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“Valperga”– Mary Shelley XVI

Creato il 05 gennaio 2012 da Marvigar4

la papessa

Mary Shelley (1797-1851)

VALPERGA

o

La vita e le avventure di Castruccio, Principe di Lucca

Traduzione integrale di Marco Vignolo Gargini dall’originale in inglese Valperga; or the Life and Adventures of Castruccio, Prince of Lucca

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Capitolo 16

Origini di Beatrice. Viene arrestata dall’Inquisizione.

   Congedatosi, Castruccio acceso dalla curiosità e dall’ammirazione tornò dal vescovo. Consegnò il messaggio affidatogli e poi chiese con ansia chi fosse realmente quest’incantevole creatura. Il vescovo sorrise.

   «Mio signore», rispose, «avete talmente conquistato la mia confidenza e la stima che vorrò soddisfare anche la vostra curiosità su quest’argomento. Ma dovete ricordare che né mia sorella, né la graziosa giovane sanno ciò che io sto per rivelare, e io ve lo dirò sotto il più solenne voto di segretezza.»

   Castruccio promise subito discrezione e silenzio, e il vescovo allora riferì i seguenti particolari.

   «Avete mai sentito di un’eretica e pericolosissima truffatrice, di nome Guglielmina di Boemia [1]? Questa donna apparve dapprima in Italia nell’anno 1289: prese la residenza a Milano con un’amica, Magfreda. Professando apparentemente la religione cattolica e ligia alle sue regole nei modi più rigidi, creò in segreto una setta, fondata sull’assurdo ed esecrabile credo secondo cui lei era lo Spirito Santo incarnato sulla terra per la salvezza del genere femminile. Proclamò d’essere la figlia di Costanza, regina di Boemia e, come l’angelo Gabriele era sceso per annunciare la divina concezione alla beata Vergine, così l’angelo Raffaele aveva annunciato a sua madre l’incarnazione dello Spirito Santo a favore del genere femminile e lei era nata dodici mesi dopo questa celeste annunciazione. I suoi principi dovevano sostituire del tutto quelli del nostro amato Signore Gesù e l’amica Magfreda doveva essere papessa e conseguire tutti i poteri e i privilegi del romano pontefice. Guglielmina morì nel 1302 in odore di santità e fu sepolta nella chiesa di San Pietro a Milano: aveva condotto una vita così consacrata e mantenuta la sua eresia così profondamente segreta, eccetto a quelli della sua setta, che fu seguita come una santa e perfino i sacerdoti e i dignitari scrivevano omelie in lode della sua misericordia, astinenza e modestia.

   Io ero a Milano due anni dopo, quando gli inquisitori domenicani per primi scoprirono questa pestilenza che covava, e il terrore e l’abominio della scoperta inorridirono la città. Magfreda e la sua principale seguace, Andrea Saramita, furono portate in prigione, gli altri discepoli che si rimisero alla clemenza dei sacerdoti, obbligati a fare parecchi pellegrinaggi e ad elargire ricche elemosine alla chiesa, furono assolti. Io ero appena diventato un Padre[2] e occupavo la sedia del confessore: ero giovane, pieno di zelo, eloquente per la causa della verità e contagiato da una bigotteria esaltata contro gli eretici e gli scismatici. Mi scagliavo con animosità contro questa nuova eresia, per me così empia, assurda, eccezionalmente malvagia, da essere preso da un impulso santo mentre predicavo contro i suoi seguaci. Essendomi così distinto, i padri inquisitori mi invitarono ad usare i miei argomenti appassionati per persuadere l’ostinata Magfreda a ritrattare. Avevano esaurito ogni argomento, erano ricorsi persino alla tortura per convertire questa donna dalle sue malvagie empietà, ma lei con insolenza altezzosa dichiarava d’essere pronta a perire nelle fiamme e che il suo ultimo respiro l’avrebbe devoluto in onore della sua divina maestra, e nell’esortazione ai suoi tormentatori di pentirsi e credere.

   Io ero pieno della vanità del mondo e m’immaginavo che le mie sentenze acquisite, i miei anatemi e gli eloquenti esorcismi non potessero mancare l’effetto desiderato, e che con l’aiuto di Dio e della verità sarei stato ricoperto di gloria per il successo in questa guerra santa. Così sicuro, entrai nella cella dell’eretica: era una cantina bassa, umida, dov’era stata segregata per molte settimane senza nemmeno avere della paglia per dormire. Lei era inginocchiata in un angolo, pregava con fervore e per un momento mi fermai a contemplare un’eretica, un mostro che non avevo mai visto prima. Era una donna anziana, rispettabile, vestita da suora e con un’aria di santità e modestia che mi sbigottì. Quando si accorse di me, si alzò e disse con un vago sorriso: “La mia condanna è passata? O si prepara una nuova tortura?”

   “Figliuola”, risposi, “Vengo proprio a torturare, non il tuo corpo, ma la tua mente; a torturarla con la conoscenza di sé, a reggerle uno specchio davanti, dove contemplerai le sue pecche e le deformità, delle quali con la grazia della Vergine ti pentirai e sarai purificata.”

   “Padre, voi siete il padrone e io la schiava, e voglio ascoltarvi. Ma il vostro volto benevolo, così diverso da quelli cui sono stata a lungo abituata, mi riempie di una tale confidenza che oso sperare nella vostra indulgenza, supplicandola a risparmiarsi una fatica inutile e a lasciare in pace le ultime ore della mia vita. Sapete che devo morire, e Dio e Guglielmina sanno come muoio volentieri per Lei, persino nel dolore e nel rogo: ma il mio spirito è logoro e la mia pazienza, che ho avuto cara con impavida passione, come la sacra fiamma della mia religione e la vita del mio cuore, adesso comincia a diminuire. Non stimolate nella mia anima i peccati della collera e dell’intolleranza… lasciatemi alla preghiera, al pentimento e alle speranze di rivedere la mia amata maestra, laddove il dolore non esiste.”

   Parlava con dignità e dolcezza tanto che sentii il mio spirito placarsi e, anche se per poco stizzito dall’ostinazione della sua empietà, seguii il suo esempio parlando con gentilezza. Il nostro colloquio fu lungo, e più proseguiva più aumentavano la mia animazione per la causa della verità e lo zelo per il dialogo con l’eretica. I suoi modi furono così teneri e convincenti, le sue parole così tenui seppure decise, che non poterla salvare dalla dannazione eterna era come un peccato del mio cuore.

   “Non l’avete conosciuta”, esclamò, “non avete mai visto la mia Guglielmina. Domandate a quelli che l’hanno vista, anche al popolo dagli occhi duri e dai cuori di pietra, se non erano mossi all’amore e alla carità quando lei passava come un angelo tra loro. Era più bella di quello che un essere umano potesse mai essere, più gentile, modesta e pia di qualsiasi donna, anche se santa. Per di più le sue parole avevano una capacità di persuasione irresistibile e i suoi occhi un fuoco che rivelavano anche all’ignaro che lo Spirito Santo era in lei.

   Padre, non sapete ciò che chiedete se volete ch’io lasci la mia fede nella sua Divinità. Ho sentito la mia anima prostrarsi davanti a lei, il sangue che dà tutta la vita al mio cuore ha gridato a me tanto che, se fossi stata sorda, avrei per forza dovuto sentire che lei era sovrumana. Nei miei sogni l’ho vista vestita di luce divina e anche ora il raggio sacro che annuncia la sua presenza riempie la mia cella e mi ordina per il suo bene di sottomettermi pazientemente a tutto ciò che voi, suoi nemici, potete infliggermi.”

   Io vi ripeto le parole folli di Magfreda e voi potete giudicare la pazzia sfrenata che s’impossessava di questa donna disgraziata. Ho lottato con il suo spirito dannato per otto ore, ma invano. Alla fine mi ritirai sfiduciato, quando lei mi richiamò. Tornai con aria piena di speranza e la vidi piangere violentemente e amaramente. Appena mi avvicinai lei prese la mia mano e la baciò, serrandola al suo cuore, e continuò a versare un mare di lacrime. Credevo che fosse mossa da un vero pentimento e cominciai a ringraziare la divina pietà, se non che lei agitò la sua mano con impazienza, facendomi cenno di tacere. Poco alla volta smise di piangere, ma era ancora scossa dalla passione, quando disse: “Inginocchiatevi, padre, inginocchiatevi, vi supplico, e per la croce che avete indosso giuratemi riserbo. Ahimè! Se io muoio qualcuno deve perire con me, una persona che ho promesso di proteggere e che amo più… più della mia stessa vita.”

   Si fermò, cercando di dominare le lacrime che, malgrado se stessa, versava. Io la confortai e pronunciai il giuramento da lei richiesto, facendola così calmare. “Padre, voi siete buono, benigno e caritatevole, e io credo che Lei ha manifestato il Suo volere inviando voi a me nella mia pena; voi che siete così diverso dai lupi e le arpie che mi hanno tormentato ultimamente. C’è una figlia… la sua figlia… però, padre, prima che riveli altro, promettetemi, giuratemi che sarà allevata nella mia fede e non nella vostra.”

   Io m’indignai per questa proposta e dissi alterato: “Donna, pensi che io sacrificherò l’anima di una bambina alla tua mostruosa miscredenza e viziosa ostinazione? Sono un servo di Gesù Signore e, credimi, non screditerò mai la mia santa vocazione.”

   “Così dev’essere?” gridò. “Almeno concedetemi pochi istanti per decidere.”

   S’inginocchiò e pregò a lungo con fervore, poi si alzò con aria sorridente dicendo: “Padre, voi volete convertirmi; mi sembra in questo momento che io possa convertire voi, se la fede davvero non ci viene da Dio e dall’umana volontà. Lei ha rivelato il suo volere a me, e per Suo ordine adesso vi confido il tesoro della mia anima.

   Due anni prima di morire Guglielmina ebbe una figlia. Non so dirvi chi fu il padre, perché, per quanto credessi che il suo concepimento fosse di natura divina, lei non confermò né smentì la mia convinzione, ma con il suo sorriso celestiale mi ordinò di attendere il momento giusto per sapere. Soltanto io ero al corrente della nascita di questa bambina, che fu sempre sotto le mie cure: fu allevata a cinque miglia da qui in una casupola da una donna buona, che non sapeva di chi fosse la piccola, ed io ogni giorno la visitavo, ammirando la sua bellezza e intelligenza.

   Dopo la sua nascita Guglielmina non vide mai la figlia. Si rifiutò sempre di visitare la casupola o di farla portare da lei, però sarebbe stata seduta per ore ad ascoltare le mie descrizioni e le mie lodi. Ho sempre creduto che questa separazione, qualunque fosse la causa, avrebbe accorciato la vita della mia divina maestra, perché lei si struggeva, piangeva, e s’appassiva come un fiore non bagnato dalla rugiada. Le ultime parole che pronunciò furono per raccomandare sua figlia alle mie cure. Io ho compiuto il mio compito e ora, per suo ordine, lascio a voi la mia responsabilità.

   Un anno fa la balia morì e io segretamente accolsi la bambina in casa mia, la curai, la protessi come sua madre mi aveva ordinato. Nessun amore può eguagliare il mio per la divinità, sua madre: è un affetto acceso, un’adorazione inesprimibile a parole… Io non la vedrò mai più, finché non c’incontreremo in paradiso, ma mi sottometto con serenità alla volontà divina.

   Quando ho saputo che Andrea Saramita e altri nostri discepoli erano stati catturati, fui presa dal terrore per il destino di questa bambina. M’aspettavo ogni istante di sentire il rumore delle guardie per le scale, d’essere catturata e veder scoprire questo fiore del paradiso, che ho così a cuore segretamente. Quando all’improvviso fui colta da un pensiero, un’ispirazione e gridai forte: ‘Meglio le bestie feroci della foresta e le tempeste del cielo, anche quando ci sconvolgono di più; meglio la peste e la fame di un uomo che caccia la preda!’. Allora presi la bambina nelle mie braccia, una piccola borsa con dell’oro, un sacco con le provviste che avevo a casa e, essendo già buio, corsi da Milano verso la foresta attorno alla strada per Como: camminai veloce e in due ore raggiunsi la mia destinazione. Sapevo che un lebbroso [3] viveva nella foresta, un povero sventurato che con il suo cucchiaio di legno e una scodella chiedeva l’elemosina ai bordi della strada. Io mi recai là senza timore… Non mi sbagliai. Quest’uomo non era mio discepolo, non mi aveva mai visto prima, non sapevo se le guardie erano informate dell’esistenza della bimba divina, ma ero certa che non avrebbero osato cercarla nella tana di un lebbroso. Non avevo paura del contagio: non è sua madre superiore a tutti i santi in paradiso?

   Vagai a lungo tra i sentieri contorti del bosco, finché riuscii a scoprire il capanno del lebbroso. La bimba dormiva, vicina al mio cuore che sanguinava con angoscia. Per me al mondo esisteva solo questa piccola creatura, la terra mi sembrava mancare sotto i piedi, eppure sentivo ancora il suo respiro caldo sul mio petto e l’ansare regolare del suo seno gentile. Alla fine trovai la stamberga del lebbroso: era per metà costruita con il terreno della collina contro cui poggiava, e l’altra metà era di rami impastati col fango, seccati dal sole. Nera, pericolante e sporca, era peggio di una mangiatoia per accogliere questa povera innocente.

   Quando entrai il disgraziato proprietario di questo porcile dormiva nel suo miserabile giaciglio. Lo alzai, gli misi dell’oro nella mano e del cibo davanti. Dissi: ‘Proteggi questa bimba, e Dio ti risarcirà. Nutrila, lavala e soprattutto tienila lontano dagli uomini: non la dare a nessuno se non a chi viene a reclamarla in nome della Santa Guglielmina. Spero di tornare tra un mese e ti ricompenserò per aver ubbidito al mio compito.’ Allora, con il cuore afflitto, abbracciai la figlia della mia Guglielmina per l’ultima volta: la benedissi e mi staccai da lei.

   Adesso sono in carcere da cinque mesi e tremo all’idea che il lebbroso l’abbia cacciata dal suo rifugio. Voi, padre, proteggerete e amerete questa bambina?”

   Il discorso di Magfreda stranamente mi commosse. Provai uno stupore, una pietà, una pena enorme che non sapevo esprimere, ma, baciando la croce che avevo indosso, dissi: “Ascoltami, infelice donna, io giuro di non abbandonare mai questa innocente e di preservare la mia fede con l’aiuto di Dio!”

   Magfreda mi ringraziò calorosamente, poi, a malincuore, la raccomandai alla pietà divina e lasciai la sua cella.

   Appena fui in grado di svincolarmi dalle domande e dalla curiosità puerili degli inquisitori, mi recai subito nel luogo che Magfreda aveva indicato. Con l’animo affannato, pensavo solo al pericolo della bimba nelle mani di questo reietto dagli uomini e dalla natura. Dentro di me c’era un sentimento intenso di pietà, che ora non so spiegare, del quale non mi rimproveravo. Alla fine, a circa cinque miglia dalla città, sentii il suono del mendicante che batteva il suo piatto con il cucchiaio per la questua, e mi voltai lasciando la strada per cercarlo. In quel momento lo spirito di Dio quasi mi lasciò e fui sopraffatto dalla paura… paura della malattia, e un orrore senza nome in attesa d’incontrare chi era stato privato del tutto della salute: ma mi feci il segno della croce e mi avvicinai. Il poveretto mangiava delle croste di pane seduto sotto un albero; miserabile, sporco, deforme, i capelli arruffati sugli occhi e la barba incolta che nascondeva la parte più bassa del volto. Aveva uno sguardo selvaggio e un aspetto di brutale ferocia da farmi quasi barcollare. Gli feci segno di non avvicinarsi, e lui s’inginocchiò, iniziò a farfugliare il pater noster, tanto che la stessa parola di Dio pareva la lingua del diavolo. Mi fermai a un po’ di distanza da lui: “Portami”, esclamai, “dalla bambina che ti è stata affidata nel nome di Guglielmina di Boemia.”

   Lo sventurato, che aveva quasi dimenticato il linguaggio degli uomini, balzò su e mostrò la via nel bosco fitto, lungo aspri sentieri pieni d’erbacce e disseminati con pietre, finché giungemmo alla sua misera capanna… una topaia bassa, buia, spoglia, in cui non osai entrare. “Portami la bimba”, gridai.

   Oh, che triste visione fu, me la ricorderò finché vivrò, vedere questa bambina, questa stella mattutina di bellezza e splendore eccelso, con gli occhi accesi di gioia, le labbra rosa che si schiudevano nel più dolce dei sorrisi, i capelli lucidi intorno al suo bel collo, tutta la sua figura che brillava dei colori della vita, risparmiata dalla lebbra in questa capanna. Il corpo del mendicante invece era avvolto in una coperta cenciosa, i capelli grigi lunghi e ispidi, la sua persona e il volto ripugnanti al di là d’ogni descrizione. Questo bell’angelo staccò la mano dalla sua e venendo da me disse: “Portami da mamma; portami dalla mamma lontano da questo posto brutto.”

   Questa era Beatrice, e c’è bisogno di dire quanto abbia amato questa sfortunata ragazza, l’abbia avuta a cuore e cercato di salvarla dalla fine in cui il suo destino l’aveva precipitata?

   Tornai a Milano e scoprii che la mattina, mentre ero assente, Magfreda era stata messa al rogo e le sue ceneri sparse al vento, cosicché io diventai il solo custode di questa povera bambina. La affidai alle cure di un pensionato della chiesa nei pressi di Milano, e quando fui promosso alla sede di Ferrara la portai con me, incaricai mia sorella di accoglierla e occuparsene. La piccola conquistava tutti i cuori e Marchesana si attaccò subito a lei con un amore materno. Fu educata nella santa fede cattolica e ho sperato che, non corrotta dagli errori della madre, conducesse una vita irreprensibile e tranquilla, pura e anonima. Dio per il resto lo ha ordinato.

   Beatrice fu sempre una bambina straordinaria. A sei anni se ne stava seduta da sola per ore a contemplare in silenzio, e quando le chiedevo a cosa stesse pensando piangeva, e desiderava fortemente che non glielo chiedessi. Divenuta più grande, la sua immaginazione si sviluppò. Cantava improvvisando inni con una melodia strana, dolce e sembrava concentrarsi con tutta la sua anima sui misteri della nostra religione. In seguito iniziò ad aprirsi e mi diceva di come meditava per ore sulle opere della natura e sulla bontà di Dio, finché un sentimento opprimente non la invadeva, tanto da poter soltanto piangere e singhiozzare. Mi scongiurò di rivelarle tutto quello che conoscevo, ed insegnarle a leggere il libro sacro della nostra religione.

   Temevo che la sua ignoranza e l’entusiasmo potessero portarla su una cattiva strada, dato che, nei racconti delle sue meditazioni, spesso diceva cose su Dio e gli angeli che erano eretiche. Mi augurai che la conoscenza della verità calmasse la sua mente e la riportasse ad una devozione più sana. Ma i miei sforzi ebbero un effetto contrario: più ascoltava, più leggeva, e più si abbandonava alla contemplazione, alla solitudine e a ciò che io non posso fare a meno di considerare sogni impulsivi della sua immaginazione. Mi sembrò come se l’anima di sua madre fosse discesa in lei, ma che, regolata dalla vera fede, fosse sfuggita alle eresie esecrabili di quella donna disgraziata. Amava leggere e pretendeva di spiegare le profezie delle sacre scritture, anche quelle moderne di Merlino, dell’abate Gioacchino e di Metodio: accanto a questi studi coltivava molto tutte le superstizioni volgari, alberi e sorgenti sacre, giorni fasti e nefasti, e tutte le stupide credenze che giocolieri e impostori incoraggiano a loro vantaggio. Infine ha iniziato a profetizzare: alcune delle sue profezie furono interpretate come vere, e da allora la sua fama s’è diffusa in Ferrara. I suoi seguaci sono numerosi, e la mia povera sorella è la sua prima allieva: Beatrice stessa è assorbita nella fede della propria natura esaltata e veramente si crede l’Ancilla Dei, il contenitore scelto in cui Dio ha versato una parte del suo spirito: lei prega, profetizza, canta inni improvvisati, ed è entrata completamente nella parte della Donna Estatica[4], passa molte ore del giorno in solitario raccoglimento, o piuttosto in sogni a cui la sua fervida immaginazione dà vita confermando i suoi errori.

   Così, mio signore, ho rivelato l’origine, ignorata da tutti, di questa straordinaria ragazza. Non so dire perché io abbia fatto questo, dato che l’ho fatto senza premeditazione o profezia. Ma sono contento che voi conosciate la verità, poiché sembrate umano, generoso, e mi auguro di assicurare un altro protettore alla mia povera Beatrice, se dovessi morire e lei cadesse in disgrazia.»

   Castruccio e il buon vescovo trascorsero quasi tutta la notte a parlare della meravigliosa creatura, e quando si ritirarono per riposare, lui non poté dormire, avendo davanti agli occhi la bellezza di Beatrice, e ricordando la sua strana nascita e sorte. La mattina andò alla chiesa di Sant’Anna: si diceva messa e lui cercava invano la profetessa… ma, finita la messa e riunitasi la gente nel porticato della chiesa, lei apparve in mezzo alla gente con la sua anziana protettrice al fianco. Indossava un mantello di scintillante seta blu, ma con il cappuccino tirato indietro, e gli occhi, scuri come il buio dopo un fulmine di mezzanotte, intensi e dolci come quelli della timida antilope, emettevano bagliori profetici.

   La ragazza parlò, le parole fluivano con un’eloquenza ricca e convincente, i suoi gesti energici ma graziosi davano forza alla sua espressività. Rimproverava alla gente la debolezza della loro fede, l’egoismo insensibile ed una mancanza di entusiasmo nella giusta causa, la bollava come schiava di stranieri e tiranni. Il suo discorso fu lungo e ininterrotto, con la stessa fluidità e slancio costante: la sua voce musicale riempiva l’aria, e il profondo silenzio e l’attenzione del numeroso pubblico si univano alla solennità della scena. Tutti gli occhi erano su di lei, ogni sguardo seguiva i mutamenti delle sue espressioni. Piangevano, sorridevano e alla fine furono trasportati dalle sue promesse del bene che stava per venire e della futura gioia dovuta alla costanza del cuore… quando, al culmine della foga, alcuni inquisitori domenicani si fecero avanti, la circondarono e la dichiararono loro prigioniera. Fino a quel momento Castruccio aveva osservato soltanto lei… i suoi occhi fiammanti e l’animazione, i sorrisi e poi le lacrime che, come il sole e le nubi di un giorno d’aprile, si alternavano nel cielo del suo volto. Ma quando gli inquisitori la circondarono la sua voce tacque e la muta sottomissione del popolo svanì. Fu tutto un clamore e un tumulto: urla, mormorii, imprecazioni e bestemmie da ogni bocca… gridavano che la profetessa, l’Ancilla Dei non poteva essere strappata a loro, non era un’eretica, e di quale crimine si sarebbe macchiata? Gli inquisitori avevano con sé dei soldati guasconi e questo eccitò la gente ancora di più: era chiaro che la sua adesione al partito del marchese Obizzo e la profezia della sua restaurazione erano i suoi soli crimini. Le voci sul suo arresto si sparsero per la città e tutta Ferrara accorse alla chiesa di Sant’Anna. La folla, presa dall’ira, sembrava pronta a liberare la prigioniera che, zitta e rassegnata, era come indifferente alla scena animata. La gente si armò di pietre, bastoni, coltelli e accette; gli inquisitori mandarono a chiamare dei rinforzi di truppe guascone, e tutto sembrava prevedere violenza, spargimento di sangue, quando uno dei preti tentò di prendere la mano di Beatrice per portarla via, e lei lo guardò in modo glaciale, si tirò indietro, fece cenno di voler parlare, e la folla si ammutolì come uno sciame d’api, che ronza in volo e all’improvviso si zittisce circondando la sua regina che guida i loro atti.

   La ragazza disse: «Mi appello al vescovo.»

   «Sì, dal vescovo, il buon vescovo; lui è giusto, portatela da lui, lui deciderà che fare!»

   Gli inquisitori stavano per opporsi a quest’appello: ma la volontà del popolo diventò un torrente inarrestabile che li trascinò. Portarono la profetessa al palazzo vescovile, circondata dai soldati guasconi, e seguita da una moltitudine immensa che squarciava il cielo con urla di rabbia e disperazione.

   Il vescovo accolse l’appello con gran dolore. Beatrice stava davanti a lui, le braccia conserte al seno, gli occhi giù, ma sul suo volto, il ritratto della modestia più gentile, non c’era traccia di timore; sembrò sicura, ma come se facesse riferimento non alle sue forze ma a quelle degli altri. Gli inquisitori l’accusarono d’essere una ciarlatana, un’ingannatrice del popolo, un’esaltata pericolosa e malvagia, che la penitenza e la solitudine di un convento doveva curare i suoi sogni stravaganti. Parlarono a lungo e a voce alta, non interrotti dal giudice o dalla prigioniera, sebbene Madonna Marchesana ch’era vicina non sempre fu in grado di trattenere la sua indignazione.

   Alla fine ci fu silenzio e Beatrice parlò: «mi chiamate ciarlatana… provatelo! Non mi sottraggo al processo, non temo pericoli o torture… Mi appello al Giudizio di Dio, su cui si poggia la verità o la falsità della mia missione.»

   Si guardò intorno con occhi luccicanti e guance infuocate: era tutta splendore e dolcezza, ma in lei c’era uno spirito che la innalzava, pur mischiato alla delicatezza femminile della sua mente e dei suoi modi, che ispirava tutti quelli che la vedevano con rispetto e tenerezza. Però una piccola parte della folla si era piazzata nella sala del palazzo vescovile e non riusciva più a contenersi. Il Giudizio di Dio si addiceva alla loro volgare immaginazione, come uno strano e tremendo mistero che eccitava la soggezione, la pietà e l’ammirazione. La folla gridò: «Solo Dio può giudicare! Fate il processo!», e le urla soffocavano ogni suono. Gli inquisitori si unirono al clamore, impossibile capire se per acconsentire o dissentire; poi tutto s’acquietò e il vescovo intervenne con la sua voce dolce, ma invano… gli inquisitori ripeterono le parole “truffatrice! eretica! malvagia!” e Beatrice respinse sdegnosamente le accuse. Alla fine si giunse ad un accordo: lei sarebbe stata rinchiusa per quella notte nel convento di Sant’Anna e la mattina dopo, sotto l’egida dei monaci del monastero adiacente, sarebbe stata sottoposta al Giudizio di Dio, che l’avrebbe dichiarata colpevole o innocente.

   Sia gli inquisitori che Beatrice si allontanarono sicuri e trionfanti, seguiti dalla massa, che era indifferente all’afflizione fin troppo evidente sui volti degli amici della profetessa. Madonna Marchesana era agitatissima, indecisa tra la fede nei poteri sovrannaturali di Beatrice e la paura immensa che il processo l’avrebbe rovinata: pianse, rise, in uno stato vicino alla follia, finché suo fratello, pregandola di confidare in Dio, la esortò ad avere pazienza e una certa fiducia. Lei allora si ritirò in preghiera, lasciando il vescovo e Castruccio travolti dalla pietà, dall’orrore e dall’indignazione.

   Fu lì che il vescovo per la prima volta dette sfogo al suo dolore: «Vittima sventurata! testarda, stupida ragazza! Cosa sono adesso le tue profezie, le tue ispirazioni e l’aiuto divino? ahimè! ahimè! La mano di Dio è su di te, che sei nata un brutto giorno da una madre colpevole ed empia! L’ira di Dio ti avvolge come una nube e tu ti consumi in essa… il mio amore è aspra cenere… le mie speranze sono spente… oh, che possa morire prima di questo giorno!»

   Castruccio all’inizio era troppo stordito per consolarlo, ma quando parlò e invitò il suo amico a non disperare, il vescovo rispose: «Mio signore, lei ha preso la mia anima e il mio affetto. Perché questo? non so… non è bella? Ed è buona quanto bella. Mi chiama padre e mi ama con la tenerezza di una bambina. Notte e giorno ho pregato Dio perché non guardasse i peccati di sua madre… per lei ho digiunato e pregato… ma tutto è vano e lei dovrà morire.»

   «No, padre, non dite che una creatura così bella dovrà morire nelle fauci di questi segugi crudeli. Non disperate, vi scongiuro: la fuga! La fuga è la sua sola salvezza. Padre, ne avete l’autorità e dovete salvarla. Mi occuperò di lei quando avrà lasciato le mura del convento, e farò in modo che abbia una tutela sicura e onorevole. Fatela fuggire… per il sole nel cielo, lei evaderà!»

   Il vescovo rimase in silenzio per un po’, nelle sue vene non scorreva lo stesso sangue ardente che ribolliva in quelle di Castruccio: vedeva tutte le difficoltà, temeva l’insuccesso del loro progetto, ma decise di tentare. «Avete ragione», disse, «La fuga è la sua unica salvezza, anche se sarà più un rapimento che una fuga, dato che lei non sarà favorevole a rinunciare al personaggio che ha scelto di interpretare. Non avete notato l’aria di trionfo che aveva quando è stato deciso il Giudizio di Dio? Folle, stupida ragazza! Lasciatemi esaminare il piano e valutare i nostri poteri. La badessa è guelfa, ma l’abate del monastero adiacente è un ghibellino, inoltre gli editti ecclesiastici si sono pronunciati contro queste pretese di giustizia divina. Farò di tutto perché lei possa essere salvata.»

   La notte calò e questi due amici agitati, soli e coperti per non farsi riconoscere, accorsero al monastero. Castruccio restò nel parlatorio e il prelato entrò dentro il convento. Ci rimase per due ore, mentre Castruccio, pieno d’ansia, si trattenne da solo nel parlatorio che guardava su un cortile interno, senza un oggetto che distogliesse la sua attenzione, in silenziosa e inquieta attesa. Pensava alla bellezza della profetessa, alla sua vivacità e alla sua leggiadria infinita, tanto da credere quasi nella divinità della sua missione: ma rabbrividì dall’orrore pensando al pericolo, che i suoi piedi d’avorio pestassero il ferro rovente, che sarebbe stata gettata nel metallo bollente e morta tristemente, mentre i preti, i maledetti, sedicenti distributori della giustizia divina, avrebbero cantato inni trionfali per la sua prematura e miserabile fine… sentì le lacrime riempirgli gli occhi, si sarebbe sacrificato per la sua salvezza. Alla fine il vescovo riapparve, e in silenzio tornarono al palazzo.

   «Allora, dov’è lei?» furono le prime parole di Castruccio.

   «Spero sia in salvo. Mi auguro di non ingannarmi. Ho tentato di convincere l’abate a lasciarla scappare. Sarei andato dalla badessa, da cui dovevo ottenere il consenso, avrei usato tutta la mia influenza che la mia posizione mi dava, ma l’abate mi ha fermato… Mi ha assicurato che si sarebbe interessato perché la vittima devota non corresse alcun pericolo. Mi ha pregato di non chiedere spiegazioni… Lui e i suoi monaci avevano il compito di preparare il Giudizio e quanto era in loro potere. Mi ha garantito più volte che la ragazza non avrebbe ricevuto alcun torto.

   Questo non mi piace: lei deve essere protetta dalla falsità e dallo spergiuro, dalla menzogna e dallo scherno blasfemo del nome di Dio. L’abate, che ha servito i papi ad Avignone, ride dei miei scrupoli e io sono costretto a cedere. Sarà salva e Dio, spero, perdonerà la nostra umana debolezza. Che il peccato riposi nelle anime di questi segugi, che vorrebbero la distruzione della creatura più amabile che respira sulla terra.»



[1] N.d.a. Vedi Muratori, Antichità italiane, No 60.

[2] In italiano nel testo.

[3] N.d.a. Il morbo era comune in Italia. La persona affetta di solito si allontanava e abitava in una grotta della foresta, da cui usciva per andare in strada e, battendo su di un piatto con un cucchiaio di legno, chiedere ai passanti elemosine che andavano a ritirare deposte su di una pietra dai passanti quando erano a debita distanza.

[4] In italiano nel testo. Nd.a. Queste donne ispirate apparvero dapprima in Italia dopo il XII secolo e hanno continuato ad apparire fino ai giorni nostri. Dopo aver descritto le loro pretese, Muratori osserva con gravità: “Possiamo credere devotamente che alcune fossero dotate di doni sovrannaturali, ma giustamente possiamo sospettare che la fonte di molte rivelazioni fosse la loro immaginazione accesa, piena d’idee religiose e di pietà”.



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