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“Valperga”– Mary Shelley XXIX

Creato il 26 marzo 2012 da Marvigar4

William Morris Guinevere and Iseult

Mary Shelley (1797-1851)

VALPERGA

o

La vita e le avventure di Castruccio, Principe di Lucca

Traduzione integrale di Marco Vignolo Gargini dall’originale in inglese Valperga; or the Life and Adventures of Castruccio, Prince of Lucca

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Capitolo 29

Beatrice, il suo Credo e il suo amore.

Eutanasia stava meditando su questa lettera, quando Beatrice entrò e le sedette accanto. Le prese la mano e la baciò, poi disse: «Come perdonare la mia ingratitudine? Sono caparbia, astiosa e umorale. Ahimè! Delle volte il ricordo dei mali sofferti mi opprime e dimentico tutti i miei doveri. Doveri! Finché non seppi di non averne alcuno… per cinque anni la mia vita è stata uno scenario di disperazione: non si può dire che caduta sia stata la mia.»

«Vi chiedo di dimenticare, povera vittima, tutta la vostra infelicità passata. Dimenticate tutto quello che siete stata un tempo.»

«Sì, voi dite bene. Devo dimenticare tutto, o essere ciò che sono mi tormenterà fino alla disperazione. Povera, ingannata, pazza, insensata Beatrice! Posso accusare me stessa solo per i miei molti mali. Me stessa e quel potere che sta in alto e sparge il male come rugiada sulla terra, rugiada che uccide e fa avariare il miele.»

« Tacete! povera ragazza, non parlate così. Non devo farvi proferire questi sentimenti.»

«Oh! Lasciatemi parlare: prima di tutti gli altri devo nascondere i sentimenti che mi lacerano, profondi, profondi. Lasciatemi imprecare ancora per un momento!»

Beatrice si alzò, puntò il dito al cielo e prese la stessa posa di quando profetizzò al popolo di Ferrara sotto il portico della chiesa di Sant’Anna. Ma quanto era diversa! Magra, il volto incavato, le labbra nate per l’amore secche, le mani e le braccia un tempo tonde e belle, adesso rugose ed emaciate. Gli occhi non erano più quelli, avevano perso quella dolcezza che unita al loro fuoco era uno spettacolo di vivacità e bellezza. Adesso, come il sole che spunta dietro una nube che porta il temporale, quegli occhi guardavano con ferocia sotto i capelli scuri e scomposti sulla fronte: ma anche ora, come allora, lei parlava con un’eloquenza agitata:

«Eutanasia, vi siete illusa molto. Voi adorate un’inutile ombra o un diavolo sotto forma di Dio. Ascoltatemi, mentre vi annuncio l’influenza eterna e vittoriosa del male che circola come l’aria su di noi, aggrappandosi alla nostra carne come una veste avvelenata, rodendoci dentro e distruggendoci. Siete cieca, non lo vedete? Siete sorda, non sentite i lamenti? Siete insensibile da non avvertire l’infelicità? Aprite gli occhi e vedrete tutto ciò di cui vi parlo davanti a voi orribilmente. Guardatevi attorno. Non c’è guerra, violazione di trattati e crudeltà senza cuore? Guardate la società degli uomini: non sono creature che si tormentano a vicenda in un infinito circolo di dolore? Alcuni sono chiusi in gabbie di ferro a patire la fame e a morire; le città galleggiano sul sangue e le speranze dei contadini sono concimate dai loro arti stritolati: rammentate i tempi dei nostri padri, la strage degli Albigesi… le crudeltà d’Ezzelino, quando torme di ciechi, zoppi e mutilati, la feccia delle sue prigioni, inondarono gli stati italiani. Ricordate la distruzione dei templari. Non vi siete mai immaginata la torre della fame d’Ugolino, o gli animi degli eserciti degli esiliati che ogni giorno i cittadini in guerra scacciano dalle loro case? Non riflettete mai sulla politica colpevole dei papi, quei ministri del re dei cieli? Rammentate i Vespri Siciliani, la morte dell’innocente Corradino, le migliaia d’anime le cui ossa sbiancano sotto il sole d’Asia: andarono ad onorare il Suo nome e così lui li ha ripagati.

Riflettete poi sulla vita domestica, le liti, gli odi e le brutalità che, come lance aguzze, trafiggono i cuori ogni momento. Pensate alla gelosia, le uccisioni nella notte, l’invidia, la mancanza di fede, la calunnia, l’ingratitudine, la crudeltà e tutto ciò che l’uomo infligge al prossimo ogni giorno. Pensate alle malattie, la peste, la fame, la lebbra, la febbre e tutto quello che i dolori vivi per giunta fanno patire alle nostre membra. Visitate nella vostra mente gli ospedali, i lazzaretti. Oh! La mano di Dio è sicuramente la mano di un padre che punisce, che tormenta così i suoi figli! I suoi figli? I suoi eterni nemici! Guardate, io sono una! Ha creato i semi del morbo, la Maremma, la sete, il bisogno. Ha creato l’uomo… il più infelice degli schiavi. Oh! Non sapete cos’è un uomo infelice? E che cumulo d’infinito dolore è questa millantata anima umana? Guardate il vostro cuore o, se è troppo sereno, scrutate il mio: ve lo aprirò per la vostra visita. C’è rimorso, astio, pena… travolgente, forte ed eterna miseria. Dio mi ha creato: sono l’opera di un essere benefico? Oh, quale spirito mischiò nella mia desolata struttura amore, speranza, energia, fiducia… per trovare indifferenza, per essere colpita con la disperazione, per essere debole come una foglia caduta, per essere tradita da tutti! Ora sono cambiata… Io odio… la mia energia si spreca in maledizioni, e se mi fido, è lei la più profondamente ferita.

Il potere che si adora non crea le passioni umane, i suoi desideri che impediscono le possibilità e portano rovina sul suo capo? Non ha piantato i semi dell’ambizione, della vendetta e dell’odio? Non ha creato l’amore, il tentatore: lui che tiene la chiave di quella magione il cui motto deve essere sempre

Lasciate ogni speranza voi che intrate [1].

E l’immaginazione, quel capolavoro della sua malizia, che cosparge di miele la tazza in cui forse beviamo il veleno; che semina rose sulle spine, spine aguzze e grosse come lance; quella parvenza di bellezza che ti chiama nel deserto; quella mela d’oro dal cuore di cenere; quell’immagine sciocca ricoperta dal velo d’eccellenza; quella nebbia di Maremma, che splende con tinte rosa sotto il sole, che lo crea e lo rende bello per distruggerti; quel diadema di ortiche; quella lancia spezzata nel cuore! Lui, il dannato e trionfante, è stato a meditare più di mille anni sulla conclusione, la realizzazione, il coronamento finale, il sigillo d’ogni miseria, che poteva porre nel cuore e nella mente dell’uomo per condannarlo al tormento infinito; e lui creò l’Immaginazione. E allora si dice che la colpa è nostra; il bene e il male sono sparsi nei nostri cuori, e nostra è la coltura, nostro il raccolto; e può questo giustificare una divinità onnipotente che permette a una particella di dolore di sussistere nel suo mondo? Oh, mai.

Vi dico il perché. Non c’è un atomo di vita in questo mondo popolato che non soffre pene; distruggiamo gli animali… guardate i vostri abiti, che una miriade di creature viventi hanno tessuto e poi sono morte; quei zibellini… mille cuori che battevano sotto quelle pellicce, soffocati nell’agonia della morte per fornire quel mantello. Perché no? mentre vivevano, quei poveri cuori battevano sotto l’influenza della paura, del freddo e della fame. Oh! Meglio morire che soffrire! La balena degli oceani uccide popolazioni di pesci, ma in lei ne vivono mille e la tormentano. La distruzione è la parola d’ordine del mondo; la morte con cui vive, la disperazione con cui spera: oh, un essere buono ha certamente creato tutto questo!

Lasciatemi dire che voi avete fatto del male alleandovi con lo spirito vittorioso del male, lasciando il culto del bene, che è caduco e depresso, ma che ancora vive. Vaga per il mondo come una cosa proscritta e impotente, snobbato nei palazzi dei re, scomunicato dalle chiese; talvolta s’aggira nei cuori dell’uomo e lo fa risplendere d’amore e virtù; ma senza alcun dubbio appena lui entra, la disgrazia, legata a lui dai suoi nemici, come un cadavere in un corpo vivo, entra con esso; lo sventurato che ha ricevuto la sua influenza diventa povero, indifeso e desolato; è felice se non viene arso al rogo, battuto dal ferro, torturato con pinze ardenti.

Lo Spirito del Male ha eletto una nazione per sé; lo Spirito del Bene ha cercato di redimere quella nazione dall’abisso del vizio e miseria, ed è stato distrutto da esso; e ora, come capolavoro del nemico, sono venerati insieme; e lui il benefico, gentile e sofferente, è divenuto il mediatore per abbattere le maledizioni su di noi.

Come sono rapidi e sicuri gli atti dello spirito malvagio, quanto lenti e incerti quelli del bene! Ricordo una volta un mio buon amico colto che mi disse che il paesaggio intorno ad Atene era abbellito dalle opere più squisite che l’uomo avesse mai fatto; templi di marmo tracciate con sculture divine, statue che trascendevano la bellezza umana; l’arte umana era stata consumata per ornarlo, le vite di centinaia d’uomini erano state utilizzate per realizzarlo, il genio più alto impiegato nella sua esecuzione; sono passate ere, mentre lentamente, anno dopo anno, queste meraviglie sono state raccolte; alcune erano quasi cadenti per l’eccessiva età, altre invece brillavano come nella loro prima infanzia. Bene: un re, Filippo di Macedonia, le distrusse tutte in tre giorni, le bruciò, le rase al suolo, le annientò. Questa è l’energia commisurata del bene e del male; il prodotto d’ere è il raccolto di un momento; un uomo può spendere anni a frenare le sue passioni, acquisendo saggezza, diventando un angelo di bontà; la brutalità di una creatura a lui simile, o la guerra, possono abbatterlo in un istante, e tutto il suo sapere e virtù oscurarsi, come una notte senza luna e senza stelle.

Eutanasia, il cuore mi duole e i miei spiriti cedono: ero una povera, semplice ragazza, ma ho sofferto molto e la sopportazione e le esperienze amare mi hanno portato alla verità delle cose. Il velo falso che è gettato sul mondo non ha il potere di nascondere la sua deformità a me. Vedo l’animo crudele che si apposta sotto il bel manto del leopardo; vedo il degrado dell’autunno nelle verdi foglie primaverili, le rughe nei volti giovani, la ruggine nel ferro temperato, la tempesta nel seno profondo della quiete, il dolore nel cuore gioioso; tutta la bellezza avvolge la deformità, come il frutto avvolge il nocciolo. Il Tempo apre la conchiglia, il seme è il veleno.»

Gli occhi di Beatrice sprizzavano scintille nel lanciare quest’anatema contro la creazione. Le guance erano eccitate da un bagliore frenetico, la voce, acuta e rotta, che alle volte era quasi uno strillo o un sussurro, piombò nel cervello d’Eutanasia come una pioggia alternata di fuoco e ghiaccio; si rattrappiva e tremava sotto l’alluvione del terrore che inondava e confondeva la sua comprensione: ma l’eloquente profetessa del Male alla fine tacque e, pallida ed esausta, cadde giù, abbracciando Eutanasia, nascondendo il volto nelle sue ginocchia, in singhiozzi e in pianto: «Perdonatemi, se vi ho detto cose che vi sembrano blasfeme. Io vi aprirò il mio cuore, vi racconterò le mie pene, e allora sicuramente maledirete con me l’autore del mio essere.»

Eutanasia la consolò soltanto, le chiese di non piangere più, le disse che non c’era bisogno che lei temesse o odiasse, che poteva ancora amare, sperare e avere fiducia, e lei l’avrebbe compresa e sostenuta come una dolce sorella. La mente indisciplinata della povera Beatrice era come un fiore che s’affloscia sotto il temporale, ma, al primo brillare del sole, rialza la testa anche se la grandine e il vento hanno spezzato e macchiato le sue foglie e i suoi colori. Beatrice alzò lo sguardo e sorrise: «Farò tutto quello che mi direte, sarò docile, buona e affettuosa… Obbedirò al vostro più piccolo cenno, gentilissima, carissima Eutanasia. Abbiate fiducia in me, farete di me di nuovo una cattolica, se mi amerete continuamente per un anno intero, ed io nel frattempo non morirò. Io imparo tanto facilmente, sono molto, molto ubbidiente, ma ho sofferto molto, come un giorno saprete, perché vi racconterò tutto. Adesso, arrivederci. Sono molto stanca e credo che andrò a dormire.»

«Allora riposate, povera creatura. C’è un letto pronto per voi. Io vi starò accanto a vegliarvi e che i vostri sogni siano piacevoli.»

«Datemi la vostra mano, la terrò mentre riposo. Com’è piccola, candida e morbida! Guardate la mia, è gialla e secca. Una volta era come la vostra, forse un po’ più piccola, ma mai così ben forgiata; le punte delle dita e delle unghie non sono mai state così rosa come le vostre e il palmo così soffice. Siete molto bella e molto buona, cara Eutanasia. Spero che voi siate e sarete felice.»

Eutanasia baciò la fronte di questa figlia della fantasia e della tristezza, che s’addormentò presto scordando tutte le sue sofferenze. Eutanasia nutrì un profondo interesse per lei, sentì che erano unite dal loro comune amore per un uomo che amava solo se stesso. Pensò alle sue folli denunce e, strano a dirsi, si sentì ancora più presa dalla forte ammirazione per la creazione e gratitudine verso Dio, proprio quando Beatrice aveva ritratto i suoi difetti. Rifletté sulla bellezza del mondo e sulla mirabile natura umana tanto che la sua mente s’innalzò ad un sentimento entusiasta di felicità e di lode. «E anche voi frenerete i vostri pensieri selvaggi», sussurrò Eutanasia guardando la ragazza che dormiva. «Mi sforzerò d’insegnarvi i precetti della vera religione e, riducendo i vostri vaghi pensieri in uno tanto bello e buono, compirò in parte il mio compito su questa terra.»

Per parecchi giorni dopo questa conversazione Beatrice divenne tranquilla e mite, parlando poco, apparendo compiaciuta, quasi contenta. Andava a messa, recitava il rosario e parlava d’andare a confessarsi. Eutanasia era stupefatta, così ferma nei suoi principi, decisa nelle sue opinioni e azioni, lenta a cambiare ma risoluta dopo esser cambiata, che stentava a capire i sentimenti mutevoli e i cambiamenti veloci della povera, incolta Beatrice.

«Confessate!» ripeteva, «avete promesso che vi convertirete in un anno, ma voi avete già abbandonato le vostre idee patarine!»

«No, per niente, non mi sono convertita, ma è di così poca importanza. Vorrei venirvi incontro, carissima, e sembrare ciò che non sono e non sono certa di non essere ciò che desiderate. Vedete, se Dio è buono perdonerà i miei errori: se è malvagio non mi do pena di piacergli. Così mi sforzerò di far piacere ai virtuosi e ai gentili di questo mondo, e voi siete tra questi, mia buonissima amica. Per di più, ora io penso che questo mondo sembra troppo bello per esser stato creato da uno spirito maligno. Ci avrebbe creato tutti rospi, gli alberi e i fiori tutti funghi e le rocce e i monti sarebbero stati polipi enormi, informi. C’è ancora il male, ma non mi turberà più. Voi formerete il mio credo e, come un bimbo balbuziente, con le mani giunte, ripeterò le mie preghiere con voi.»

«Ma perché, carissima Beatrice? Perché non rievocate la fede della vostra infanzia, come i vostri genitori adottivi ve l’hanno insegnata? Io non saprei insegnarvi meglio di loro.»

«La mia infanzia!» esclamò la profetessa con occhi incupiti e agitati, «per diventare ancora una credulona, una maniaca? Per cadere di nuovo come sono caduta? Smettetela, smettetela, per pietà, di parlare della mia infanzia; giorni di errori, vanità e paradiso! I miei precetti devono essere tutti nuovi, detti di nuovo con parole che indicano altre idee rispetto a quelle del mio folle, breve sogno di gioventù. La fede allora era un’ombra: era ciò che questi occhi videro. Afferrai la speranza e la trovai certa; ascoltai gli angeli del cielo e vidi le anime dei dipartiti; potrò mai vederli ancora?»

«Dolcissima e sfortunatissima, allontanate il ricordo e trattenete la speranza. La gioventù è davvero un sogno e, anche se non l’ho trascorsa con le vostre estasi, eppure credetemi io non ero allora come sono adesso. Sono più vecchia di voi e conosco meglio la vita. Ho passato il terribile cambiamento dal sogno alla realtà e ora sono calma. Io ho conosciuto tutte le vostre angosce, delle volte in effetti mi visitano adesso, ma io le spengo, le metto da parte, le calpesto… così potreste fare anche voi.»

«Mai! mai!» rispose Beatrice: «Sono nata per l’infelicità. Quando il fato avvolse la mia sorte la intrecciò con tre fili: il primo era la verde speranza, il secondo la gioia purpurea, il terzo la nera disperazione; ma i primi due furono molto corti e presto giunse ad una fine; resta un’orribile linea nera. Vorrei tanto dimenticare tutto questo. per molti giorni sono stata calma come un uccello che fa il nido, cullato sull’albero da un vento gentile, pieno di pace, di vita assopita. Possa questo stato continuare a lungo, diverrei ciò che voi desiderate, però trovo la mia anima sveglia e temo una ricaduta. Temo il ritorno delle lacrime e dei gemiti infiniti. Oh! abbracciatemi, mio migliore angelo, speranza della mia vita, versate le vostre parole miti su di me, poggiate la vostra fresca, florida guancia accanto alla mia che scotta, che le nostre pulsazioni siano calorose! Oh! Possa io diventare un giorno meno febbrile, meno folle, meno come una nube cremisi scuro di un temporale, spazzata via tra la landa sconosciuta del cielo.»

Eutanasia era contenta d’ascoltare la sua amica sofferente che parlava, pur senza controllo, perché notò che quando si stancava nei discorsi diveniva più calma e più felice, mentre se rimuginava silenziosamente sulle sue pene quasi impazziva dal dolore. Ogni tanto cercava la consolazione nella musica. C’era qualcosa di magico nella sua voce e nei toni che riusciva a trarre dall’organo o dall’arpa: nei suoi giorni felici si diceva che aveva imparato a cantare da maestri angelici e adesso quelle melodie ricordate rimanevano, uniche reliquie dei suoi onori svaniti. Talvolta il ricordo di questo la disturbava e rompeva improvvisamente il suo canto per esclamare stizzosamente che la musica, come le altre maschere del mondo, conteneva l’anima dell’amarezza nella sua forma di bellezza.

«No, cara ragazza», disse Eutanasia, «Euterpe è sempre stata una mia cara amica e non posso permettervi di calunniarla ingiustamente. Per me c’è un piacere puro nella musica. Uno spirito benedetto, compassionevole e affettuoso con la condizione dell’uomo, inviato per insegnarli che lui è un altro rispetto a ciò che appare: viene, come una voce da un mondo lontano, a dirti che ci sono abissi d’intensa emozione velati nel blu empireo e le finestre del cielo sono aperte solo dalla musica. Castiga e culla le nostre estasi e, se sveglia il dolore, pure lo placa. Ma più che per il lieto o l’infelice, la musica è un dono inestimabile per coloro che dimenticano tutte le emozioni più sublimi nelle cure della vita quotidiana. Odo i racconti degli uomini, mi dedico al ricamo, frequento la società: all’improvviso un alto canto mi desta e io lascio tutta questa noiosa routine lontano, molto lontano. Ascolto fino a che tutto il mondo è cambiato e la bella terra diventa ancora più bella. La sera e tutte le sue dolci gioie, il mattino e tutte le sue piacevoli bellezze… Il mezzodì, quando l’anima occupata riposa, come il sole nel suo corso diurno, e poi raccogliendo una nuova forza si rilassa. Tutto ciò, a pensarci, dà piacere. Ma la musica è molto più deliziosa di questo. Non mi sento mai più felice e migliore di quando ascolto una musica dolce. I miei pensieri spesso dormono come i bambini accoccolati nelle culle, finché la musica li sveglia ed aprono gli occhi lucenti. Mi posso sbagliare, ma mi pare che la musica ci riveli uno dei più profondi segreti dell’universo e lo spirito, libero dalla prigione dei suoi incanti, può allora innalzarsi e scrutare con occhi d’aquila il sole eterno di questo mondo meraviglioso.»

Beatrice sorrise. Da quando i suoi giorni felici erano finiti, l’entusiasmo d’Eutanasia era divenuto più denso, più nascosto, ma Beatrice lo risvegliò con le parole, e queste due donne, legate da un dolce vincolo di gratitudine e pietà, trovarono a vicenda un balsamo per le loro disgrazie. Le circostanze avevano così reso amiche persone la cui natura sembrava separarle: erano molto diverse, ma gli sguardi selvatici di Beatrice talvolta riflettevano la luce tenue degli occhi d’Eutanasia, ed Eutanasia sentì il suo cuore, che era sprofondato nell’apatia, risvegliarsi ascoltando Beatrice. E, anche se possiamo essere infelici, non lo possiamo mai essere perfettamente quando la mente è attiva: è solo l’inazione che costituisce la vera infelicità.

Nel frattempo il viaggio a Firenze fu rinviato a tempo indeterminato. Eutanasia era troppo presa dal destino di Beatrice e ormai le voleva troppo bene per abbandonarla. La povera profetessa pareva poco adatta al viaggio, sin da quando le circostanze più insignificanti risvegliarono le sue più folli stravaganze e seguirono febbre e convulsioni. Tuttavia una volta Eutanasia le aveva accennato il suo desiderio di andare là e Beatrice la guardò con occhi fiammanti e gridò: «Non mi avevate promesso di non abbandonarmi mai? Siete anche sleale?»

«Ma non mi accompagnereste?»

«Vedete quel fiume che scorre vicino Lucca?» esclamò Beatrice. «M’immagino che scorre per le stesse rive da più di mille anni, e lui le abbandonerà prima che io lasci questa città. Vedete il cipresso che svetta in alto sugli alberi vicini nel giardino di quel convento, io sono radicata al terreno come lui. Non lascerò questo posto se non con la forza e poi morirò.»

Beatrice disse questo nel modo più convulso e seguì un tale abbattimento e sintomi di febbre, che Eutanasia non osò più parlare di spostarsi a Firenze. E sopportava di più la sua permanenza a Lucca, perché i suoi sensi erano così del tutto assorti nella pietà e nell’amore per Beatrice, che le idee dolorose sviluppate in tanti anni sembravano snidate da un potere nuovo e più forte. Era così poco egoista da poter facilmente dimenticare i propri dolori, pur profondi, nella sua simpatia per la sventurata profetessa, che aveva patito dei mali tremendi e irrimediabili.

Castruccio spesso mandava qualcuno ad informarsi della salute di questa povera ragazza ed Eutanasia rispondeva alle sue domande con precisione. Faceva questo perché pensava che forse il destino futuro di Beatrice era nelle sue mani, e lui avrebbe potuto innestare la vita e persino la felicità in questa pianta appassita.

Un giorno Beatrice uscì. Era la prima volta che lasciava il palazzo e Eutanasia era preoccupata ed ansiosa. Dopo un’assenza di qualche ora tornò. Era vestita con un grande mantello che la camuffava del tutto. Se lo tolse e tremando, rossa ed ansimante, si gettò nelle braccia della sua protettrice.

«L’ho visto! L’ho visto!»

«Calmatevi, povero uccellino. L’avete visto: bene, è cambiato, molto. Perché piangete?»

«Sì, è cambiato, ma è più bello che mai. Oh, Eutanasia, com’è radioso, com’è divino! I suoi occhi, come quelli dell’aquila, potrebbero oscurare il sole, pur uniti al più dolce amore, come una nube, splendenti, eppure dolci; la fronte, virile ed ampia, su cui cadono i suoi capelli corvini; le sue labbra rivoltate dove risiedono orgoglio, gioia, amore, saggezza e trionfo, piccoli spiriti, pronti ad obbedire al suo più piccolo volere; e la sua testa, cinta da un diadema leggero, pare scolpita dalla più intensa conoscenza della bellezza! Com’è aggraziato il suo più lieve movimento! E la sua voce… la sua voce è qui…»

Beatrice mise la mano sul cuore, gli occhi erano pieni di lacrime e tutta l’espressione del suo volto era ammorbidita ed resa umana. All’improvvisò si fermò, s’asciugò gli occhi e, fissando Eutanasia, le prese le mani e la guardò, come se stesse leggendo la sua anima. «Bella creatura», disse, «una volta lui mi disse che vi amava. Non è vero? Perché siete separati? Non lo amate?»

«Sì, una volta lo amavo veramente, ma lui s’è disfatto di quello che era il mio amore e, come un fiore strappato dal gambo, il mo amore si è seccato… come vedete.»

«Sì, è strano. Di cosa s’è disfatto?»

«Perché volete farmi parlare? S’è disfatto dell’umanità, dell’onestà, dei sentimenti d’onore, tutto ciò che apprezzo.»

«Forme, forme… soltanto forme, mia illusa Eutanasia. Lui è rimasto, e non era tutto? Come vorrei che il mio amante si disfacesse di tutta l’umanità, e fosse un reprobo e un emarginato della sua specie. Oh! Allora come lo amerei profondamente e teneramente; insozzato dai crimini, con le mani lorde di sangue, io lo riparerei come l’alberello in fiore s’insedia nella rovina; lo ricoprirei con un velo pulitissimo… l’intensità del mio amore annienterebbe la sua malvagità… tutti lo odierebbero… ma se tutti lo adorassero, non si accosterebbe alla somma dei miei singoli affetti. Sarei tutto per lui, vita e speranza; morirebbe nel suo rimorso, ma vivrebbe ancora e ancora nella luce del mio amore; lo investirei come una nebbia argentea tanto che nessuno vedrebbe quanto sia malvagio; farei sgorgare davanti a lui sorsate immense d’amore da farlo ubriacare fino a farlo diventare buono e gentile. E così voi avete abbandonato questo essere glorioso, e lui ha sentito le fitte dell’affetto non ricambiato, le prese impotenti dell’amore gettate come acqua sulla sabbia del deserto? Oh, davvero io ho pietà di lui!»

«Credetemi», esclamò Eutanasia, «Lui ha altri affetti. La gloria e la conquista sono le sue padrone, e lui è un amante affermato; ha già sommerso le nostre valli di sangue e reso le nostre abitazioni una rovina nera ed informe; ha tirato giù le insegne dei fiorentini e piantato le sue sulle torri di nobili città. Io credo che lui sia felice.»

«Grazie a Dio per questo. Io verserei il mio sangue, goccia a goccia, per renderlo felice. Ma lui non è sposato e voi l’avete abbandonato. Io lo amo. Lui mi ha amato. È impossibile? Oh! sciocca, odiosa disgraziata che sono, che dico? Nessuna creatura è mai stata così totalmente rovinata!»

Beatrice si coprì il volto con le mani, i suoi sforzi furono violenti. Si sciolse dall’abbraccio consolatorio d’Eutanasia e alla fine, sopraffatta, cadde in convulsioni sul pavimento. Il suo accesso fu lungo e spaventoso, avvenne dopo un pesante sonno letargico, durante la prima parte del quale lei aveva la febbre ed era agitata; ma dopo qualche ora le sue guance impallidirono, il battito rallentò e il suo respiro tornò regolare.

Eutanasia vegliava su di lei: quando vedeva che stava dormendo in pace e profondamente, si ritirava e sedeva un po’ più lontano cercando di riflettere sulle amare sensazioni che l’avevano oppressa sin dal mattino. Eutanasia si analizzava a tal punto che non c’era mai una notte che trascorresse senza richiamare le sensazioni e le azioni del giorno trascorso. Lei cercava solo di essere giusta con se stessa e la sua anima da tempo era stata così abituata a questa disciplina, che facilmente le apriva i suoi segreti più cari. La disgrazia non aveva offuscato il suo senso del bene e del male, la sua comprensione era ancora chiara, anche se tinta dallo stesso nobile entusiasmo ch’era sempre stato la sua caratteristica. Adesso interrogava la sua anima per sapere quali fossero i sentimenti rimasti per Castruccio. Sapeva appena se lo odiava o l’amava. Odiare! Poteva odiare una persona per la quale un tempo aveva concesso tutti i suoi pensieri, come il tribunale del suo Dio, che aveva amato come qualcuno che lei voleva unito a sé per sempre? E poteva amare una persona che l’aveva ingannata nelle sue più care speranze, che l’aveva cullata sull’orlo di un precipizio per sprofondarla con la più grande forza nell’eterna infelicità? Lei non provava odio, né vendetta, né il più freddo disprezzo possibile. Provava solo dolore e quel senso era profondamente inciso nella sua anima.



[1] Dante, Inferno, Canto III, v. 9.



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