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“Valperga”– Mary Shelley XV

Creato il 31 dicembre 2011 da Marvigar4

Galeazzo visconti

Mary Shelley (1797-1851)

VALPERGA

o

La vita e le avventure di Castruccio, Principe di Lucca

Traduzione integrale di Marco Vignolo Gargini dall’originale in inglese Valperga; or the Life and Adventures of Castruccio, Prince of Lucca

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Capitolo 15

Convegno di Castruccio e Galeazzo Visconti, di Castruccio e il vescovo di Ferrara.

   Quando Castruccio ed Eutanasia giunsero a Firenze trovarono i cittadini in festa: le campane suonavano, la gente di campagna era accorsa in città e i giovani d’ambo i sessi del più alto rango, vestiti sontuosamente, sfilavano per le strade ricoperti di corone di fiori, cantando i poemi di Dante e del suo amico Guido, accompagnati da molti strumenti. Castruccio disse: «Ti devo chiedere, cara Eutanasia, che sei così esperta degli usi e costumi fiorentini, di spiegarmi il senso di quest’allegria.»

   «Veramente, sono del tutto all’oscuro. So che a maggio in tempi di pace ci sono degli incontri festosi tra i giovani della nobiltà, ma questa sembra una festa generale. Chiediamo a quel serio gentiluomo con il cappuccio nero se sa il motivo di una gioia che, perlomeno, non si avverte sul suo volto.»

   L’uomo rispose alla domanda: «Dovete essere arrivati tardi per non conoscere il motivo della nostra esultanza. I fiorentini, Madonna, celebrano l’evento di un auspicio molto favorevole con cui Dio e San Giovanni hanno benedetto la nostra città. Ieri una delle leonesse mantenute a spese della repubblica, ha partorito cinque cuccioli.»

   «E questa è l’occasione importante per un divertimento così serio?» chiese Castruccio ridendo.

   «Mio signore», disse l’uomo, «voi siete straniero in questa città, altrimenti non trovereste niente da ridere in quest’evento. I fiorentini allevano un certo numero di leoni, come segni e simboli della loro forza: Dio e San Giovanni hanno chiaramente mostrato in molte occasioni che la prosperità di Firenze e la salute dei leoni sono legate fra loro. Tre tra i più bei e grossi leoni sono morti alla vigilia della fatale battaglia di Montecatini.»

   «Allora questi saggi repubblicani, di cui tu, cara Eutanasia, ti vanti tanto, credono in questi presagi infantili. Scommetterei il mio miglior cavallo che i loro racconti sono infarciti di storie sull’influenza delle stelle e sull’apparizione delle comete!»

   «Non so se ti sbagli del tutto. Certo è che i più nobili cittadini qui credono molto nell’astrologia e nei prodigi. Se tu parli di una carestia, loro ti diranno di una meteora; se tu dici che il re di Francia ha perso una battaglia, ti assicureranno che l’intero regno è diventato, per volontà di Dio e San Giovanni, più debole e più infelice da quando Filippo il Bello ha confiscato i beni agli usurai fiorentini. Noi amiamo trovare una causa per ogni evento, credendo che, se non siamo in grado nemmeno di accordare un collegamento tra i fatti, siamo almeno sulla strada giusta per scoprire i segreti ultimi della natura. Tu ridi per la celebrazione della nascita di questi leoncini, anch’io riconosco che mi piace pensare a quanto sia innocente e attiva l’immaginazione di quella gente che sa trovare un motivo di gioia universale per un evento simile!

   È la stessa immaginazione impiegata più utilmente e abbondantemente che li fa deliberare la costruzione dei più grandi e begli edifici dei nostri tempi. Gli uomini che hanno concepito l’idea e contribuito con i loro soldi ad erigere il Duomo non ne vedranno mai il completamento, ma i loro posteri lo vedranno e, se non degenereranno, saranno fieri del nobile spirito dei loro antenati. Molti anni fa, quando i fiorentini guerreggiavano con i senesi, presero d’assalto una torre molto grande, che dominava un passaggio assai importante. Distrussero la torre e, a metà demolizione, la riempirono di terra e vi piantarono un albero d’olivo, che ancora fiorisce, come emblema della pace che seguirà le loro conquiste.»

   Castruccio rimase solo pochi giorni a Firenze e, raccomandandosi alla costanza e all’amore d’Eutanasia, prese affettuosamente congedo da lei e affrettò il suo viaggio a Rovigo, dove aveva promesso di incontrare Galeazzo Visconti.

   Galeazzo, che adesso era succeduto a suo padre nella signoria di Milano, era il capo più potente della Lombardia. Aveva circa trentacinque anni e tutte le caratteristiche di un volto italiano: sopracciglia arcuate, occhi neri, naso aquilino e una figura piena di grazia forte e minuta. Aveva una ampia dose di talento: era deciso nel combinare i piani, ma non paziente a sufficienza per vederne il progresso, o perseverante per portarli in fondo. Galeazzo era astuto, ambizioso e vanesio, anche là dove il suo interesse non era coinvolto, aveva un buon carattere e in ogni occasione superava persino gli italiani in quanto a cortesia. Aveva visto molto del mondo e sofferto parecchie disgrazie, questo gli dava una disposizione flessibile, anche nelle maniere, che lo faceva apparire più generoso di ciò che era realmente; infatti lui non aveva mai perso di vista per un momento il proprio interesse e, se talvolta s’allontanava dal suo obbiettivo, la mancanza di giudizio e non d’inclinazione causava l’errore.

   Voleva che Castruccio aderisse alla sua fazione e ai suoi disegni. In lui vedeva il capo del partito ghibellino toscano e il domatore dei nemici fiorentini. Si accorse che la sua situazione era precaria, però, se riusciva a farsi alleato Castruccio, sperava d’intimorire gli avversari. Più di tutto desiderava la distruzione della roccaforte guelfa, Firenze, e Castruccio sarebbe diventato il suo distruttore. Aveva sentito con sgomento dei progetti di pace di Castruccio con Firenze, augurandosi che non potesse realizzarli, ma soltanto quella parola, pace, distruggeva le sue speranze. Voleva vedere il console e convincerlo del progetto da lui concepito che avrebbe determinato la completa superiorità dei ghibellini. Le circostanze lo avevano condotto a Rovigo e là invitò Castruccio ad andarlo a trovare, e il pretesto fu la restaurazione del marchese d’Este prevista a Ferrara.

   Gli amici andavano da lui con ogni riguardo. Galeazzo misurava ogni parola di Castruccio che potesse rivelare le sue intenzioni, prima d’avventurarsi a comunicare la propria volontà. Il primo argomento affrontato fu l’affare impellente della restaurazione del marchese Obizzo come sovrano di Ferrara. «Questa città», disse Galeazzo, «che a lungo ha obbedito alla famiglia Este, adesso è nelle mani dei guelfi e il vicario del papa, con una guarnigione di duecento guasconi, la controlla. La gente, ingannata dall’efficace politica della corte romana, la cui prima, seconda e terza massima è quella di riempire i propri forzieri, desidera ardentemente la restaurazione del loro legittimo principe. Abbiamo pensato spesso d’assediare la città, ma quella sarebbe un’azione lunga e costosa e di dubbio successo perché, se i ghibellini levassero il loro grido di guerra, tutte le volpi guelfe resusciterebbero e starebbero con loro, e voi sapete che le nostre terre sono sovraffollate da questi vermi. Uno stratagemma è il metodo più sicuro e facile per fare guerra e cruento meno della metà del modo ordinario. Abbiamo molti amici dentro le mura ferraresi e non ho dubbi che avremo successo se stabiliremo una comunicazione adeguata tra noi. Il vescovo che è nostro amico fidato, pur essendo un uomo di chiesa, giorni fa ci ha mandato un messaggio in cui, per quanto formulato in modo mistico, sembra dire che tradirebbe la sua città per consegnarla nelle nostre mani se incaricassimo uno dei nostri capi di trattare con lui, visto che si rifiuta di rivelare il suo progetto a un subordinato. Ora, voi, mio buon amico, dovete assumervi questo compito. Siamo tutti molto esperti di come si entra in una città, però un piccolo camuffamento vi farà superare le guardie con sicurezza e non dubito nemmeno del potere e della capacità del vescovo Marsilio.»

   Castruccio aderì alla richiesta dell’amico e la sera fu presentato al marchese d’Este, che lo ricevette con riguardo e distinzione.

   La mattina dopo, quando Galeazzo e lui cavalcarono insieme, Galeazzo disse: «Sono certo, caro Castruccio, che non potrò mostrare a sufficienza la mia gratitudine per la vostra cortesia d’aver lasciato Lucca su mia richiesta, e d’esservi assentato dal suo governo, che spero fortemente non avrà a soffrire la vostra assenza. Ma ho meno rimorsi da quando la tregua che avete concluso con Firenze vi permette qualche svago.»

   «Non una tregua, ma meglio: ho concluso una pace.»

   «Sì, una tregua o una pace sono la stessa cosa, entrambe saranno alquanto di breve durata.»

   «Allora sapete leggere così bene le intenzioni del nemico da sapere quando e come questa pace si trasformerà in guerra?»

   «Io non so leggere bene niente, amico mio, eccetto la politica e i cambiamenti in Italia, e a causa loro ho sofferto abbastanza e sono coinvolto a sufficienza per prevederne il corso prima del tempo. Il fuoco e l’acqua si alleeranno affabilmente come guelfi e ghibellini, Bianchi e Neri. I loro interessi sono la guerra e perciò così devono essere. Ma perché dire questo a voi che avete tutte le prospettive di diventare il vicario imperiale in Toscana? Pensate che la guerra sia il salvacondotto per il paradiso?»

   «Mio caro Galeazzo, facciamo ad intenderci. Io sono un ghibellino fedele alla mia fazione e all’imperatore e, se pensassi che ci fosse una buona occasione per sopprimere i Neri, per il Volto Santo di Lucca, farei una crociata contro di loro, come non s’è mai vista dai tempi del Saladino. Che l’imperatore venga in Italia e qualcosa si potrà fare, ma perché portare avanti una guerra meschina che distrugge il paese e affama i contadini, quando basta prendere appena un fiorino dalle casse dei mercanti fiorentini, o avanzare di un pollice per raggiungere la meta che desideriamo?»

   «E questa è la fine dei sogni di trionfo e dominio con cui siete entrato a Lucca tre anni fa? E ora che avete il governo di quella città d’arance e limoni, che lo scopo principale della vostra vita è raggiunto, siete pronto a riposare sulla vostra conquista, definendovi un grande uomo?»

   «Veramente c’è poco spazio o tempo per dormire a Lucca. Pensate che stia con le mani in mano, mentre una dozzina di castelli ribelli che dovrebbero essere sottomessi invece mi resistono? Intanto fatemeli conquistare. Non fatemi vedere nemici per miglia intorno a Lucca e poi parleremo di Firenze.»

   «No, amico mio, non dovete lasciare nulla alla decisione delle circostanze. Un uomo saggio prevede e provvede a tutto. Firenze un giorno dovrà essere vostra e voi, principe di Toscana, d’Italia, se volete, sarete il legislatore di noi tutti. Non sobbalzate: tra le molte profezie di Merlino e le restanti mi permetto di farne una e, come molte altre, il suo annuncio contribuirà alla sua realizzazione. Mio caro Castruccio, questo non è un gioco per bambini, perché gli uomini sono il nostro dado e il nostro gioco: fatevi avanti e vincerete. In Lombardia i ghibellini prosperano, ma, eccetto Pisa e la vostra Lucca, i guelfi dominano in tutta la Toscana. Ma ciò non deve continuare. I papi sono assenti dall’Italia e Roma è diventata una vera spelonca di ladri, è uno spazio vuoto nel conto. Napoli e Firenze sono gli unici nostri nemici. L’imperatore deve conquistare la prima e voi la seconda. Fate che tutti i vostri sforzi tendano a questo. Parlate di castelli ribelli vicino Lucca… Sì, intanto sottometteteli e braccherete i fiorentini senza timore. Che la vostra volontà sia come il vento che trascina tutto: all’inizio è calmo, raccoglie le sue forze all’orizzonte e poi irrompe spazzando tutto: Firenze deve cadere prima… Giuro che cadrà. Però datemi la vostra mano, la vostra fiducia, Castruccio, e prometto che anche voi l’avrete.»

   «No, per la Vergine! Io non eviterò di fare la mia parte per domare i cuccioli di questa leonessa selvaggia: se Firenze può essere mia, lo sarà, e che la volontà di Dio e la vostra profezia si realizzino.»

  «Bene…. Al momento siete in pace con loro, ma deve essere una pace da rompere e non per rafforzarli. Avete appena ottenuto la signoria, la vostra autorità è fresca, forse instabile, ma formate le vostre truppe, siate un principe per il vostro popolo e attaccate i nemici di tutti i principi. Oh! datemi retta, toglietevi questo vecchio titolo di console, è contaminato da un’idea che detesto… una repubblica: siate principe e allora un odio puro e acceso per Firenze crescerà in voi e non avrete bisogno del mio sprone per distruggerla. Il contagio della libertà è pericoloso… i ghibellini cadranno a Lucca se i guelfi non sono annientati a Firenze. Credete che, se si concede al vostro popolo un rapporto libero con questa repubblica, la piaga della libertà non si diffonderà nel vostro stato? Nessuna quarantena sradicherà quel morbo una volta che è entrato negli animi: si formeranno complotti, ribellioni contro di voi. Firenze sarà il motto, il punto di raccolta per tutti. Decidetevi, perché una sola scelta v’è rimasta: soffocare quella città o andare ancora in esilio.»

   Questi furono gli insegnamenti con cui Galeazzo risvegliò il fuoco sopito nell’anima di Castruccio, un fuoco nascosto ma non estinto e che adesso bruciava più violentemente che mai. Giurò la distruzione dei guelfi e una guerra senza fine a Firenze, il suo sangue scorreva più libero, gli occhi brillavano di più, l’anima si esaltava al pensiero che un giorno sarebbe stato il padrone di quella città orgogliosa.

   Nel frattempo il marchese d’Este occupò la loro attenzione e Castruccio si preparò per questa ambasceria al vescovo di Ferrara. Non portò con sé carte che sarebbero stato pericolose se scoperte, ma, travestito come un mercante di Ancona e prendendo dei documenti che potessero sostenere il suo personaggio, lasciò Rovigo per Ferrara, che era distante circa venti miglia, ed entrò in quella città alle dieci del mattino, recandosi subito, non interrogato da nessuno, al palazzo vescovile. Il vescovo era un uomo anziano dalla fisionomia molto amichevole, con un tono di voce dolce e mite, alto di statura, dalla figura eretta, con un’aria di distinzione e benevolenza che convinceva pur mettendo soggezione a tutti. Le sue tempie erano leggermente velate da ciocche argentate e la barba bianca, lunga fino al busto, aumentava la dignità del suo aspetto. Castruccio, che grazie alle sue relazioni mondane aveva imparato a rispettare sempre l’età, si avvicinò a lui con rispetto e rivelò il suo rango e la missione. Il vescovo rispose:

   «Mio nobile signore, il marchese ha fatto ciò che ho desiderato a lungo, inviando a me una persona alla quale posso affidare l’importante segreto, che non ho dubbi sarà lo strumento del suo reintegro al governo. Questa sera i miei amici si riuniranno nel mio palazzo, con il loro consiglio tutto sarà sistemato, i mezzi a voi rivelati con cui io propongo di lasciare Ferrara nelle mani del suo legittimo principe e fissare il giorno per l’inizio dell’impresa.»

   Il vescovo e Castruccio restarono insieme tutto il giorno, entrambi reciprocamente a proprio agio, come spesso accade quando c’è comunanza d’opinione e di sentimento, divennero intimi in poche ore, là dove in altre casi sarebbero occorsi degli anni. Castruccio aveva un gran gusto per la conoscenza teologica e il vescovo, come uomo di mondo, era deliziato dalla conversazione e dalle osservazioni di chi aveva visto tanti scenari e visitate così tante nazioni. Subito nacque una confidenza tra loro, tanto sembravano comprendere ognuno i sentimenti e il carattere dell’altro. Il vescovo era un ghibellino, ma i suoi motivi erano puri: l’indignazione per le corruttele della corte papale, la condanna per la fazione e le zuffe che a lui apparivano inseparabili da una repubblica, lo legarono fortemente al partito imperiale e a quei signori che, regnando in pace su un popolo che li amava, sembravano assicurare la quiete dell’Italia.

   La sera i seguaci del marchese d’Este si riunirono nel palazzo vescovile per deliberare i loro progetti. Castruccio fu presentato a loro e ricevuto con cordialità e rispetto da tutti. L’assemblea era composta da quasi tutta la nobiltà di Ferrara, in primo luogo soprattutto ghibellini, ma c’erano anche dei guelfi, disgustati dall’introduzione di truppe straniere e dall’arroganza e il dispotismo dei loro comandanti. Il governo tuttavia era autorevole, aveva il presidio su tutte le porte della città e sulle fortezze, la sua guardia armata era numerosa e fedele, tanto che la restaurazione di Obizzo poteva essere ottenuta solo grazie ad uno stratagemma.

   In un angolo della vasta stanza dove sedeva l’assemblea c’erano due donne. Una era anziana e abbigliata secondo la moda del passato: tutta in nero come una vedova, la sua veste era chiusa e stretta, ornata con perline e fatta di tessuto nero. Un velo nero copriva il suo capo e il cappuccio gettato da una parte rivelava gli anni e le rughe della figura venerabile che l’indossava. Era impossibile giudicare l’età e a malapena il sesso della figura che sedeva accanto a lei, poiché il mantello l’avvolgeva quasi completamente, il cappuccio le copriva la faccia e stava zitta in disparte, nella parte più buia della stanza.

   Il vescovo alla fine si rivolse a Castruccio: «Mio signore», disse, «voi avete ora in vostro possesso i dettagli del nostro piano e potete capire la sincerità delle nostre intenzioni e il nostro desiderio impaziente di riavere il principe legittimo: resta soltanto da mostrarvi l’accesso di cui vi ho parlato e fissare il giorno per il nostro tentativo.»

   La donna anziana, che finora era stata in silenzio, ora si voltò subito e disse: «Fratello mio, Beatrice dovrebbe fissare il giorno propizio in cui possiamo avviare quest’opera. Parla, bambina mia, che la beata Vergine ispiri le tue parole!»

   Finito di parlare, tolse il cappuccio alla sua giovane compagna e Castruccio scorse in lei una bellezza eccellente e quasi divina. I profondi occhi neri, nascosti a metà dalle palpebre, le labbra curve, il volto perfettamente ovale, il colore brillante delle guance che, pur di carnagione pura e delicata, erano sfumate dal sole d’Italia, formavano un ritratto come quello che Guido [1] aveva immaginato quando dipinse una Vergine o un’Arianna, o che riprodusse dal vero quando ritrasse la sventurata Beatrice Cenci. I suoi capelli vaporosi ricadevano in rigogliose onde sul collo e sulle spalle fino alla vita, e una piccola lamina d’argento era legata con un nastro bianco sulla fronte. Castruccio poté guardare solo un istante questa bella creatura, la quale, supplicando con gli occhi la sua amica più anziana, tirò di nuovo il cappuccio sul suo volto, parlando con un tono così basso da non poter distinguere le parole che pronunciava. La vecchia signora fece da interprete e disse: «Beatrice v’invita a non fissare il giorno fino a domani e spera così, con la grazia di Dio e della Vergine, di stabilirne uno che porterà ad un esito positivo la vostra impresa.»

   Castruccio subito si voltò intorno per vedere che effetto avevano prodotto quelle parole sul vescovo. Gli parve di vedere un sorriso di derisione sulle sue labbra. Il vescovo replicò: «Sia così. Castruccio, mio signore, accompagnerete mia sorella, Madonna Marchesana, al suo palazzo, lei vi rivelerà l’accesso segreto e vi farà conoscere i mezzi con cui potrete trovarlo quando tornate con il marchese Obizzo e le sue truppe.»

   L’assemblea si sciolse e Castruccio seguì Madonna Marchesana e la sua bella compagna. Il suo cavallo era legato al portone, montarono i loro bianchi palafreni e, accompagnati da molti scudieri e paggi che portavano delle torce, giunsero ad un magnifico palazzo nei pressi della porta orientale di Ferrara. Una volta entrati, Madonna Marchesana congedò i servi e condusse Castruccio in una stanza, tappezzata e arredata con i mobili massicci e ricchi dell’epoca. La donna sollevò i tendaggi e, mentre Castruccio li reggeva, spinse un pannello mobile, scoprendo una lunga, buia galleria. Prese poi una torcia che stava lì e, accendendo una lampada appesa al soffitto della stanza, la porse a Beatrice dicendo: «Facci luce, bambina mia, e mostra il percorso giusto.»

   Una manina bianca come la neve e un polso sottile spuntarono da sotto il mantello, e Beatrice prese la torcia in silenzio, mostrò la strada lungo la galleria, scendendo parecchie rampe di scale e percorrendo poi numerose volte e corridoi, finché arrivarono al termine presunto di questi passaggi sotterranei. «Voi, mio signore», disse Madonna Marchesana, «dovete aiutarmi.» Indicò una grande pietra, che Castruccio fece rotolare, e scoprì sotto di essa una porticina bassa. La donna tirò i catenacci e invitò Beatrice ad alzare la luce, cosa che fece, ponendola dentro una sorta di recesso nel passaggio che sembrava fatto apposta per contenerla. La donna poi aprì la porta e Castruccio, uscendo fuori, si ritrovò in aperta campagna, ricoperta da cespugli e circondata da paludi, a una certa distanza dalle robuste fortificazioni della città. Castruccio sorrise. «Ferrara è nostra!» esclamò, e l’anziana donna con un’espressione evidente di grandissima gioia aggiunse: «Vi prego, mio signore, di offrire il mio rispettoso ossequio e la mia fervida fedeltà al marchese Obizzo; riferitegli la felicità e il trionfo che provo nell’essere l’umile strumento della restaurazione della sua sovranità ed eredità. Quando farete menzione del nome della viscontessa di Malvezzi lui forse diffiderà delle mie affermazioni, dal momento che il visconte, il mio defunto marito, era suo profondo e deciso nemico. Ma egli non vive più e io sono stata introdotta alla vera conoscenza della volontà di Dio da questa divina fanciulla, questa Ancilla Dei, questo è il suo vero nome, che è venuta sulla terra per essere da insegnamento ed esempio dell’umanità sofferente.»

   Castruccio ascoltò stupito, mentre la donzella dotata stava in piedi, con il volto coperto dal cappuccio e le braccia incrociate sul seno: gli occhi della vecchia signora irradiavano gioia e fierezza. «Non ho eseguito del tutto il mio incarico», continuò, «finché non vi avrò insegnato come scoprire questo luogo. Vedete questi salici arruffati che circondano quello scolo stagnante e che, anche se sembrano senza un ordine, sono la pista da cui partire per arrivare là? A quattro miglia da Ferrara, sul lato destro della strada, troverete un gelso, un pioppo e un cipresso, cresciuti accanto: lasciate la strada in quel punto e seguite la linea dei salici, dovunque vi porti, finché sarete là dove la linea termina. Allora dovete fare attenzione ai canali della palude, ricordando di seguire solo quelli limitati dai mirti nani e che a ogni svolta hanno una croce incisa in una pietra bassa sulla riva. Quella linea vi condurrà qui e vi fermerete all’incrocio del bosco che vedete mezzo arso nell’erba alta e nei giunchi, finché questa porta si aprirà per farvi entrare.»

   La viscontessa di Malvezzi ripeté le sue istruzioni una seconda volta nello stesso modo chiaro e, vedendo che Castruccio aveva capito perfettamente, riportò tutti ai passaggi sotterranei e tornarono presto nella stanza tappezzata. Beatrice rimase un momento indietro per spegnere la torcia, quando riapparve s’era tolta il mantello e risplendeva nella luce della sua divina bellezza. Il vestito era di lana bianca purissima, foggiato secondo le usanze dell’epoca, come il drappeggio delle statue antiche: era stretto in vita da una cinta di seta e scendeva giù per tutta la figura con pieghe sottili e ricche; una croce dorata brillava sopra il suo seno, su cui si stendevano anche i riccioli lucenti dei suoi capelli; sulla lamina d’argento legata alla sua fronte Castruccio poté distinguere le parole, Ancilla Dei. Gli occhi neri s’illuminavano come ispirati e le ampie maniche della sua veste scoprivano il suo braccio bianco e venato, che lei alzò con gesti d’entusiasmo mentre parlava:

   «Madre, ho promesso che domani indicherò il giorno per l’impresa del mio sovrano. Sento lo spirito avvicinarsi rapido a me: che questo nobile gentiluomo informi il vostro riverito fratello che domani nella chiesa di Sant’Anna parlerò ai miei concittadini, e in mezzo alla gente di Ferrara dirò con parole velate il momento della loro liberazione.»

   Beatrice con passo leggero scivolò via dalla stanza e la viscontessa disse a Castruccio, non considerando il suo stupore: «Non mancate, mio signore, di comunicare il messaggio della mia Beatrice al vescovo. Dio è stato benevolo con noi nel concederci il suo aiuto visibile per mezzo di questa santa fanciulla che, con la sua bellezza sovrumana, l’eccellenza del suo animo e, soprattutto, la saggezza superiore a quella di una donna, e le sue profezie che si sono sempre realizzate, dimostra, perfino al miscredente e al Gentile, d’essere ispirata dalla grazia e dai favori della beata Vergine.»


[1] Mary Shelley si riferisce a Guido Reni (1575-1642) e al suo presunto ritratto di Beatrice Cenci.



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