Mary Shelley (1797-1851)
VALPERGA
o
La vita e le avventure di Castruccio, Principe di Lucca
Traduzione integrale di Marco Vignolo Gargini dall’originale in inglese Valperga; or the Life and Adventures of Castruccio, Prince of Lucca
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Eutanasia a Lucca.
La campana del castello rintoccò l’Ave Maria per l’ultima volta rispondendo ai campanili dei vari conventi giù nella valle. «È la mia campana a morto!» esclamò Eutanasia. All’inizio pensò che nel lasciare per sempre la dimora dei suoi antenati le avrebbe fatto piacere agghindarsi in abiti funebri, ma poi la sua semplicità d’animo le fece evitare spontaneamente tutto ciò che aveva l’apparenza dell’affettazione, così si coprì la testa con un velo, indossò il suo mantello e tornò nella camera di Lauretta per preparare il trasloco. Castiglione mandò qualcuno là per chiedere d’essere ammesso e quando giunse provò soggezione per il portamento d’Eutanasia, che lo accolse con una lieve sfumatura d’orgoglio mista alla sua consueta dignità, che l’avversità naturalmente favoriva. Castiglione annunciò ch’era arrivata la scorta che le avrebbe condotte a Lucca. Eutanasia chinò la testa per assentire e, aiutando Lauretta, con passo fermo lasciò per l’ultima volta il castello dei suoi avi. Sorresse l’amica con una mano e con l’altra sistemò il velo sul volto, in modo che gli occhi curiosi e indiscreti non potessero vedere nella sua espressione il dolore che provava. Pensò: «La mia pena è mia. È il solo tesoro che mi rimane e lo serberò dallo sguardo e conoscenza degli altri più gelosamente di un povero con il suo oro.»
Attraversò decisa il salone, nel luogo della sua più pura felicità. I suoi piedi infantili avevano saltellato su quel pavimento con allegria non rimpoverata e per un attimo pensò di vedere la figura venerabile del padre seduta al suo solito posto. Ma allontanò con fierezza quell’emozione attenuata e guardò con occhio asciutto la terra attorno alla quale si trovavano i soldati nemici, che profanavano la sua sacralità con la loro presenza. Il cortile interno era pieno di donne e bambini, le donne dei contadini suoi dipendenti, che, appena la videro, gridarono di dolore. Cominciò a parlare con una voce soffocata: «Non avrei potuto fare a meno di questo?»
«Impossibile», ribatté Castiglione che aveva sentito per caso, «niente se non la forza brutale avrebbe potuto trattenerli.»
«Basta», disse Eutanasia, «Sono soddisfatta».
Le donne le si fecero intorno baciandole le mani, i vestiti e inginocchiandosi con tutti i gesti sanguigni degli italiani. Si strappavano i capelli, invocavano il cielo di salvare, benedire la loro padrona e di vendicare i torti ricevuti. «Dio vi benedica, brava gente!» esclamò la contessa, «possiate non ricordare mai la mia sconfitta per una disgrazia che ricadrebbe su di voi!»
E, liberandosi dalla loro morsa, proseguì scortata dai loro pianti e lamenti. Attraversò il ponte levatoio sorvegliato dai soldati. Prima di toccare la sponda opposta, Eutanasia si fermò un momento: le sembrò che tutto era per sempre perduto una volta passata la barriera che questo ponte aveva posto tra la sua vita passata e quella futura. Si voltò ancora a guardare il castello e vide la finestra del suo appartamento, che s’aspettava di trovare vuoto, mentre era pieno di soldati che da lì stavano assistendo alla sua partenza. Tirò un profondo sospiro e poi con passo spedito scese giù dal monte.
L’affliggeva l’idea che questo sentiero fosse stato il luogo della battaglia del mattino e non osava guardarsi intorno per timore di scorgere qualche vittima senza vita nella boscaglia o tra le rocce sul ciglio della strada: e così poteva essere facilmente poiché, avendo ordinato Castiglione di liberare la strada dei cadaveri, molti erano stati gettati in fretta giù dai pendii o nel sottobosco e, mentre passavano, l’avvoltoio sbucava dall’erba, intimorito dalla sua preda, e diceva molto chiaramente che si sarebbe cibato delle membra che la mattina stessa erano vive. Il sentiero su cui Eutanasia camminava era scivoloso per il sangue e le sembrò di attraversare uno dei cerchi delle anime dannate [1], finché raggiunse i piedi della rocca.
Lauretta fu messa in una lettiga. Eutanasia montò sul suo cavallo. Si prepararono a partire, ma le donne ripresero ad urlare e a gettarsi sul cavallo, trattenendo le redini e giurando che lei non le avrebbe abbandonate. «Dio vi benedica!» gridò la povera contessa che, pur addolorata, riusciva a simpatizzare con questa brava gente. «Ma ora andate. Potreste avere dei problemi con il nuovo padrone e non potete farmi del bene.»
I soldati intervennero e aprirono la strada davanti a Eutanasia. Lei sbrigliò il cavallo e partì a tutta velocità allontanandosi dalle urla che la sua gente lanciava nel vedere che lei la stava abbandonando. Aveva superato il resto della sua compagnia e, da sola, si fermò per attenderla. Guardò in alto il castello, ormai non più suo. Poche lacrime scesero, subito asciugate, e, vedendo arrivare la sua scorta, voltò il cavallo e senza una parola proseguì lentamente il suo viaggio verso Lucca.
Le porte della città erano chiuse, ma a un cenno della sua scorta furono spalancate e lei entrò nelle strade buie e strette di Lucca. «La mia prigione!» pensò Eutanasia. Qui la compagnia si divise: Lauretta, su sua richiesta, fu portata alla casa della madre di Leodino e Eutanasia venne condotta al palazzo che l’avrebbe accolta. Non badò alle strade in cui era passata, si preoccupò poco se l’avevano scortata a un palazzo o a una prigione, tuttavia durante l’ultima parte del suo viaggio le forze l’abbandonarono talmente che a malapena riuscì a stare in sella, ma cavalcava come una statua velata di disperazione.
Eutanasia fu condotta nella sua camera, giunsero gli attendenti ma lei li allontanò tutti e, con la mente confusa, lo spirito e la forza del tutto deboli dalle lunghe veglie delle notti precedenti e dagli eventi emozionanti del giorno, si gettò sul letto vestita così com’era e, assistita dalla sua natura benevola, cadde istantaneamente in un sonno profondo e senza sogni.
Era già giorno fatto prima che lei si svegliasse e vedesse la luce con una sensazione, come se il lieve ristoro dello spirito e la forza che aveva ricevuto non fossero che una beffa per il triste peso che opprimeva il suo cuore. Alzò la testa pesante, come una ninfea la cui corolla rigurgita dell’acqua del temporale: però, richiamando le sue facoltà disperse, sedette per un po’ a meditare profondamente, cercando di filosofare sulla sua infelicità. Il palazzo in cui era stata portata era grande e sontuoso, vicino alla periferia della città: era di una vittima della tirannide di Castruccio e aveva l’aspetto desolato e penoso di una villa che aveva perduto il suo padrone. Dalla camera dov’era guardò il giardino: un quadrato circondato da quattro muri alti, che era stato coltivato secondo il gusto italiano, ma che ora era trascurato. Le piccole aiuole erano infestate dall’erbacce che crescevano intatte anche nei vialetti; le basi in pietra delle piante dei limoni erano verdi dal muschio e i licheni, e qua e là il seme portato dal vento di qualche pianta delicata era diventato un bel fiore tra l’umidità e ai grossi ciuffi d’erba che a stento potevano reggere la sua compagnia. Pochi cipressi e altri alberi, che erano stati potati, adesso si facevano beffe del giardiniere con una ricrescita di tre anni, e l’edera oscurava i muri accanto agli aranci, i cui frutti dorati brillavano in mezzo al fogliame scuro. Poche lucertole sbucavano da sotto i sassi per stendersi sotto i raggi del sole autunnale e le rane gracidavano in un bacino o cisterna, che una volta era una fontana, adesso piena d’erbacce e sporcizia. Questa fu la desolazione che arrestò gli occhi d’Eutanasia davanti alla finestra. «L’immagine della mia sorte», pensò e distorse lo sguardo, mentre una lacrima scendeva giù.
La serva entrò e, mentre Eutanasia si vestiva, narrò la catastrofe dell’assedio. Quando i soldati di Castruccio erano apparsi dietro le sue guardie, venendo giù dal castello, si gettarono all’inizio su quelli che piantonavano il ponte e presero Bondelmonti e soprattutto i fiorentini: ma i servi della contessa, infuriati ed esaltati dalle promesse di successo di Bindo, uscirono dai loro nascondigli e caricarono quelli che erano ai piedi della rocca, spingendoli con disperato coraggio giù per il sentiero del monte, incuranti dei nemici che premevano dietro. La battaglia fu cruenta, molti d’ambo gli schieramenti caddero, il plotoncino di Valperga fu distrutto, caduto volontariamente per salvare la padrona. Pochi furono catturati e tra questi Bindo, che quasi miracolosamente ero fuggito illeso. Ma, seppur non ferito nel corpo, la sua mente per poco non impazzì di rabbia e disappunto quando vide la bandiera sventolare sul torrione del castello. Cercò di liberarsi da chi lo tratteneva e, nonostante le apparenze, lottò con una tale forza, con le mani, i piedi, i denti, che i soldati furono costretti a legarlo. Una volta assicurate le corde, Castiglione venne: si ricordava dell’albino e, chiedendo perché fosse stato trattato così duramente, ordinò di liberarlo. Sciolto, senza parlare o guardare, schizzò via e, attraversando a tutta velocità la campagna come un cervo che scappa dai cani, fu presto lontano dalla vista.
Eutanasia pianse a sentire del sangue sparso per lei e il rimorso, che è sempre pronto a pungere con il suo aculeo, se trova che la coscienza ha un punto debole, la tormentava perché lei non s’era arresa prima che una sola vita umana perisse in una causa così sventurata. «Non è dal male che può venire il bene », pensò. «Non sono queste le parole del Maestro? Ho peccato infinitamente nel versare quel sangue cui ogni singola goccia era più importante dei gioielli della corona regale. Ma il mio male ha prodotto il suo giusto frutto. La morte è la sua radice, e produce veleno.»
Nel corso del giorno, Arrigo Guinigi venne a visitarla. Aveva un messaggio di Castruccio, che la invitava a restare tranquilla nel palazzo messo a sua disposizione fino al suo ritorno a Lucca, tra pochi giorni, quando avrebbe saputo dalle sue labbra i desideri sulla sua vita futura. Arrigo riferì tutto a testa bassa e ansimando, avendo quasi paura di parlare e di alzare gli occhi sulla contessa, la quale rispose che avrebbe obbedito e preferito non vedere il principe, ma se così ordinava era pronta a cedere. «Vedete in me, mio caro Arrigo, una prigioniera privata delle proprietà, una schiava della volontà del vostro signore. Eppure ho fiducia e speranza che questi eventi non abbiano creato il dolore profondo che sento riempire la mia anima, né che gli amari sentimenti d’affetto perduto, attese deluse e totale disperazione, colmino la misura della mia infelicità. Mio buon giovane, siamo nati per soffrire, così ci dicono i nostri sacerdoti, e c’è più verità in quella lezione dell’altra in cui all’inizio della gioventù vogliamo credere. Eppure la forza è la virtù con cui mio padre ha cercato soprattutto di nutrirmi, e non vorrei disonorare i suoi consigli. Ma di certo una freccia velenosa ha trafitto il mio cuore e non riesco ad estrarla.»
Arrigo provò a confortarla. «Il vostro stato è lontano dalla disperazione. Il principe ha promesso e intende mantenere la sua promessa, che i vostri redditi non saranno intaccati dalla perdita del vostro castello. A Firenze sarete circondata da amici e ogni lusso e piacere di vita, e là potrete essere ancora felice.»
Era ormai pieno autunno e vennero le piogge. Gli eserciti fiorentino e lucchese, rimasti sulle rive opposte del fiume a guardarsi, erano adesso ancor più divisi dalle acque straripanti, tanto che si ritirarono nelle loro città e la campagna di guerra di quell’anno terminò. Castruccio tornò a Lucca. La sua prima preoccupazione era avere una lungo e privato colloquio con Castiglione, e subito dopo inviò Arrigo a preparare Eutanasia per un incontro.
Povera ragazza! Il suo cuore batteva e il sangue saliva sulle sue guance pallide quando sentì che stava per vedere chi aveva amato e alla cui memoria, come di ciò che fu, si reggeva con saldo affetto. Era per lei una crudeltà guardare quella figura, gradevole nei giorni più belli, e il suo volto che, a parte l’orgoglio prevalente nella sua espressione, era di una bellezza gloriosa quando spandeva amore su di lei. E soprattutto, sentire la sua voce adesso estranea, le cui dolci e soffuse cadenze un tempo avevano avvolto la sua anima nell’Elisio. L’indignazione però si mischiava con questi sentimenti e le consentì di sopportare la prova imminente con il più grande coraggio, così, richiamando tutto l’orgoglio che la sua delicatezza poteva offrirle e tutta la forza insegnatale dalla sua filosofia, aspettò con pazienza il momento atteso.
Sedeva su di un basso sofà, vestita di scuro, l’abito di seta purpurea allacciato alla vita da un laccio, che ricadeva in larghe pieghe ai suoi piedi, un mantello nero sulle spalle, e i capelli d’oro, in parte raccolti sul collo e in parte stretti da un nastro, che coprivano con i ricci la sua bella fronte. Quando udì i passi di Castruccio impallidì, le labbra sbiancarono e gli occhi seri, privi del loro fulgore, avevano il blu intenso della mezzanotte senza stelle. Lui entrò. Quando la vide l’ultima volta era stato superbo e imperioso, ma ora i suoi modi erano del tutto sommessi, gentili e umili, tanto che, quando parlò, al posto dell’alta nobiltà del suo spirito, gli occhi di lei erano colmi di lacrime non versate.
«Contessa», disse Castruccio, «perdonatemi se la mia intrusione sembra ingenerosa, però persone che, come me, sono prese dagli affari di governo, tendono a lasciar troppo ai subalterni, che mai fanno o dicono ciò che è proprio giusto dire o fare. La vostra pace futura m’è troppo cara per non sentire solo da voi quelli che sono i vostri desideri e le vostre attese.»
Si fermò nell’attesa di una risposta e fissò i suoi occhi dolci e intensi, gli sembrò di leggerle l’anima, mentre un sorriso delicato di compassione ed amore si aprì sulle labbra. Raccolti i suoi pensieri, lei sollevò lo sguardo per rispondergli e incontrò gli occhi del suo antico amante, la cui espressione pareva carica di tutto l’affetto che un tempo le aveva giurato. Lei era incapace di parlare, ma poi, arrabbiata per la sua debolezza, si riprese e rispose: «Ho solo un favore da chiedere, d’essere trasferita istantaneamente con il vostro permesso a Firenze.»
«I vostri desideri, Madonna, sono comandi, anche se avrei desiderato che il vostro desiderio fosse di restare un po’ a Lucca. So che idea vi siete fatta di me. Mi vedete come una bestia selvaggia assetata di sangue, un mostro senza legge, privo di tutti i sentimenti umani. Avrei desiderato che voi restaste un po’ per vedervi ammettere il vostro errore; vorrei che restaste finché il profondo rispetto e, se mi passate la parola, l’amore che provo per voi non facessero un impressione tale sul vostro cuore da permettermi di lenire quei dispiaceri dei quali io purtroppo sono stato la causa.»
«Mio signore, non parlatemi così», replicò Eutanasia, con una voce all’inizio tremante ma poi ferma, «Noi siamo divisi, c’è una eterna barriera tra noi adesso, sigillata dal sangue di quella povera gente che è morta per me. Non posso, non debbo amarvi e, se si facesse sentire una debolezza assai frivola e riprovevole, i fantasmi delle vittime s’alzerebbero per dividerci. Mio signore, non riesco a ragionare con voi, a malapena posso parlarvi; il sangue dei massacrati, le lacrime dei sopravvissuti, le rovine del mio castello, sono tutte risposte più forti delle parole alle vostre attuali offerte. Se questi sono stati i vostri atti di corteggiamento, perdonatemi se dico che avrei preferito cercare di convincere un leone nella sua tana a sposarmi, che diventare la sposa di un conquistatore. Ma questi sono cavilli inutili, dolorosi per entrambi, che svegliano in me l’indignazione che vorrei reprimere e potrebbero accendere un risentimento in voi che è già troppo portato ad infiammarsi. Siete venuto, avete detto, per conoscere i miei desideri. Adesso li sapete. Dividiamoci con quella pace che ogni credente cristiano augura al fratello. Vi perdono dal più profondo del cuore. Non odiatemi. E così, addio.»
«Mi perdonate, Eutanasia? La vostra anima è così pura? Io, che vi ho davvero colpito in modo terribile e i miei atti, per quanto necessari, sono stati comunque rovinosi per voi. Ma se mi perdonate realmente e partite in cristiana amicizia, permettetemi una volta ancora di prendere la vostra mano, e so che non è solo un modo di dire ma l’espressione di un sentimento.»
Eutanasia porse la mano che lui prese e così tenendola disse: «Ascoltatemi, mia amata ragazza, voi che siete l’unica nel mondo che ho amato. Disprezzatemi, respingetemi e quasi odiatemi, eppure, Dio sa, io vi ho ancora a cuore teneramente, come quando parlammo d’amore la prima volta in quel triste castello. Non vi chiedo di amarmi, non potete… ma siete ancora giovane, molto giovane, Eutanasia, e la fortuna ha ancora molti mutamenti in serbo per voi. Ricordate che, tra tutti, io sono vostro amico e se mai in qualsiasi disgrazia vorrete un protettore, uno che vi salvi e vi protegga, Castruccio, l’abbandonato, l’erroneo, ma il fedelissimo Castruccio sarà sempre pronto ad usare il suo braccio e il suo potere per voi. Ora, Eutanasia, addio.»
«Oh Dio!» la sventurata cacciò un urlo dal più profondo del cuore, «non potevate risparmiarmi questo? Lasciatemi. Addio per sempre!»
Le baciò la mano e la lasciò, mentre lei e la sua delicata struttura sotto il peso delle tante emozioni provate sprofondò esanime nel letto. Aveva sofferto molto e sopportato tutto, però quest’ultimo dialogo la distrusse: la sua salute, messa a dura prova dalla veglia, dall’agitazione e dalle lacrime, ora cedette del tutto. Seguì una febbre, il delirio e una totale perdita di forze. La malattia sembrava intaccarla fino in fondo e la morte era già sulle sue guance. Ma la giovinezza e la sua costituzione, sostenuta e corroborata in montagna, e gli esercizi salutari del corpo e della mente, la salvarono. Dopo un confino di parecchi mesi, uscì fuori per vedere il sole del sorriso primaverile che salutava ridendo con i suoi raggi miti.
In questo momento dov’era la profetessa di Ferrara?
[1] N.d.a. Vedi Dante.