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“Valperga”– Mary Shelley XXI

Creato il 02 febbraio 2012 da Marvigar4

arch lucca

Mary Shelley (1797-1851)

VALPERGA

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La vita e le avventure di Castruccio, Principe di Lucca

Traduzione integrale di Marco Vignolo Gargini dall’originale in inglese Valperga; or the Life and Adventures of Castruccio, Prince of Lucca

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Capitolo 21

Castruccio esilia trecento famiglie da Lucca. Visite a Valperga. Il suo carattere negli sviluppi futuri.

Durante l’assenza da Valperga Castruccio aveva sistemato nella sua mente i vari progetti politici. Non aveva cambiato tanto l’obbiettivo che desiderava conseguire, o i mezzi con cui aveva stabilito di realizzarlo. Pensò con calma agli ostacoli possibili e decise di rimuoverli. Il suo scopo era la conquista della Toscana, il modo consisteva nell’assoggettamento della sua città natale e, con il temperamento autentico di un conquistatore e un usurpatore, cominciò a contare le teste che andavano eliminate e le braccia da usare nel perseguimento dei suoi disegni. Non era tornato a Firenze prima di ricevere dai messaggeri la notizia di un complotto, che si sarebbe attuato presto a Lucca per privarlo del suo governo. Questa notizia, unita alla partenza d’Eutanasia, lo spinse all’istante a tornare nel territorio lucchese.

Lui non era più lo stesso rispetto all’ultimo soggiorno lucchese. Tornò pensieroso, accigliato, con occhio crudele e un cuore che non avrebbe mutato il suo intento per debolezza o umanità. Il cambiamento poteva sembrare immediato, eppure era stato lento… era l’ultima goccia che fa traboccare il vaso… e con lui l’ambizione, la sventatezza e l’orgoglio, che a lungo nutrì, ora avevano in sé una forma, “una casa e un nome”[1], rivelatasi per la prima volta nei suoi veri colori agli occhi dell’uomo. L’ambizione e l’auspicio stabilito per governarla soffocavano nella sua mente la voce delle sue ragioni migliori e la strada verso la tirannia era spianata dalla sua ferma risoluzione d’ottenere il potere, che in una forma o in un’altra era stato l’obbiettivo ricercato della sua vita.

La mattina dopo il ritorno a Lucca passò in rivista le sue truppe: erano a lui devote e grazie a loro intendeva rinsaldare il suo potere. Riunì il senato e circondò il palazzo del governo con i suoi soldati; prese il suo posto di capo con l’atteggiamento di chi conosce e può punire i suoi nemici. Si rivolse all’assemblea con poche parole, dicendo che era grazie al loro potere che aveva ottenuto il governo e che adesso era necessario che lo sostenessero nel suo esercizio. «Io so», esclamò, «d’avere molti nemici qui… ma si faccia avanti uno di questi e affermi il male che ho procurato alla repubblica… Io che ho combattuto le sue battaglie, assicurato la sua prosperità e innalzato al ruolo di rivale quando prima era schiava della fiera Firenze. Com’è che nessuno di voi si fa avanti a denunciarmi, ora che sono qui, pronto, faccia a faccia, a rispondere alle vostre accuse? Randolfo Obizzi, io t’invito qui, tu che volevi togliermi il potere che questo senato m’ha conferito. E tu, Aldino, che hai tramato persino la mia morte… siete buoni a bisbigliare come traditori e non a parlare come uomini? Via! L’ora della pietà è breve: tre ore a partire da adesso le porte di Lucca saranno chiuse e chiunque tra voi e i vostri soci si troverà dentro le mura pagherà con la vita la sua audacia.»

Il senato a quel punto sarebbe stato sciolto, ma quando Castruccio vide che i suoi nemici erano tutti partiti, chiese al resto dei senatori di restare e di aiutarlo in quest’occasione importante. Il decreto per bandire i cospiratori fu poi formalmente approvato e un altro per la demolizione di trecento torri d’altrettanti palazzi, che erano come dei robusti presidi e fortezze dentro la città. Il senato fu quindi congedato: le truppe sfilarono per le strade e prima del tramonto trecento famiglie, spogliate delle loro proprietà e cacciate dalla città nativa, attraversarono le porte in triste processione. I soldati furono impiegati a demolire le torri, le rovine furono portate al quartiere orientale della città, per essere usate nella costruzione di una nuova cinta muraria. Castruccio, adesso padrone di Lucca e trionfante sui suoi nemici, sentì d’aver fatto il primo passo verso la realizzazione dei suoi piani.

Eutanasia era rimasta nel suo castello in angosciante attesa di una visita o di un messaggio da Castruccio… lui non venne, ma nel tardo pomeriggio Teresa Obizzi, una delle sue più care amiche, le fu annunciata.

«Perché tanta tristezza, cara Teresa?» chiese l’amica. «Cos’è successo? Anche tu sei infelice?»

«So appena cos’è successo o dove sono», rispose Teresa. «È come se il cielo fosse caduto su di noi: tutta la famiglia Obizzi è bandita da Lucca e non solo quella, anche i Bernardi, i Filippini, gli Alviani e molte altre sono esiliate e le loro proprietà confiscate.»

«Perché? Com’è questo? Quali nuovi cambiamenti sono avvenuti a Lucca?»

«Niente di nuovo, cara contessa. In verità credo ci fosse un complotto contro Antelminelli e qualcuno degli Obizzi era coinvolto. Ma Castruccio non ha indagato niente e, includendoci tutti in una sentenza generale, ci ha avvolto come un turbine e trascinati Dio solo sa dove. E il mio povero padre! Mi sono gettata ai piedi del console, sì, io, la moglie del fiero Galeotto Obizzi, e ho supplicato che al mio povero padre fosse concesso di restare.»

«E ha rifiutato?»

«Lui ha detto, “Avete sentito la sentenza. Lui sa meglio di me se è implicato. Io ho giurato su Dio e San Martino che questo covo di guelfi e Neri sarà sradicato da Lucca, e che il volere del senato sarà osservato. Pensate a lui, perché tra tre ore la vita di un seguace degli Obizzi non sarà più cara della terra che io calpesto.” »

«Castruccio ha detto questo? Ti ha risposto così, Teresa?»

«Sì, cara Eutanasia. Ma io debbo andare, sono venuta per dirti addio… un lungo addio. Mio padre e mio marito mi aspettano. Prega perché Dio abbia pietà di noi… Addio!»

«No, Teresa. Questo castello non è suo e può essere un asilo per le sue vittime. Vieni, riposa qui almeno un po’. Porta tuo padre, i tuoi bambini. Vieni e insegnami cos’è questo dolore, e tu imparerai da me ad affrontarlo con forza.»

Man mano che si faceva sera, altri amici arrivarono e confermarono tutto ciò che Eutanasia aveva sentito prima. Era confusa e incapace di credere ch’era proprio Castruccio ad aver causato quei mali. Da dove era venuto quell’improvviso mutamento nel suo carattere? Ed era improvviso? O era davvero un cambiamento? Ricordò le parole e gli sguardi, già dimenticati, che le dicevano che quanto avvenuto adesso era figlio di un pensiero profondo e di uno schema preparato. Eppure, ancora incapace di credere a tutto il male che aveva sentito, mandò qualcuno a Lucca per invitare Arrigo Guinigi a raggiungerla. Arrigo era con Castruccio quando arrivò il messaggio.

«Va, mio caro ragazzo», disse Castruccio, «Il suo cuore di donna forse sobbalza per gli eventi d’oggi. Mostrale la necessità di tali provvedimenti e fai del tuo meglio perché pensi il male minore di me. Nonostante la sua freddezza e le strane idee sul dovere, io la amo e non debbo averla come nemica. Se si accontentasse di ogni cosa eccetto che della pace con Firenze per il suo beneficio nuziale[2], tutto il mio potere e le proprietà sarebbero ai suoi piedi .»

Arrigo andò a Valperga: Eutanasia lo vide solo. Pallida e quasi col fiato mozzo, gli chiese cosa aveva causato questo cambiamento e se sapeva quali erano i propositi di Castruccio.

«Veramente, Madonna», rispose Arrigo, «Io non lo so. Credo che lui punti solo alla sicurezza del proprio stato e molti di quelli che lui ha esiliato hanno complottato contro il suo governo.»

«È possibile. I tiranni hanno sempre dei nemici, si trattasse anche di radere al suolo la città come bandire tutti i suoi abitanti. Non possono esserci meno di mille anime incluse nel suo editto, donne e bambini, strappati a tutti i loro conforti, tutte le necessità della vita quotidiana, gettati sul lastrico a piangere e maledirlo. Che cosa sa?»

«Sospetta tutti quelli che ha bandito e ha delle forti ragioni nascoste per la sua condotta. Di questo, Eutanasia, potete stare sicura. Quando gli ho chiesto perché ha cacciato tanti suoi concittadini mi ha risposto ridendo, “Perché questa città non è abbastanza grande per loro e per me”. E poi mi ha detto seriamente che la sua vita poteva essere salvaguardata solo con le misure vigorose prese questa mattina.»

«Sia pure così, io spero di potergli credere. Credo che non ci sia nulla di gratuito nella sua severità, anche se mi sembra che avrebbe fatto meglio a bandire se stesso che tante famiglie, le quali adesso se ne vanno per il mondo a mendicare.

Anche lui un tempo è stato esiliato. Si dice che i principi imparano dalle avversità. Lo credo, nella crudeltà imparano un’astuzia che la persona felice non può mai conoscere.»

«No, cara contessa, non parlate duramente di lui. Castruccio è nato per governare, ha una mente nobile ma ferma nelle decisioni, e voi potete biasimarlo perché garantisce una vita da cui dipende il benessere di Lucca, forse d’Italia?»

Eutanasia non rispose, sapeva, anche se la sua natura gentile non era mai stata coinvolta, che in Italia c’era uno spirito di crudeltà, una noncuranza per la vita e la sofferenza degli altri, che rendeva meno eccezionale che Castruccio avesse adottato una condotta simile a quella di molti suoi contemporanei. È strano, che l’uomo, nato per soffrire e spesso ripiegato nella sofferenza, dovesse infliggere ai suoi simili il dolore, ma per quanto crudele un individuo possa essere, nessuno è così privo di rimorsi come un governante, perché egli smarrisce in sé persino l’idea della propria individualità e, nel curare le proprie inclinazioni e vendicare le ingiurie, immagina di sostenere lo stato; lo stato, un’invenzione, che sacrifica ciò che lo costituisce per sostenere solo il suo nome. Eutanasia sapeva di non dover applicare le stesse regole di condotta di un individuo privato ad un principe, eppure il fatto che Castruccio si fosse macchiato dei vizi comuni della sua etnia, fu uno shock che sconvolse tutta la sua mente; smascherava in un colpo l’idolo che viveva nello scrigno del suo cuore, ne mostrava la falsità dell’apoteosi e la costringeva ad usare le sue facoltà per rimuoverlo dal posto che aveva usurpato.

Pochi giorni dopo Castruccio in persona si recò al castello di Valperga, nel momento in cui molti altri visitatori erano lì, e tra loro parecchi che lui sapeva essere suoi nemici segreti. Non ci fece caso, ma, con la sua proverbiale franchezza, si mise a parlare con loro, trattandoli da pari a pari, mitigando l’umore risentito con cui all’inizio l’avevano guardato. Venne evitata ogni discussione politica, la conversazione si spostò su quelle tragedie domestiche che allora erano troppo comuni nelle corti meschine d’Italia, dove ogni piccolo signore che aveva il potere supremo e per principio illimitato, era persino pronto a lavare il disonore presunto dal suo nome con il sangue di quelli su cui aveva posto lo stigma. L’argomento in discussione era particolarmente terribile e assai singolare, dato che la natura s’era vendicata del trasgressore che aveva violato le sue leggi, e colui che vantava la propria moralità lasciandosi andare alla vendetta passionale, adesso era perseguitato dal rimorso e dalla follia e i fantasmi delle sue vittime lo perseguitavano dappertutto, togliendogli pace e speranza. Uno della compagnia, un Milanese, disse che era impossibile che il rimorso potesse aver causato la follia di Messer Francesco, poiché vendicando l’offesa che la moglie gli aveva arrecato aveva soltanto seguito l’esempio di centinaia suoi concittadini, e se li aveva superati in crudeltà, era perché il suo amore e il suo senso dell’onore erano superiori.

Castruccio rispose: «Lungi da me difendere queste nozioni puerili, che farebbero sguainare la spada ai principi e legare uomini di ferro con catene di paglia. Ma non mi sorprende che un uomo osi idolatrare se stesso a tal punto da sacrificare vittime umane sull’altare del suo orgoglio, gelosia o vendetta. Francesco era un mostro quando torturò e uccise la moglie, adesso è un uomo che sente il rimorso lancinante per aver commesso una simile pazzia. L’uomo può forzare la sua natura e fare cose orribili, ma siamo tutti esseri umani, tutti figli di una stessa madre che non tollera che qualcuno tormenti l’altro senza soffrire a sua volta una parte del tormento che ha inflitto.»

Dopo un po’ gli altri visitatori partirono e Eutanasia rimase sola con Castruccio. Restarono per un po’ in silenzio. I colori mutevoli della guancia d’Eutanasia dimostravano che l’amore non aveva lasciato il suo corso consueto, ma affluivano con forza nel suo cuore e poi rifluivano, dettati da un potere quasi meno forte di quello che ordina all’oceano di fermarsi: il potere della virtù in un animo umano ben formato. Castruccio la osservò, ma, a vedere il suo sguardo di nuovo calmo e la sua voce ferma quando parlò, lesse tutta la delicatezza e nessuna debolezza femminile.

«Mi perdonerai», disse infine, «se ti parlo con franchezza? E non te n’avrai a male per quei pensieri che le tue ultime parole hanno suscitato?»

Castruccio sorrise e rispose: «Madonna, io so già cosa stai per dire, ma t’inganni nelle tue conclusioni. Ho detto che nessun uomo può impunemente sacrificare le vite dei suoi simili in nome delle sue passioni private, ma non devi tormentare le mie intenzioni. Il capo di stato non è un privato cittadino e agirebbe con imbecillità vergognosa se si sottomettesse ai suoi nemici perché non osa punirli.»

Eutanasia replicò e fece un ritratto vivo delle sofferenze degli esiliati, ma Castruccio rispose ridendo: «Tu parli a chi dell’argomento ne sa più di te. Sei mai stata esiliata? E credi che io dimentichi la nostra triste processione quando noi poveri ghibellini lasciammo Lucca quasi vent’anni fa? E i Neri avrebbero regnato se non ci avessero cacciato? E come potrei regnare se permettessi a quest’orda di guelfi di restare qui e tramare dentro la mia cittadella? Il loro numero ingente è un argomento contro di loro e non a loro favore. Ma lasciamo questa discussione, mia misericordiosa Eutanasia, e per un momento occupiamoci della nostra situazione. Ci deve essere una fine per l’enigma, un coronamento dell’opera che sembra non avere una conclusione. Sarò franco con te. Io non vado a fare l’eremita, a deporre il mio scettro per prendere il crocifisso: io non faccio come i tuoi amici, i santi padri della chiesa, che fanno la guerra con il denaro e la menzogna, invece che con la spada. Io sono signore di Lucca e continuerò finché Dio me lo permette. Sono a capo dei ghibellini in Toscana e il mio scopo è che i ghibellini sopprimano i loro vecchi nemici. Intravedendo una bella prospettiva di successo, non risparmierò parole né colpi contro coloro che si opporrebbero a me in questa impresa. Tu sei guelfa, ma di certo, mia cara ragazza, non sacrificheresti la tua felicità per un nome, o permetteresti alo spirito di parte di accaparrarsi di tutti i più nobili sentimenti della tua natura.»

Eutanasia ascoltò con attenzione e rispose con una tristezza dolce: «Non mi pare, Castruccio, di sacrificare niente di nobile nella mia natura a rifiutare d’allearmi con il nemico del mio paese. Come ghibellino tu sai che ti amo, e non sono solo le parole che determinano il mio cambiamento. Combatti i fiorentini soltanto con le parole e io sarò ancora tua. Ma più che amare Firenze, o me stessa, o te, Castruccio, io amo la pace e il mio cuore sanguina a pensare che la fine della carneficina e devastazione che il nostro povero paese sconvolto adesso gode è di breve durata. Non hai mai vissuto in un paese che ha sofferto la guerra? Non hai mai visto i contadini strappati alle loro casupole, le loro vigne abbattute, i raccolti distrutti, e spesso un povero bambino abbandonato o per mala sorte ferito, di cui ogni goccia di sangue vale di più del potere dei Cesari? E poi vedere le lacrime e la disperazione di queste povere creature e trovare uomini che ancora gli infliggerebbero sofferenze… e per cosa? La bolla d’aria è tua, Castruccio. Cosa vorresti? Onore, fama, dominio? Cosa sono queste cose se non ottieni la pace, ma il disprezzo, l’infamia e la tirannia! Oh! Regola il tuo cuore, fai entrare in lui la ragione, fai della virtù il più importante sacerdote della tua divinità. Che l’amore per i tuoi simili sia il palazzo dove vivi e le lodi il tuo cibo delicato e gli abiti costosi, e, come tutti i sovrani hanno le segrete, così le avrai anche tu, nelle quali il tuo orgoglio, l’ambizione e, perdona la parola, la tua crudeltà saranno in catene… E allora gli imperatori di Costantinopoli vestiti di porpora invidieranno il tuo stato e il tuo potere.

Perché vuoi questo conflitto crudele? Perché vorresti aumentare lo struggimento del mio cuore? Come nemico di Firenze io non sarò mai tua, come assassino risoluto dei compagni di gioco della mia infanzia, degli amici della mia gioventù, di quelli cui sono legata con ogni tipo di legame ed ospitalità che lega l’umanità, in quanto tale, non sarò mai tua. Ecco allora il coronamento della tua opera, il mare dove la corrente profonda e costante del mio amore si perde: la tua ambizione. Che siano queste le ultime parole di contrasto tra noi. Ma se, invece di tutto ciò che io onoro e amo, tu preferisci il basso desiderio di potere e d’accrescimento egoistico, ascoltami ancora. Tu stai per seguire una nuova pista, una su cui si sono avventurati in migliaia prima di te: non seguirli, non essere sanguinario come loro… gli italiani d’oggi hanno tutti in sé una crudeltà senza rimorso, che macchierà le pagine della loro storia nel modo più folle. Fa’ che le pagine della tua storia non siano macchiate così!

Perdonami se ti parlo con questo tono. Da ora in poi noi siamo separati, quale che sia la nostra parte noi la prenderemo separatamente. Questa è la sentenza che tu hai pronunciato per noi.»

Castruccio era scosso dall’animazione d’Eutanasia, cercò di cambiare la sua determinazione, di strapparla dalle loro divergenze, ma invano. La commosse fino alle lacrime. Lei pianse, non rispose: il suo proposito era fermo, ma il suo cuore era debole; lei aveva amato per la prima e unica volta e sapeva di sacrificare ogni speranza e gioia nella vita se sacrificava Castruccio. Ma era decisa e si separarono, una separazione che agitò ogni nervo d’Eutanasia fino al tormento.

Cercò di calmarsi, di dimenticare che l’amava, ma solo le lacrime, tante lacrime, acquietavano il dolore profondo del suo cuore, quando pensava che i dolci sogni che aveva nutrito per due anni erano vani, fili sottili che il sole della realtà dissipava. Talvolta s’era allenata ad essere troppo precisa e saggia, a sacrificare tutte le speranze ai suoi principi. Ma allora il ricordo della sofferenza provata durante l’ultima guerra con Firenze, e i conflitti peggiori che avrebbe provato, se avesse osato mettersi con un nemico, se, unendo i loro destini, non potesse nemmeno pregare per la causa del marito, né per quella del suo amato paese, quando augurare il bene a Castruccio sarebbe stato desiderare il successo della tirannia e dell’usurpazione, e aver promesso l’appoggio ai fiorentini nella loro necessaria difesa, significava augurarsi la disfatta del compagno della sua vita… L’idea di questi tormenti le dava la forza di insistere e sperava che l’approvazione del suo cuore e di quello dei suoi più cari amici la ripagasse in qualche modo per la sua sofferenza. Pensò al padre e ai suoi insegnamenti e aumentò il desiderio del bene insieme all’amore ardente per la giustizia ch’era sempre stato in lei. La sua passione fu sempre naturale e tesa alla legalità, lei non riusciva a vivere credendo d’aver commesso dei torti e la totale autonomia ed il grazioso orgoglio della sua natura non le avrebbero mai permesso di abbassarsi rispetto a ciò che lei aveva stabilito essere l’oggetto della sua emulazione.

Eppure, quando nel silenzio della notte e della sua solitudine interrogava il suo cuore, capiva che l’amore superava ogni altro sentimento e non amare per lei era come morire. Guardava la terra riposare, gli alberi dormire nell’aria quieta, e il solo suono era quello di un gufo, le cui strida monotone e sgraziate spezzavano il silenzio e intristivano tutto quanto. Guardò il cielo dove le luci eterne brillavano. Tutto era immutato là, ma per lei era tutto diverso. Era in una notte, in un autunno italiano, che lei sedeva sotto la sua acacia vicino alla vasca della fontana della roccia. Osservare i colori del tramonto, le tinti tenui degli olivi, le sfumature porpora dei monti lontani, i cui contorni erano delicati, ma distinti nel cielo arancione; sentire la brezza da ovest sfiorare le sue guance, come parole d’amore di una persona molto cara; vedere la prima stella della sera sbucare dal rilucente firmamento occidentale, e sussurrarci il segreto di mondi distanti nella loro stretta prigione; guardare il cipresso puntuto con le sue guglie dritte dormire nell’aria immota. Queste erano visioni e sensazioni che attenuavano ed esaltavano i suoi pensieri. Si sentiva parte di tutto, amica di tutto. Doppiamente, smisuratamente innamorata delle cose a lei care, umanamente caritatevole anche verso il male. Un dolce profumo proveniente dai fiori di limone misto all’odore gommoso dei cipressi, si aggiungeva all’incanto. Improvvisamente… ascolta! Cos’è? Si sentì una musica più dolce di qualsiasi altro strumento, della voce umana in coro che canta una canzone nazionale, per metà inno, per metà canto di guerra. Eutanasia pianse, come una bimba… ma non c’era nessuno vicino a lei che le potesse dire cos’erano le sensazioni intricate che la soverchiavano: parlare a chi si ama in certi momenti rende leggero lo spirito, altrimenti l’abisso colpisce il cuore. Divenne triste, guardò il cielo stellato. La sua anima proferì in silenzio l’amaro sfogo della sua condizione miserevole.

«Debbo dimenticare d’amare? Oh! presto la luce eterna, che vaga per i cieli e poi scende, e dura chissà dove, oh!, presto dimenticherà di seguire la strada tracciata da sempre, che Dio per primo ha segnato, prima che io dimentichi di amare! L’aria avvolge ancora la terra, colmando i recessi dei monti e penetrando perfino nelle loro caverne; il sole risplende di giorno e i cieli sereni della notte sono stellati dai figli dell’aria; e io non sono immutata come le opere eterne della stessa natura? Cos’è allora che fa trasalire ogni nervo, non come il suono del tuono o del turbine, ma come quella calma, piccola voce che in me risuona e non tace, dicendomi che tutto è cambiato rispetto a prima? Io ho amato! Dio e il mio cuore sanno quanto ho amato veramente, teneramente! Quanto ho coltivato la sua idea, la sua immagine, le sue virtù con affetto irreprensibile: com’era la mia gloria, il mio silenzioso vanto, quando in solitudine i miei occhi lacrimavano e le mie guance arrossivano, a pensare che lo amavo, lui che superava tutti in saggezza ed eccellenza! Era un sogno? Oh! Allora tutto è un sogno e la terra e il firmamento sono come la tela del ragno che non può durare! Eppure, oh, voi, stelle, brillate! E io vivo. La pulsazione, il respiro, il pensiero, tutto è cambiato. Non devo più amare… allora portatemi il soffio mortale dell’oblio.

Il mio cuore di sicuro non è freddo, perché io sento la pena profonda. Eppure vivo. Ho sentito di chi ha sofferto ed è morto, quando il dolce cibo dell’amore gli era negato. Le sue sensazioni erano più rapide, profonde, penetranti delle mie? L’angoscia era maggiore? Non lo so, non m’è dato saperlo, se Dio ha concesso al tutto una capacità più grande per resistere di quanto possa desiderare. Eppure, mi pare, io amo ancora, e per questo io vivo. Una notte nera, cupa, scura, immobile è davanti a me, un grave, opprimente annientamento è sopra di me, quando per un momento immagino di non avere speranza. Ma per un istante solo quell’idea vive in me, e viene più spesso e resta più a lungo di quanto faccia di solito. La consapevolezza che non ho niente d’aspettare se non la morte deve diventare una parte della mia mente. Quando muore un caro amico, quanto dolore dobbiamo patire prima d’essere convinti che non c’è più! Così adesso quella speranza è morta. È una dura lezione per il mio cuore, ma la imparerò e ciò che adesso è realtà sarà come un sogno; ciò che ora è una parte di me non sarà che un ricordo, un’ombra sulla vita, dalla quale io alla fine riemergerò. E qual è lo stato di cose che seguirà?

Dovrò raccogliere tutto l’orgoglio e tutta la nobiltà della mia natura. Io non fallirò questa prova. Tutto il meglio dell’età passate ha lasciato delle lezioni su cui devo meditare, e io non sarò un’allieva indisciplinata; il miele della tazza è esaurito, ma non è tutta bile ciò che resta.»

L’inverno passò così: Eutanasia temeva Castruccio come nemico di Firenze, ma evitava Firenze come il suo nemico. Delusa nelle sue più care speranze, distrutta nell’animo, odiava la società, si consolava solo a contemplare la natura, quella consolazione che la mente acquista in comunione con le sue pene e, avendo perso ogni altra risorsa, si aggrappa come a un amico ai sentimenti di dolore di cui è colma.

L’inverno fu freddo, le montagne erano coperte di neve e, quando il sole brillava su loro, il Serchio, prendendo vita dalle sue anse, fluiva nel suo corso, rombando e ululando come se, inseguito da innumerabili e straripanti correnti, cercasse di trovare riposo nella sua casa tra le acque dell’oceano illimitato. L’aria riecheggiava il suo tumulto e l’inverno, assopito tra le rupi ghiacciate dei monti, temeva un suono che non poteva zittire e che era la nenia che suonava la sua ora: il vento freddo del nord spazzava la pianura di Lucca e si lamentava come un mendicante respinto tra le mura del castello d’Eutanasia. In queste mura, un tempo scenario d’allegria e gioia, risiedeva l’inconsolabile castellana, preda di tutta quella tristezza e talvolta di folli fantasticherie che la disperazione aveva reso le sue compagne. Il dovere e i rapporti con la sua prima giovinezza le avevano suggerito il terribile comando di non amare più; ma la sua anima s’opponeva e spesso pensava che, in un mondo così folle, il dovere non fosse che la parola d’ordine dei folli, e che lei avrebbe potuto godere senza biasimo l’unica felicità che aveva provato.

Ma in chi da tempo aveva sottomesso i propri pensieri al controllo della coscienza, tali idee avevano vita breve e i suoi consueti sentimenti tornavano a cacciarla nella cerchia ristretta dove ogni pace le era estranea. Dovere, patriottismo e alta moralità religiosa erano i cani da guardia che guidavano i suoi pensieri fuggiaschi, come una pecora ricondotta al suo ovile: ahimè! Anche il lupo era rinchiuso nello stesso recinto. Se per un momento la sua volontà cedeva e l’amore, rompendo ogni argine che lei aveva con cura costruito per regolare il corso della sua mente, la travolgeva all’improvviso e trascinava via nel suo indomabile flusso ragione, coscienza e persino memoria, lo stesso Castruccio interveniva a riparare la breccia e a reprimere la corrente. Un castello incendiato, una città presa d’assalto, un amico o un nemico bandito senza rimpianto, la riempivano di vergogna e ira: avrebbe amato un tiranno, uno schiavo delle proprie passioni, il vendicatore di questi e altri. Castruccio era sempre in guerra, la pace tra lui e Firenze resisteva, ma l’assedio di Genova dei ghibellini lombardi, gli offrì l’occasione di armarsi in quel senso e, estendendo la sua marcia da Lucca al di là del Magra, insanguinò il paese e ottenne ciò che desiderava: il dominio e la fama.

È strano notare i cambiamenti ora in atto nel suo carattere. Ogni successo gli faceva allargare le sue visioni a qualcosa che andava oltre, ogni ostacolo superato lo rendeva ancora più impaziente rispetto a quelli di là da venire. Divenne tutto chiuso in se stesso, il suo credo non era altro che la fine e lo scopo della sua ambizione e ciò che aveva giurato al cielo d’ottenere. Abituato a vedere gli uomini morire in battaglia per lui, divenne insensibile al sangue e non si curava se scorresse sulla forca o nel campo dell’onore, e ogni nuovo atto di crudeltà irrigidiva il suo cuore per quelli futuri.

Eppure tutti i suoi buoni sentimenti non erano morti in lui. Una passione smisurata per l’amicizia sembrava aver preso posto dell’innocenza e della benevolenza: la virtù, quasi a cercare di costruire il suo nido nel cuore e spingere fuori l’antica, occupò la casa i cui ingressi erano ancora liberi. Il coraggio e la forza erano sentimenti a lui abituali, ma, sebbene fosse gentile e magnanimo con i suoi amici, e in questo ricambiato e servito fedelmente, nel suo carattere non c’era né magnanimità né un briciolo di generosità. I suoi costumi morigerati, l’essere astemio e il disprezzo del lusso, spesso gli davano l’immagine di colui che si sacrifica, perché concedeva agli altri ciò che gli altri consideravano di grande importanza, ma che lui disprezzava. Però se si trattava di sacrificare le sue inclinazioni, la sua ambizione sfrenata e l’amore del dominio, nessun ostacolo di nessun tipo poteva fermarlo: né la compassione che rende uomini angeli, né l’amore che seda il cuore degli stessi dèi, avevano su di lui il minimo potere… era tutto concentrato sul punto che voleva ottenere e non l’avrebbe mai perso di vista, o non avrebbe placato i suoi sforzi per arrivarci.

Era difficile dire quali fossero i suoi sentimenti per Eutanasia. L’aveva amata, teneramente, appassionatamente e considerava il rifiuto della sua offerta un capriccio da superare. Talvolta era molto addolorato, talvolta arrabbiato, eppure l’amava sempre e credeva che lei avrebbe ceduto. Altre volte pensava alla povera Beatrice, alla sua forma risplendente di bellezza e viva con lo spirito della sibilla, oppure, pallida, abbattuta come un povero cervo nella foresta e sofferente per la ferita: allora sentiva che avrebbe dato il mondo per alleviare i suoi dolori. Tornando da Bologna, aveva mandato qualcuno a Ferrara e saputo che viveva e non c’erano stati cambiamenti nel suo stato, soddisfatto di questo, non la cercava più. L’ambizione era la sua passione guida e tutto dipendeva da lei, come un canneto di fronte al vento: l’amore di sé ebbe un breve potere nella sua mente e, anche se questa passione gli causava talvolta dolore e sofferenza per le speranze deluse, era comunque di breve durata e lo riportava al primo impulso, che lo teneva occupato con i nuovi disegni e le nuove conquiste.

Una volta lui aveva amato davvero e gustato la vita e la gioia dagli occhi d’Eutanasia. Il suo viaggio in Lombardia, il suo legame con Beatrice, sebbene l’amasse poco, era tuttavia sufficiente per scuotere i limiti che lo confinavano, e l’amore era con lui, anche dopo, il secondo sentimento del suo cuore, il servo alla mercé della sua ambizione.

I suoi exploit militari ora erano rivolti alla totale sottomissione del territorio intorno a Lucca: Sarzana, Pontremoli, Fucecchio, Fosdinovo, i castelli persino oltre il Magra, Valdinera, Aquabuona, La Valle, villaggi fortificati tra gli Appennini, che fino ad allora erano sotto la giurisdizione dei signori della Lombardia, adesso erano soggetti al console Lucchese. Durante l’inverno fu per un po’ di tempo confinato a Lucca a causa delle inondazioni, e là s’adoperò a stabilire un potente apparato di polizia, nel cercare e punire i nemici, come nel progettare e innalzare gli edifici pubblici. Era amato dai nobili del suo partito e dalla gente, a cui alleggerì le tasse e liberò in gran misura dalla tirannia dei suoi superiori. Era amato anche dal clero, perché, pur nemico delle usurpazioni temporali dei papi, valorizzò l’insegnamento e rispettò le persone dei sacerdoti. Era odiato da tutti i ricchi che non erano immediatamente connessi alla sua persona e fazione, in quanto private del potere: disprezzati dai suoi seguaci e controllati da lui stesso, non poterono trovare asilo nel sospetto e severità di un despota che si sentiva insicuro sul suo seggio di potere.



[1] William Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate, Atto V, Scena I.

[2] In originale nel testo compare morgincap, voce longobarda che significa letteralmente “dono del mattino”, ossia la somma di denaro pagata dal marito alla famiglia della moglie dopo che il matrimonio era stato consumato.



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