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“Valperga”– Mary Shelley X

Creato il 09 dicembre 2011 da Marvigar4

fori imperiali

Mary Shelley (1797-1851)

VALPERGA

o

La vita e le avventure di Castruccio, Principe di Lucca

Traduzione integrale di Marco Vignolo Gargini dall’originale in inglese Valperga; or the Life and Adventures of Castruccio, Prince of Lucca

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Capitolo 10

Il racconto di Eutanasia.

   «È strano parlare per chi non ha mai manifestato prima i sentimenti del proprio cuore. Ho parlato con i miei occhi ai cieli stellati e alla terra verde, e con i sorrisi che non potevano esprimere le mie emozioni ho conversato con l’aria dolce dell’estate, con il mormorio dei torrenti e con le ombre dei nostri boschi divini: ma mai prima ho destato la compassione in un volto umano con parole che schiudessero lo scrigno del mio cuore.

   Ho vissuto un eremitaggio solitario e sono diventata entusiasta d’ogni bellezza. Da sola, non ho avuto paura di dar sfogo ai miei sentimenti, ho vissuto felicemente nell’universo della mia mente e spesso ho dato vita a ciò che altri chiamano un sogno. Poche erano le speranze che avevo e pochi i timori, però ogni sentimento fugace è stato un evento, e ho segnato la nascita di una nuova idea con la gioia che viene da ciò che altri definiscono cambiamento e fortuna. Cos’è il mondo se non ciò che sentiamo? Amore e speranza, piacere o dispiacere e lacrime, queste sono le nostre vite, le nostre realtà alle quali diamo il nome di potere, possesso, sfortuna e morte.

   Sorridi alle mie parole strane. Adesso io sento emergere emozioni più vive e, com’è mio costume, cerco di definirle e comprenderle. L’amore, quando è nutrito dalla compassione, è un sentimento più forte di quelle emozioni mozzafiato che si provano contemplando ciò che comunemente si chiama natura inanimata, e quegli sconvolgimenti straordinari ed eterni dell’universo. Sensazioni come quelle da me provate che, se conservate nel mio cuore devono trascinare tutto il mio essere, come la tempesta spazza le nubi nel cielo, non si stupiscono, caro amico, che io mi sia fermata e che persino abbia tremato, quando ho creduto che un potere ignoto stesse per prendere vita nella mia anima e avesse reso cieche le mie gioie precedenti e sorda la voce profonda di quella natura, i cui figli appena nati io chiamo con il mio nome. Ma ora non ho dubbi. Io sono tua, Castruccio. La mia sorte, sia buona o cattiva, porterà con sé l’umana compassione, e io mi affido a quella libertà selvaggia di cui prima ero gelosa.

   Mi hai chiesto di raccontarti le vicende della mia vita. Potrei dirti che la mia vita è vuota, se tu non ascoltassi la storia di molte idee strane, di molte sensazioni esaltate e fantasie di straordinari cambiamenti. Tu mi hai lasciato a Firenze come la figlia favorita di un padre che ho adorato: sono sempre stata vicino a lui a leggere e a conversare, e se ho messo ordine nei miei sogni di tutti i giorni e scelto nelle mie meditazioni il frutto della virtù e qualche piccola saggezza, devo ai precetti di mio padre il bene che ho acquisito. È lui che mi ha insegnato a misurare i miei sensi e a ordinare la mia mente, a capire quali fossero i miei sentimenti, se provenivano da una fonte buona o cattiva. Mi ha insegnato a considerare senza paura i miei difetti, umilmente come un essere debole, ma non con falsa modestia, bensì con misura e fermo coraggio, per farmi conoscere ciò che davvero sarei potuta diventare. Mi ha spiegato le lezioni del nostro divino maestro, che i nostri sacerdoti alterano per soddisfare i desideri più ignobili, e mi ha insegnato a cercare nell’autostima e nel pentimento, che sta nell’atto virtuoso e non nel pianto, per ottenere l’assoluzione, con cui i sacerdoti ricavano la loro rendita.

   Parlo con vanità? Spero tu non mi fraintenda. Sono stata un essere solitario e, conversando solo con il mio cuore, sono stata abituata ad usare il linguaggio schietto di una conoscenza basata su principi fissi, e a pesare le mie azioni e i miei pensieri su quelle bilance che la mia ragione e la mia religione mi accordavano, tanto che le mie parole possono suonare vane, mentre sono soltanto vere. No, non penso proprio di poter parlare con vanità, perché sto elencando i benefici che ho ricevuto da mio padre. Con lui ho letto la letteratura dell’antica Roma e tutta la mia anima era colma delle belle azioni e dei sentimenti poetici di quegli scrittori. All’inizio mi lamentavo che nessun uomo vivente fosse simile a questi fari luminosi della terra, ma mio padre mi convinse che il mondo stava per scrollarsi di dosso la sua barbarica fiacchezza e che Firenze, nella sua lotta per la libertà, aveva risvegliato le più nobili energie della mente umana. Una volta, ospiti in una corte in Lombardia, un menestrello recitò alcuni Canti della Divina Commedia [1] di Dante, e io non potrò dimenticare la gioia immensa che provai a scoprire che ero una contemporanea di quest’illustre autore.

   Io tento di distinguere in questa piccola mia storia l’uso dei vari sentimenti che regolano tutte le mie azioni, e debbo datare l’entusiasmo per le libertà del mio paese e per il benessere politico dell’Italia a partire dall’ascolto ripetuto di questi Canti del poema dantesco. I romani, i cui scritti ho adorato, erano liberi. Un greco, che una volta andò in visita da loro, ci ha riferito quali tesori di poesia e saggezza ci fossero nella loro lingua, e questi erano i prodotti degli uomini liberi: la storia intellettuale del resto del mondo, che era in schiavitù, era uno spazio vuoto, così io fui irresistibilmente costretta a congiungere la saggezza e la libertà e, venerando la saggezza come pura emanazione della divinità, la luce divina del mondi, così adorai la libertà come sua genitrice, sua sorella, metà del suo essere. Firenze era libera e Dante era un fiorentino. Nessuno se non un uomo libero avrebbe potuto spandere la poesia e l’eloquenza che io ascoltavo, e questo nonostante Dante sia stato espulso dalla sua città e abbia abbracciato una causa che sembrava sostenere la tirannia. L’essenza della libertà è il contrasto, la lotta che sveglia le energie della nostra natura, e l’operato degli elementi della nostra mente, che per così dire ci dà la forza e la facoltà che c’impediscono di degenerare, e ci dicono come agiscono le cose terrene quando non sono rinnovate dal cambiamento.

   Cos’è un uomo senza la saggezza? Cosa non sarebbe questo mondo se ogni uomo potesse apprendere dai suoi ordinamenti i veri principi della vita, e diventasse come quei pochi che hanno brillato simili a stelle nella notte dei tempi? Se il tempo non avesse scosso dalle ali la luce della poesia e del genio, tutto il passato sarebbe buio e senza tracce. Ora noi abbiamo una traccia: le impronte gloriose dei figli della libertà. Imitiamoli e come loro potremo essere dei segnali nel deserto per attirare i futuri passanti diretti alle sorgenti di vita. Già abbiamo cominciato a fare così e Dante rappresenta la promessa di una razza gloriosa che ci dice che, aderendo alla libertà che ha partorito il suo genio, potremo risvegliare le speranze perdute del mondo. Questi sentimenti, alimentati e diretti da mio padre, sono nella mia anima la causa di un entusiasmo che morirà con me.

   All’epoca avevo circa sedici anni e a quell’età, finché sono stata guidata dalle lezioni di mio padre, le mie meditazioni sarebbero state abbastanza infruttuose. Ma lui, insegnandomi a considerare il mondo e la comunità umana o a studiare il piccolo universo della mia mente, era la saggezza in persona quando dava libero sfogo agli accenti che richiedevano attenzione e obbedienza. All’inizio ho creduto che il mio cuore fosse onesto e che non avrei sbagliato a seguire i suoi comandi. Ero fiera e non amavo costringere la mia volontà, sebbene io fossi padrona di me stessa. Ma lui mi disse che nemmeno il mio giudizio o le passioni dovevano governarmi, e che le mie future felicità e opportunità dipendevano dalla scelta che avrei fatto tra queste due regole. Ho imparato da lui a considerare gli eventi come conseguenza soltanto dei sentimenti eccitati dagli eventi stessi, e a ritenere che la pienezza della mente, l’amore, e il sentimento di benevolenza dovessero essere gli elementi della nostra esistenza, mentre i rovesci della fortuna o della fama, che per la maggioranza costituiscono la somma del loro essere, fossero come la polvere sulla bilancia.

   Bene, questi furono gli insegnamenti di mio padre, un tesoro di sapienza a cui ho attinto fino ai diciott’anni. Fu allora che morì. Ciò che provai, il mio dolore e la mia disperazione, non lo racconterò. Sono pochi i dispiaceri superiori a quello di un bambino che perde un genitore amato prima di aver formato nuovi legami che indeboliscono il primo e il più sacro.

   Ti ricordi mia madre? Era una donna d’animo gentile e di un’umanità ed equanimità di temperamento che pochi potevano superare. Era guelfa, energica nella sua faziosità ed era presa, anima e corpo, dai trattati di pace, dalle conquiste belliche, dalla condotta degli alleati, e dalla sorte dei suoi nemici. Mentre ti parlava, avresti pensato che l’intero globo terrestre fosse soltanto un appendice della contea di Valperga. Lei conosceva tutti i magistrati di Firenze, la possibilità delle elezioni, lo stato delle truppe, gli introiti delle imposte, ed ogni situazione della repubblica. Seguì nella maniera più viva la caduta di Corso Donati [2], la guerra con Pistoia, la presa di quella città, e le morti e elezioni dei vari papi. Era presente in ogni corte dei signori guelfi di Lombardia, e i suoi poveri subalterni a volte venivano appena tassati perché noi potessimo apparire con dignità consona a queste occasioni. La sua preoccupazione maggiore era il matrimonio dei figli, ma non riuscì mai a giungere ad una soluzione decisiva su quale alleanza fosse la più vantaggiosa per la famiglia e che allo stesso tempo promovesse di più la causa dei guelfi in Italia.

   Quando mio padre morì, lei fece venire mio fratello maggiore da Napoli e per parecchi mesi la sua mente era occupata dall’idea della sua ascesa e della dignità che le case degli Adimari e dei Valperga avrebbero acquisito avendo un giovane guerriero alla loro testa, invece di una donna, oltretutto filosofa e confusa. Mio fratello era un soldato, un uomo valoroso, pieno di ambizione e di spirito di parte. Un nuovo scenario si aprì alla visione politica di mia madre grazie a lui, quando descrisse gli intrighi della corte napoletana. Lei era sempre impegnata ad inviare messaggeri, a ricevere dispacci, a calcolare le imposte, in tutti quegli atti da pigmei di uno stato meschino.

   Quando avevo diciannove anni giunse la notizia che il mio fratello più giovane si era ammalato a Roma e desiderava vedere qualcuno della famiglia. Mio zio, l’abate di San Maurizio, era sul punto di andare a Roma e io ottenni il permesso da mia madre di accompagnarlo. Oh, che sorsi colmi di gioia bevvi in quel viaggio! Non pensavo che la malattia di mio fratello fosse grave, e in effetti consideravo quella circostanza più un pretesto che il fine del mio viaggio. Così io mi abbandonai senza timore all’entusiasmo che inondava la mia anima. L’espressione rimase ferma, come allora il mio spirito languiva sotto l’influenza di questi pensieri: era a Roma che mi recavo, a vedere le vestigia della capitale del mondo, tra le cui mura tutto ciò che potevo concepire di grande, di buono e di saggio aveva respirato e agito. Aspiravo l’aria sacra che aveva animato gli eroi di Roma, le loro ombre mi avrebbero circondata, e quelle pietre che stavo calcando erano segnate dai loro passi. Puoi immaginare quello che provai? Tu non hai studiato la storia antica e forse non conosci la vita che in lei respira: un’anima di bellezza e sapienza che ha penetrato l’intimo del mio cuore. Quando discesi dalle colline degli Abruzzi e vidi per la prima volta il Tevere che dispiegava le sue acque tranquille scintillanti sotto il sole del mattino, piansi. Perché Catone non viveva? Perché non stavo vedendo i suoi consoli, gli eroi e i suoi poeti? Ahimè! Mi stavo accostando all’ombra di Roma, al cadavere inanimato, all’immagine frantumata di ciò che un tempo fu grande oltre ogni potere che la parola può esprimere. Il mio entusiasmo mutò ancora e io provai una sorta d’orrore sacro scorrere per le mie vene. Tu, oh! Tevere, che da sempre scorri, eternamente uguale! Certo non ci sono più le acque dei tempi in cui gli Scipioni e i Fabi vivevano sulle tue rive; l’erba e la vegetazione che adornano le tue sponde più di mille volte sono ricresciute da quando furono calpestate dai loro piedi. Tutto è cambiato, anche tu non sei lo stesso!

   Quando entrammo a Roma era notte a stento osavo respirare, le stelle brillavano nel blu profondo del cielo e con i loro raggi splendenti illuminavano le torri buie, che erano nere e silenziose come assopiti esseri animati. Una processione di monaci passò cantando in un tono dolce e solenne, in quella lingua che un tempo risvegliava i riposi di quest’aria romana con parole infuocate. Mi sembrò che cantassero il requiem della loro città e io stessi seguendo verso la loro ultima piccola dimora tutto ciò che era esistito di grande e buono in questa città abitata da Dio.

   Rimasi a Roma tre mesi. Quando arrivai mio fratello stava assai meglio e nutrimmo ogni speranza per la sua guarigione. Passai il mio tempo tra le rovine di Roma e mi sentii, come mi fu detto di sembrare, più un’ombra vaga dell’antichità che un’italiana moderna. Nel mio entusiasmo scatenato invocai le ombre dei dipartiti perché parlassero con me e profetizzassero le sorti dell’Italia nascente. Non posso dimenticare una sera in cui visitai il Pantheon al chiaro di luna: i tenui raggi filtravano attraverso il suo tetto aperto e le alte colonne rilucevano tutte intorno. Mi sembrò che lo spirito della bellezza scendesse nell’anima mentre sedevo là nella mia estasi muta. Non avevo sperimentato mai prima come allora la sensazione di cogliere l’universo della mia mente, o i segni sicuri delle altre esistenze. Oh! Se solo potessi dire adesso con parole i sentimenti d’amore, di virtù e della più sacra saggezza che allora irruppero in me come un torrente in piena… com’era la luce della luna dentro il tempio buio in cui mi trovavo… il mondo intero starebbe ad ascoltare: ma quei pensieri profondi sono più vaghi e più evanescenti dei raggi lunari. I miei occhi brillavano, le mie guance arrossivano, ma ero senza parole. È come se in quel momento, forse d’estasi assoluta, la mia anima agisse dentro di me e, se potessi svelare le sue segrete operazioni, scoprisse appieno i fondamenti del mio essere … in quel momento io potevo morire.

   Bene, per tornare agli eventi che chiusero la mia permanenza a Roma, e liberandomi della delicatezza che la tenera pena aveva sui miei sentimenti, uniti alla loro profonda santità, l’ultimo mese che passai là, fui costantemente al capezzale di mio fratello morente: non provò dolore, la sua malattia lo infiacchiva, e io guardavo con il respiro mozzo il passaggio dalla vita alla morte. Talvolta, quando l’Ave Maria risuonava e il caldo del giorno era calato, uscivo furtivamente all’aria aperta per rinfrescare i miei spiriti esausti. Non c’è un cielo così azzurro come quello di Roma, è intenso, penetrante e abbagliante: ma a quell’ora era sfumato e la sua aria leggera, che compone una musica fragorosa ed emozionante nelle solitudini dei suoi colli e delle rovine, raffreddava le mie guance febbrili e placava la mia sofferenza. Allora io mi compiacevo del dolore, adesso posso dire così, anche se provavo soltanto angoscia. Piansi davvero e amaramente sulla malattia di mio fratello. Ma, quando l’anima è piena di vita ha con sé una certa consolazione: non ero mai stata così viva come allora, quando le mie peregrinazioni, che raramente superavano una o al massimo due ore, sembravano allungarsi in giorni e settimane. Amavo vagare sulle rive deserte del Tevere e, se soffiava lo scirocco, segnare le nubi che correvano sul campanile di San Pietro e sulle numerose torri di Roma. Talora camminavo fino al Quirinale o al Pincio, i colli che sormontano la città, e mi mettevo a scrutare finché la mia anima era sollevata dal trasporto poetico. Meravigliosa città, le tue torri erano illuminate dalle tinte arancione del tramonto che spuntava veloce, e i fantasmi delle belle memorie fluttuavano insieme alla brezza notturna, tra le rovine. Io mi calmavo, in mezzo a un popolo scomparso e ad un impero estinto. Quale singolo dolore avrebbe osato alzare la sua voce? Placida, tremante e sopraffatta, tornavo strascicante al letto di mio fratello malato.

   Lui morì e io lasciai la città della mia anima. Non so se respirerò ancora la sua aria, ma la sua memoria è una nuvola accesa del tramonto nell’azzurro profondo del cielo: è quello il passaggio nella mia vita sin dalla morte di mio fratello su cui gli occhi del mio intelletto si posano con emozione, adesso piacevole, sebbene allora io sentissi un dolore toccante.

   La viandante che portava a mia madre la notizia della morte del fratello più piccolo fu incrociata per la strada da qualcuno che veniva ad informarmi che anche il fratello maggiore era morto. Fu ucciso in un assalto a Pistoia. Così la morte all’improvviso recise i ranghi della nostra famiglia e io divenni alla fine il solo rampollo della stirpe.

   Tornai a casa viaggiando molto lentamente, e mi fermai per due settimane a Perugia. Quando arrivai al nostro palazzo a Firenze mia madre mi venne incontro, scoppiò in singhiozzi, mi strinse tra le sue braccia, e pianse per un po’ di tempo lamentando con grande amarezza le infelici perdite. Unii il mio pianto al suo e, ahimè!, ben presto mi ritrovai a versare le mie lacrime da sola, due volte orfana dopo la morte di mia madre, piansi per l’ultima persona della mia famiglia. Così tante perdite, una dopo l’altra, mi stordirono e io trascorsi molti mesi come chi ha perso il sentiero e non ha una guida che lo sappia riportare sulle via giusta. Mi ritirai nel mio castello e la solitudine mi spaventava. Tornai a Firenze, ma le gioie di quella città non facevano altro che ricordarmi di più che ero sola, e da allora io non ho avuto legami con nessuno. Ma il tempo ha guarito le mie ferite, lasciando solo una sfumatura di malinconia nel mio carattere che non era fino ad allora malinconico.»


[1] Divina Comedia nel testo.

[2] N.d.a. Dante, Purgatorio, Canto XXIV.



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