Se non ha dimenticato l’affetto che nutriva per me quand’era bambino, saprò conquistarlo e, se davvero suo padre fosse morto, sarà mio orgoglio e vanto essere il protettore del suo Arrigo.»
Non appena varcate le porte della città, il seguito dell’imperatore e quello dell’imperatrice si riunirono, e Castruccio si diresse verso Arrigo che stava dietro tra i nobili. Per un po’ lo osservò e si mise ad ascoltare i toni gentili della sua voce giovanile. Non osò aprir bocca, il suo cuore traboccava, e con gli occhi abbassati per l’emozione s’immaginò che la figura venerata di Guinigi stesse accanto a suo figlio e gli sorridesse. Si diresse verso il ragazzo. Finalmente, riprendendosi, si affiancò al cavallo d’Arrigo e sussurrò: «Il figlio di Guinigi s’è dimenticato di me? S’è dimenticato della fattoria tra i colli Euganei?»
Arrigo si accese subito, diventò pazzo di gioia ed esclamò: « Mio Castruccio!»
Si staccarono dalla compagnia ed entrarono in città alla ricerca di strade meno frequentate. Castruccio vide dall’aspetto del giovane amico che i suoi peggiori timori erano fondati e che Guinigi era morto, mentre Arrigo gli lesse nel volto che stava pensando a suo padre. Alla fine disse a Castruccio: «Fratello mio, se posso chiamarti così, è passato un anno da quando sono rimasto orfano. Dieci mesi fa ho abbandonato la mia vita felice tra le colline per stare con un padrone che, indubbiamente, è generoso e gentile con me, ma che non è mio padre. Ho come la sensazione che non ci sia mai stato un essere umano simile: lui era così immenso, così angelicamente saggio e buono, e adesso io galleggio seguendo la corrente insieme agli altri, da eletto, da attendente. La mia vita la passo senza gioia e guardo avanti verso il futuro senza provare piacere. Ma se soltanto, fratello mio, mi concederai una richiesta, un sole più splendente brillerà su di me.»
«Carissimo Arrigo, mio caro, caro fratello, io leggo nel tuo sguardo serio tutto quello che vorresti dire. Stai sicuro che non ci divideremo di nuovo! Ce n’andremo come soldati di ventura e la stessa stella nascerà e calerà per entrambi.»
«Basta, lascia il resto a me, sta a me organizzare il mio congedo da Cane della Scala. Informami dei tuoi movimenti e non temere: io sarò al tuo fianco.»
La sera stessa al palazzo dell’imperatore fu data una magnifica festa e Castruccio venne presentato al principe da Galeazzo. I signori della Lombardia lo guardavano con un occhio di riguardo, perché sapevano che non avrebbe potuto danneggiare i loro interessi a nord degli Appennini, anzi speravano che grazie a lui la fazione ghibellina potesse riprendersi e trionfare in Toscana.
Castruccio passò quasi tutta la serata a conversare con Arrigo. Il giovane non si sarebbe mai allontanato da lui, ricordava con l’affetto più profondo tutti gli episodi del loro antico rapporto e, piangendo, descrisse la morte di Guinigi, una morte serena, com’era stata la sua innocente vita. Un pomeriggio, nel pieno della calura estiva, Guinigi sedeva sotto un cipresso insieme a suo figlio e si perdeva nei particolari delle prospettive e del possibile destino del giovane Arrigo, e fu allora che, il padre e protettore, spirò. Il ragazzo, scosso da un presentimento malinconico, lo stava assicurando che non si sarebbe fissato su un periodo che era tanto lontano e che all’occorrenza non avrebbe fatto altro che portargli disperazione. Guinigi comunque gli disse che non si sarebbe frapposto, e con l’amore più sincero parlò per ore dell’argomento con una saggezza e bontà tali da sembrare più che umane. «Ahimè», sospirò Arrigo, «proprio mentre parlava pensai di vedere nei suoi occhi un lampo di luce celestiale, e il torrente di parole emozionanti che lui riversava era accompagnato da una voce profonda e tenera che riempiva l’aria di un armonia dolcissima più di qualsiasi altra musica della terra. Io lo ascoltavo, tanto da diventare quasi una statua di attenzione. Mentre mio padre mi esortava alla virtù, o descriveva i mali del mio paese, o dava rilievo al glorioso o pacifico cammino che avrei potuto prendere, io sentii dentro di me un mutamento dopo aver visto una nube passare davanti alla luna che, al suo avvicinarsi, proiettava una luce argentea e poi, coperta, svaniva rendendo tutto buio. Alla fine mio padre mi congedò dicendo che voleva dormire, e io lo vidi coricarsi sotto il cipresso a guardare il cielo, la cui luminosità era attenuata dalle foglie scure dell’albero. E lui s’addormentò per non svegliarsi mai più.
Oh! Quanto ho sofferto quando i nostri amici si sono accalcati intorno a lui e le donne sono accorse piangendo a far da prefiche! Ma tutto è passato, e adesso sento ancora l’agilità della giovinezza, anche se, fino a che tu non sei tornato, mi sono sentito solo e senza amici.»
Così parlarono, mentre la compagnia intorno a loro si stava divertendo con danze e canzoni. La festa finì tardi e solo per essere ripresa con il più grande entusiasmo per i giorni a seguire. Eppure, mentre tutto sembrava calmo, la tempesta che i politici avevano pronosticato esplose, e la quiete di quei convegni festivi fu disturbata dalla rivolta di Milano contro i tedeschi. Ora Castruccio per la prima volta era testimone dei moti popolari del suo paese: cavalieri armati galoppavano per le strade gridando ‘Libertà![1] Morte ai tedeschi!’, e una moltitudine di gente, furiosa per le nuove tasse che le erano state imposte, si univa al grido. Ma la rivolta fu spenta facilmente così come s’era accesa. I Visconti dopo aver esitato un po’ si schierarono con l’imperatore, mentre i Della Torre con i propri seguaci furono obbligati a fuggire, le loro case furono rase al suolo, i loro beni confiscati ed essi stessi dichiarati traditori.
Però gli effetti della rivolta milanese non furono tanto facilmente rimossi. Le varie città guelfe della Lombardia, Crema, Cremona, Brescia, Lodi e Como, stabilirono un piano di rivolta comune contro l’imperatore e, con l’avanzare della primavera, Arrigo iniziò la sua campagna di guerra nel tentativo di ridurre queste città a più miti consigli. Castruccio aveva ricevuto dall’imperatore il permesso di raccogliere un plotone di volontari, al suo comando nell’esercito imperiale, e la sua fama gli fece avere un gruppo di soldati coraggiosi, la cui disciplina e valore furono ammirati dagli altri comandanti.
Crema e Lodi si sottomisero prima dell’arrivo dell’imperatore e in cambio della loro opposizione intempestiva ricevettero un aumento di quelle vessazioni che erano la causa della rivolta. L’imperatore Arrigo marciò verso Cremona, che all’inizio mostrò resistenza, ma, quando i guelfi, senza speranza di successo, fuggirono dalla città, i ghibellini si arresero all’imperatore, il quale, per nulla impietosito dalla resa, punì i suoi stessi innocenti sostenitori gettandoli brutalmente in carcere, radendo al suolo le mura e le fortificazioni della città, lasciando le proprietà e i cittadini disarmati nelle mani dei barbari tedeschi che erano la maggioranza del suo esercito.
Castruccio entrò a Cremona a capo di una piccola truppa e vide con sconforto i frutti spietati della conquista imperiale di questa città. La maggioranza dei soldati tedeschi era intenta a distruggere le roccaforti, o a costringere i contadini e i cittadini ad abbattere le mura della propria città. Altri si aggiravano per le strade, entravano nei palazzi, distruggevano i ricchi arredi, banchettavano e buttavano giù tutto ciò che poteva sembrare oro o argento. Le cantine furono svuotate e le bande armate, ormai senza capo né coda e inebriate con i vini migliori d’Italia, erano nelle condizioni più adatte per opprimere la gente indifesa. Alcuni di questi poveri disgraziati fuggirono in aperta campagna, altri si chiusero nelle proprie case e, gettando dalle finestre quello che possedevano, cercavano di salvare se stessi dalla brutalità dei conquistatori. Molte donne della nobiltà si rifugiarono nelle catapecchie e si vestivano alla bell’e meglio con abiti poveri, finché, terrorizzate dagli sguardi osceni o dai volgari epiteti dei soldati, scappavano in campagna, rimando esposte alla fame e al freddo nei boschi intorno alla città. Altre, spettinate, con i vestiti in disordine, incuranti delle occhiate che si posavano su di loro, seguivano i mariti e i padri nelle orribili prigioni, chi nel silenzio della disperazione, chi torcendosi le mani e implorando pietà ad alta voce. Al calar della notte la soldataglia, stanca delle rapine, andò a coricarsi nei letti da cui i proprietari erano stati spietatamente cacciati. Regnava il silenzio, un silenzio terribile rotto talvolta dallo strillo di una donna ferita, o dalle urla brutali di qualche uomo che passava la notte andando da palazzo a palazzo a chiamare gli abitanti, chiedendo cibo e vino e, alla minima mostra di resistenza, trascinando le vittime in prigione, o incatenandole nelle proprie case con l’aggiunta d’ogni tipo d’insulto.
Castruccio divise il suo piccolo gruppo e mandò gli uomini a proteggere parecchi palazzi, mentre lui ed Arrigo cavalcarono tutta la notte per la città e, conoscendo la parola d’ordine dell’imperatore, riuscirono a salvare alcuni poveri sventurati dalla violenza dei soldati. Passarono molti giorni e le stesse scene si ripetevano. Anche il più duro dei cuori si sarebbe mosso a pietà nel vedere la sciagura dipinta sulle facce di molti, le cui vite precedenti erano state un continuo sogno di piacere: giovani madri in pianto per i loro piccoli sventurati, senza i padri che stavano a marcire o a morire di fame in carcere; bambini che singhiozzavano per avere un pezzo di pane, seduti sui gradini dei loro palazzi paterni, mentre all’interno i militari nuotavano nell’abbondanza; genitori senza figli, in lutto per i loro piccoli assassinati; orfani indifesi e moribondi, senza che nessuno potesse confortarli. Castruccio, pur essendo un soldato, pianse, ma Arrigo, che non era mai stato testimone delle miserie della guerra, quasi perse la testa per l’eccesso della sua compassione e indignazione: urlava imprecando, mentre le lacrime scorrevano dai suoi occhi, e la voce, rotta e acre, non era in grado di comunicare tutto il suo intenso orrore. Castruccio finalmente riuscì a trascinarlo fuori con forza da questa scena di sofferenza e, avendolo confortato con qualsiasi argomento, tra cui quello più importante di tutti, cioè che l’imperatore Arrigo ben presto avrebbe ordinato ai suoi soldati di ritirarsi da Cremona per seguirlo all’assedio di Brescia, mandò il giovane con una lettera da far avere a Galeazzo Visconti.
Tornando in città, Castruccio intravide una figura che camminava in fondo alla strada, una figura che gli ricordava qualcuno che aveva quasi dimenticato: Benedetto Pepi. «Ah! poveretto», disse a se stesso Castruccio, «adesso capirai che il saccheggio dei tedeschi è un male tremendo. Beh, se una volta ti ho salvato la vita, ora proverò, se non è troppo tardi, a salvare ciò che resta della tua proprietà.»
Chiese ad un passante della casa di Benedetto Pepi. L’uomo rispose: «Se intendete Benedetto il Ricco, ammesso che ci sia ancora qualcuno in questa miserabile città che possa essere chiamato così, io vi porterò alla sua casa.»
«Il mio Pepi, credo, dovrebbe piuttosto esser chiamato il povero, comunque portatemi da Benedetto il Ricco, e se si tratta di una figura alta, smunta, con un volto rugoso, simile al cuoio, allora è l’uomo che sto cercando.»
Castruccio fu condotto ad un palazzo nella parte più alta e dominante della città, costruito con grandi blocchi di pietra e a prima vista abbastanza fermo e solido da sopportare un assedio. Poche erano le finestre, piccole, con grate e ben incassate nei muri. Aveva un’alta torre, i cui finestrini mostravano ch’era di una saldezza e spessore non comuni. C’era un parapetto con torrette intorno al vertice, e la villa somigliava più ad un castello che ad un palazzo. L’ingresso era privo di luce e, dal numero delle scanalature, sembrava che ci fossero molte porte, però tutte rimosse. L’entrata era vuota. Castruccio avanzò: c’erano due grandi sale al pian terreno, in ogni lato del cortile d’ingresso, ciascuna era occupata da soldati tedeschi. Le sale avevano i soffitti alti, erano buie, spoglie, più simili a celle di prigione che a stanze di un palazzo. In una sala un buon numero di letti erano buttati sul pavimento lastricato, nell’altra c’era un gran fuoco in mezzo, dove diverse persone stavano cucinando, e un tavolo accanto straboccava di una quantità immensa di cibo, di cosci di manzo bollito e di pane nero. Due ragazzi stavano ai lati opposti del tavolo, con in mano una grande torcia, e i soldati facendo un gran baccano stavano scegliendo il loro posto sulle panche poste intorno. Castruccio si fermò, incapace di scorgere se Pepi era in mezzo a questa strana brigata. Alla fine lo vide che se ne stava in un angolo a riempire grandi brocche da un barile di vino. Si accostò a lui con una voce dolente e Pepi alzò i suoi piccoli occhi brillanti con un’espressione più di gioia che di dolore. Dopo aver riconosciuto il suo ospite, si allontanò dal barile e lo invitò in un’altra stanza, perché a malapena riuscivano a distinguere le loro voci tra le grida e il tumulto dei rozzi convitati. Scesero delle scale ripide e strette, e poiché Castruccio si era lamentato della mancanza di luce Pepi disse: «Andiamo in cima alla mia torre, tra dieci minuti il sole sorge e, anche se sarà buio dappertutto, qui ci si potrà vedere. Se volete aspettare un po’ vado a prendere la chiave.»
Pepi scese le scale e da una finestrella Castruccio lo vide attraversare il cortile, poi dopo pochi minuti tornò con circospezione e guardando i gradini. Quando fu vicino a Castruccio disse: «Quei ruffiani tedeschi ora stanno mangiando, bevendo e non ci noteranno, però noi cerchiamo di muoverci piano, perché io non ho ammesso nessuno di loro sulla mia torre né ho intenzione di farlo. È una roccaforte e quel poco che mi è rimasto è conservato qui, e lo conserverò malgrado l’imperatore e i suoi diavoli.»
Nonostante la torre apparisse larga i suoi muri erano talmente spessi che c’era solo una stanza all’interno a cui si accedeva con una scala a chiocciola. In cima a questa Pepi tirò delle catene e aprì una botola, così da salire sul piano esterno. Il cielo era scuro, ma ad est di un profondo color arancio, e la vasta e tetra pianura lombarda si estendeva lontana tutt’intorno: subito giù si trovava la città di Cremona, che a loro apparve silenziosa e tranquilla come se gli abitanti stessero godendo una perfetta stabilità. Per qualche minuto continuarono a guardare muti, Castruccio scrutando l’ampio scenario davanti, Pepi ammirando le spesse mura della sua torre. Finalmente Castruccio aprì bocca: «Una cattiva stella vi perseguita, Messer Benedetto, ed io temo che voi siate nato nel segno di qualche malvagia costellazione.»
«Senza dubbio», rispose Pepi, che nel suo contegno tuttavia aveva un’espressione indescrivibile da far trasalire il suo compagno: gli occhi scintillavano, e i tratti del volto, con una chiarezza inequivocabile, comunicavano gioia ed esultanza. La sua voce al contrario s’inabissava con accenti di dolore, e la sua risposta terminò con un gemito.
«Il vostro palazzo è devastato da questi ruffiani.»
«No, non c’è niente da devastare: i muri sono troppo spessi per essere abbattuti e io ho tolto ogni cosa prima che arrivassero.»
«Consumano il vostro cibo.»
«Non ho niente che possa essere consumato. Sono povero, solo, e in casa non ho cibo per loro. Si sono portati qui il frutto delle loro rapine. Mando il mio servo a far legna, ovunque possa raccoglierla; faccio un fuoco e loro preparano il cibo. Questo è tutto quello che hanno da me.»
«Avete perso qualche amico o parente in guerra?»
«Io non ho nessuno da amare. Ho avuto a che fare con la mancanza di rispetto e l’ingratitudine, ma non con la cortesia e l’amicizia, e così se i miei parenti sono morti non ho da piangere nessuno. Comunque sono tutti in salvo.»
«Allora a quanto pare voi non avete perso niente con il sacco di questi tedeschi, e siete ancora Benedetto il Ricco.»
Pepi aveva risposto alla precedente domanda di Castruccio con vivacità ed un’aria di trionfo e vanità, che invano era riuscito a nascondere; aveva inarcato le sopracciglia, un sorriso perdurava agli angoli delle sue labbra strette, e addirittura si sfregava le mani. Ma quando Castruccio disse queste ultime parole quell’espressione crollò, la bocca si abbassò, le braccia caddero giù e, osservando il suo abito misero, rispose: «Sono sempre povero, sempre sventurato e, Messer Castruccio, voi mi fate una grave ingiustizia e mi offendete a immaginare che io sia in qualche modo ricco. Io ho un palazzo ben robusto e una torre possente, ma non posso nemmeno mangiare le pietre o vestirmi con l’intonaco dei muri, e Dio sa che i miei possessi sono adesso ridotti a cinquanta miseri acri. E allora come posso essere ricco?»
«Se voi siete povero», aggiunse Castruccio, «almeno i vostri disgraziati cittadini condividono la vostra sfortuna. Le loro abitazioni sono state saccheggiate, quelli che sono sfuggiti alla devastazione dell’imperatore sono stati cacciati, crepando di fame e infelici, dagli unici domicili, palazzi o capanne, che avevano.»
Di nuovo Pepi si riaccese, gli occhi brillarono, e disse: «Sì, sì, molti sono caduti, ma non così in basso… non così in basso: hanno ancora terre, non sono del tutto in miseria, e i morti hanno i loro eredi…»
«Sì, certo, eredi della fame e dell’oltraggio. Poveri orfani! Ancora più miserabili che se fossero morti insieme a chi ha dato loro la vita.»
«No, io li compatisco profondamente, ma anch’io ho avuto delle perdite. Il primo gruppo di tedeschi che ha fatto irruzione in città ha preso a me il cavallo e al mio servo il suo castrone: ne debbo prendere altri quando i nostri nemici se ne saranno andati per mantenere l’onore del mio cavalierato. Ma, basta. Voi, Messer Castruccio, avete una truppa di italiani, cavalieri credo, al vostro comando: cosa intendete fare con loro? Restare in Lombardia, o seguire l’imperatore a sud?»
«Gli eventi ora sono i miei maestri e spero presto di dominarli, ma al presente devo essere guidato dal caso, e quindi non so rispondere alla vostra domanda.»
Pepi tacque per un po’ e alla fine disse tra sé e sé: «No, non è questo il momento, gli eventi non sono ancora maturi. Questo assedio ha fatto molto, ma io devo ancora ritardare… beh, Messer Castruccio, per ora non vi rivelerò alcune circostanze che, quando abbiamo iniziato a parlare, pensavo di confidare alla vostra discrezione. Un giorno, forse quando meno ve lo aspetterete, ci rincontreremo ancora, e se Benedetto di Cremona non è esattamente ciò che sembra, manterrò il segreto fino allora e resterò il vostro servo obbligato. E adesso, addio. Siete venuto a offrire i vostri servigi per salvare il mio palazzo. Sono un uomo prudente e così ordino i miei affari, in modo da non correre rischi, però vi sono debitore per questo e per altri atti generosi verso di me. Verrà un tempo in cui ci conosceremo meglio. Ancora, addio.»
Questo discorso fu fatto con un portamento grave e misterioso, e con un volto che esprimeva preoccupazione e importanti attese. Quando terminò di parlare Pepi aprì la botola e lui insieme a Castruccio scesero piano giù per le scale ancora segrete e raggiunsero il cortile del palazzo: qui si scambiarono di nuovo i saluti e si divisero. Pepi raggiunse i suoi ospiti indisciplinati, Castruccio invece si diresse verso l’accampamento dell’imperatore. Nel frattempo rifletteva sul senso di predizione che potevano avere le parole del suo strano compagno. La sua curiosità per un attimo fu eccitata da quelle parole, ma il cambio di luogo e lo scompiglio dell’azione gli fecero presto dimenticare l’esistenza di Benedetto il Ricco, di Cremona.
[1] In italiano nel testo.