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“Valperga”– Mary Shelley XXVII

Creato il 12 marzo 2012 da Marvigar4

strega magnasco

Mary Shelley (1797-1851)

VALPERGA

o

La vita e le avventure di Castruccio, Principe di Lucca

Traduzione integrale di Marco Vignolo Gargini dall’originale in inglese Valperga; or the Life and Adventures of Castruccio, Prince of Lucca

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La strega della Foresta.

Quando Bindo fu liberato dai soldati lucchesi per ordine di Castiglione, scappò per i campi e, terrorizzato e disperato per tutte le sue predizioni, si precipitò dall’unico essere umano al quale aveva sempre comunicato i suoi veri sentimenti, o nel quale aveva riposto ogni fiducia.

A nord di Lucca, dove le montagne svettano e il paesaggio è più selvaggio, c’era, all’epoca in cui vivevano quelle persone, un immenso lecceto che ricopriva gli Appennini e alla distanza si perdeva a vista tra le pieghe e i declivi dei colli. Dentro questa foresta viveva una strega, in un tugurio di legno e pietra, in parte chiuso da un lato dalla montagna su cui poggiava. Questa capanna era vecchissima, il pezzo costruito in pietra era pieno di muschio, licheni e violacciocche, la cui bellezza e il profumo sembravano estranei al grigiore intorno; ma, tra la desolazione e l’orrore, la Natura ama piazzare il bello e l’eccelso, per far sì che l’uomo, vedendo la scena, non possa dimenticare che lei, la Madre, dimora dappertutto. Gli alberi erano coperti d’edera, molti cavi e in decadenza, mentre vicino spuntavano nuovi germogli e rinfrescavano la vista con un aspetto di giovinezza. Su una pietra nei pressi della porta sedeva la strega. Era molto anziana, nessuno sapeva quanto: gli uomini, quasi decrepiti, ricordavano di quando da bambini avevano paura di lei e tutti erano d’accordo sul fatto che un tempo sembrava più vecchia e cadente di adesso. Era quasi piegata in due, non aveva carne sulle ossa, la pelle rugosa e scura le ricopriva le guance e le braccia. Era corta, secca, i capelli del tutto bianchi, e i suoi occhi rossi, l’unica parte che pareva aver vita, scintillavano nelle loro orbite vuote, la voce era incrinata e stridula.

«Bene, figlio», disse quando vide arrivare Bindo, «Che novità? Si sono realizzate le tue o le mie predizioni?»

Bindo si buttò per terra e si strappò i capelli violentemente, ma non rispose.

«Non crederesti alle mie parole», continuò con un riso malizioso, «ma le stelle non sono più ligie al loro corso di quanto lo sia io al fato; domani non una pietra del castello di Valperga poggerà sull’altra.»

«Non deve essere», urlò Bindo alzandosi furiosamente, «non può essere! Non sei una strega? E se hai venduto l’anima al diavolo, non obbedirà al tuo volere?»

«Ho venduto la mia anima al diavolo!» rispose a tono, quasi urlando. «Ti dico, sei stato felice, se la tua anima fu sicura d’esser salvata come la mia. Io domino gli spiriti e non li servo. Cosa possono fare gli angeli di più? Ma una cosa non posso: non posso fermare la stella di Castruccio: deve sorgere.»

«Sì, sei proprio così… puoi azzoppare il bestiame, strangolare il pollame, e mungere le vacche; ma, quando ti è richiesto il potere, sei debole come questa paglia. Vieni, se sei una strega, e agisci.»

«Che cosa dovrei fare? Non posso riempire di nubi il cielo. Posso evocare fulmini e pioggia dal blu empireo, il Serchio mi obbedirà, i venti del nord e del sud conoscono la mia voce, le miniere sono a me soggette. Posso richiamare i morti dalle loro tombe e ordinare agli spiriti dell’aria d’obbedirmi. Le fortune umane sono note a me, ma l’uomo non può essere dominato se non acconsente ad obbedire. Castruccio è al di sopra degli uomini, la sua stella è la più alta nel cielo e l’aspetto del firmamento lo favorisce. Non posso far nulla con lui.»

«Allora addio e che le maledizioni dell’inferno ti si aggrappino addosso e ti rovinino! Non voglio trucchi da prestigiatore… ma che si faccia per me ciò che il diavolo non può fare.»

«Resta, figlio», gridò la strega, «ora hai detto bene; ora sei ragionevole. Anche se la stella di Castruccio è alta, alla fine precipiterà, esploderà e cadrà come un ramoscello per terra. Dovremo accelerare questo momento, ti aiuterò, e questo sarà il tuo compito: osservare ogni avvenimento e riferirmi tutto; che nessun atto o parola ti sfugga e allora accadrà qualcosa che io posso collegare al mio scopo. Abbiamo entrambi giurato di portare il principe di Lucca alla morte. Adesso non c’è modo, ma qualcosa avverrà e trionferemo. Tieni a mente una cosa: che non sia la tua padrona a partire. Io so che vuole andare a Firenze. Deve restare a Lucca, finché non si compi il momento previsto. Il tuo compito è di trattenerla.»

«Io non amo queste mezze misure», rispose crucciato l’albino, «e, mi pare che le sue immagini di cera nel fuoco, o il suo cuore trafitto da spilli, potrebbero liberare la terra di lui; di sicuro se le maledizioni potessero uccidere un uomo, lui sarebbe morto; dimmi, in verità, non è un diavolo? Non è uno di quei spiriti incarnati delle case infestate da spettri per tormentarci?»

«Non cercare di indagare sui misteri della nostra arte. Tu esprimi i tuoi desideri, io ne ordino l’esecuzione… obbedisci… non puoi fare di più. Quando la morte con la falce è in campo, poche piante sono tanto forti da schivare la sua mannaia: Castruccio è una di queste poche piante e solo la pazienza e la prudenza possono determinare la sua caduta. Controlla tutto, riferiscimi tutto e fa’ in modo che la contessa non lasci Lucca; il nostro potere se ne va se è lei ad andarsene.»

Questo fu ciò la scena che seguì immediatamente dopo la distruzione del castello di Valperga. Bindo fin qui aveva amato la padrona con un affetto la cui energia non era mai stata attiva. Lui l’amava, come la leonessa nel deserto ama i cuccioli, che nutre giorno dopo giorno nella pace, ma, aizzata dai cacciatori, li difende fino all’ultima goccia del suo sangue. L’amava, come tutti noi, senza sapere quanto, finché gli eventi risvegliano il nostro amore nell’esprimere la sua energia. Bildo di rado aveva pensato a Castruccio. Quando lui era spesso a Valperga e vedeva la sua padrona felice, anche lui era felice e lo rimpiangeva pochissimo nel corso delle giornate per deplorarlo se non veniva più: però, quando Castruccio cercò d’offendere la sola persona che Bildo amava e riveriva, allora una molla nascosta scattò nella mente dell’albino e l’odio, finora sconosciuto, sprizzava e riempiva il cuore, mischiando la bile con l’amore, diventando il primo sentimento, il principale movente nella sua anima.

Aveva frequentato molto questa strega. S’accorgeva dei propri difetti nell’abilità fisica, forse anche della debolezza della ragione, così cercò i poteri dell’arte superiori alla forza e alla mente, che possono sopraffare la forza e la mente e che furono negati alla maggioranza dell’umanità. Bindo era un soggetto adattissimo per la strega. Lei lo gabbava facilmente e, grazie a lui, diffondeva la fama dei suoi incanti. Cosa porta queste donne a fingere poteri che non hanno, ad affrontare i più grandi pericoli per essere creduti in ciò che non sono, senza alcun vantaggio apparente che derivi da questa credenza? Forse la risposta è nei nostri cuori: l’amore del potere è nella natura umana e negli animi malvagi essere temuti è una sorta di potere. La strega della foresta lucchese era molto temuta e nessuno più di Bindo aveva contribuito a diffondere questa fama.

A lei non importava affatto difendere Eutanasia o eliminare Castruccio, ma doveva fingere per conservare il suo potere sull’albino. Aveva anche deciso di non far nulla che potesse attirare l’odio del principe, perché sapeva bene che lui era un uomo eccezionale, che andava dal popolo a recitare il rosario come la chiesa gli insegnava, che non avrebbe esitato ad affidarsi a ciò che lui avrebbe chiamato una pena adeguata, tutto quanto ha a che fare con gli spiriti del male, droghe infernali e poteri diabolici.

Bindo non capiva niente dei motivi che animavano la strega e credeva davvero che la stella di Castruccio avesse l’ascendente, così, dopo che i primi bollori di disperazione si calmarono, attese, con la pazienza dell’odio nutrito, gli eventi riferiti a lui dalla strega che nel corso del tempo avrebbero avuto l’effetto da lui tanto desiderato.

Aveva fatto dei calcoli, tirato a sorte sul destino di Valperga e i risultati erano contrari alle predizioni della strega. Queste s’erano rivelate false e, quando il tempo ebbe placato i suoi sentimenti, questa delusione lo fece aggrappare più facilmente alle lontane, e come sperava, più sicure promesse della strega, e costruito sulle sue parole l’attesa certa del rovescio di Castruccio e la restaurazione di Valperga in uno splendore maggiore rispetto all’originale. Tornò da Eutanasia e vegliò su di lei malata, come la madre di una nidiata si prende cura del figlio agonizzante; il terrore di perderla per questa malattia lo esasperò contro l’uomo che credeva essere la causa del misfatto e con la forza della sua paura lo riempiva di quella calma che è il coronamento dell’infelicità. Neanche lui mangiava e dormiva, la sua esistenza sembrava un miracolo. La sua padrona si riprese e la condizione indebolita di Bindo adesso era molto più scossa dalla gioia, come prima dal dolore; ciò nonostante, pallido, emaciato, tremante come in punto di morte, ma ancora vivo, sopravvisse a questi cambiamenti.

L’estate avanzava e Eutanasia era ancora a Lucca. Una serie di piccole circostanze erano la causa: la sua salute ancora malferma e il pallore delle guance e gli occhi spenti davano l’idea che la sua condizione fosse a malapena ristabilita; furono oppressi da una stagione particolarmente calda e si giudicò non opportuno esporla alla canicola dell’estate fiorentina. Anche Lauretta, la cugina, promise di accompagnarla se ritardava il viaggio in autunno, così acconsentì a restare, anche se per lei Lucca era come una prigione angusta e nutriva la speranza di trovare la salute e qualche lieve felicità a Firenze. Il suo stato attuale d’abbattimento era una delle ragioni per cui non intendeva cambiare; in lei cresceva un’indolenza che amava nutrirsi di vecchie preoccupazioni piuttosto che di nuove speranze. Un senso di dovere, più di tutto, le faceva augurare di partire, credeva che a lei fosse dovuto ristabilirsi da una specie di morte morale che sopportava e cominciare una vita nuova con nuove attese. Ma noi tutti siamo creature abitudinarie tali da preferire d’aggrapparci ai dolori che sono stati nostri vecchi compagni piuttosto che ai piaceri nuovi, i cui nomi ci sono forse sconosciuti.

Eutanasia amava sedere nel giardino desolato del palazzo e moraleggiare alla vista di una tenera rosa circondata e soffocata dalla malerba che le cresceva intorno; o talvolta visitare la torre del palazzo e guardare la rocca dove un tempo c’era il castello di Valperga, adesso un cumulo di rovine. Poteva sopportare di vedere la massa informe che prima era stata il suo rifugio e la sua casa? Dove stava il salone dove era diventata donna e dove aveva provato tutte le gioie che la sua immaginazione e il cuore (scrigno d’un tesoro immenso) potevano elargire? Tutto era finito e lei doveva iniziare daccapo: pregava lo spirito del padre di ispirarle coraggio, ma la sua mente era troppo acuta e delicata nel suo sentire da dimenticare gli antichi affetti. Vi sono anime brillanti e preziose che, come l’oro e l’argento, possono essere placate dagli stravolgimenti e darsi una nuova forma, ma altre, pure e solide come il diamante, che possono sbriciolarsi e in ogni frammento conservare comunque le loro caratteristiche indelebili.

«Non posso cambiare mai», pensava, «mai diventare un’altra. Eppure mi dico che questa sofferenza ostinata è una debolezza e che la saggezza e il bene, come le piante forti, rispuntano con un vigore nuovo anche se tagliate fino alla radice. Sarà così e forse anche con me: però io sento che tutto è morto, eccetto il dolore, e questo sarà in me per sempre. Ahimè! La vita e il poco che contiene non vale la desolazione che sopporto: le sue gioie migliori sono ombre, i dolori dovrebbero essere lo stesso; e questi sono i veri filosofi, che schiacciano entrambi e cercano nella tomba la saggezza e la felicità che la vita non può darci.

Perché sono nata per soffrire? Perché non muoio cosi che il dolore spiri con me? E anche adesso parlo come un tronfio cavilloso, che non legge le lezioni dei saggi e che sbaglia vanamente e fraintende i loro migliori esempi. La vita ha più di quello che pensiamo, è tutto ciò che abbiamo e conosciamo.

La vita è tutta la nostra conoscenza e la gloria più alta è aver vissuto bene. Se non avessimo mai vissuto, non sapremmo niente della terra, del cielo, di Dio, dell’uomo, del piacere o dispiacere. Quando il Creatore ci ha concesso questo dono, ci ha dato ciò che va oltre ogni preziosa parola, perché senza di esso la nostra apparenza sarebbe stata un atomo cieco nella massa, le nostre anime non sarebbero mai state. Viviamo e impariamo tutto ciò che è bene e vediamo tutto ciò che è bello, la nostra volontà è chiamata all’azione, le nostre menti si espandono come fiori finché, logore, appassiscono. Senza la vita non sapremmo niente di tutto questo e se non viviamo bene, mietiamo solo dolore.

Che sappiamo degli eroi e dei saggi se non che hanno vissuto? Non disprezziamo allora questa somma e sommità del nostro sapere, ma, avendolo a cuore, facciamo sembrare così che noi abbiamo valore e in qualche grado meritiamo il dono della vita e le molte meraviglie che l’accompagnano.»

Eutanasia soffrì molto durante i mesi estivi e tutto ciò che ascoltava di Castruccio trasformò tutte le lacrime in gocce di tormento. Era davvero diventato un tiranno. Non ne ammazzava mille come Ezzelino di Padova, ma aveva ricevuto l’innesto della superbia nella sua anima e adesso portava i frutti. Mise a morte senza rimorso quelli che lui sospettava e li avrebbe anche torturati per scoprire altre vittime o per soddisfare il suo desiderio di vendetta. Parecchi casi del genere capitarono in quell’estate che rese Eutanasia più triste di quanto le parole o le lacrime possano esprimere. Se vedeva i nemici di Castruccio, questi imprecavano contro la sua crudeltà; se vedeva i suoi vecchi amici, loro parlavano pieni d’amaro sarcasmo per la sua ingratitudine e l’indifferente freddezza del cuore. Quel cuore un tempo era stato il giardino della virtù, dove tutte le buone qualità nascevano e fiorivano, come fiori multicolori odorosi e delicati; ma adesso l’ambizione era divenuta il suo giardiniere e il recinto pieno d’erbaccia del palazzo d’Eutanasia non era che un vago simbolo di tutta la crudeltà e il tradimento che là germogliava e non permetteva a nessuna rosa di sbocciare, e nascondeva i gelsomini tra le foglie ruvide e larghe dei vili rovi. Delle volte lei ringraziava la Provvidenza per non esser diventata la moglie di quest’uomo: ma era un amaro ringraziamento. Non si era sposata con lui secondo i riti ecclesiastici, però la sua anima, i suoi pensieri, il suo destino erano stati suoi sposi. Cercò di spezzare la catena che li legava insieme eternamente e sentiva che quello sforzo era inutile: se lui era il male, lei doveva piangere; se il suo egoismo spensierato non gli concedeva intimi rimorsi, l’umiliazione e il dispiacere erano due volte la sua razione e questo era il suo destino per sempre.

Le imprese militari di Castruccio di quell’anno consistevano piuttosto nel disporre con calma le prime pietre, senza ricevere alcuna gloria in particolare. L’esercito fiorentino si ritirò con apprensione davanti a lui, lui conquistò parecchi castelli, strinse molte nuove alleanze e consolidò sempre più il potere che sperava un giorno di affidare ad un alto scopo. Il desiderio di dominio e signoria era l’unica passione che ora dominava la sua anima. Aveva dimenticato Eutanasia o, se la ricordava, la definiva una ragazza stizzosa e non si perdeva a pensare a lei.

L’estate era stata caldissima, i campi e la terra arse dalla lunga siccità. Tutti segni questi di un autunno umido. Eutanasia era molto indecisa sul suo viaggio a Firenze, bloccato dalle piogge tremende e dalle tempeste che sommersero la terra e turbarono il cielo. Il fulmine era diventato come un ramo nelle mani di un guerriero esperto, tanto abile nella sua mira, distruggendo così tanto col suo fuoco sottile: e il tuono, che echeggiava per i colli, mandava al cielo l’urlo che proclamava il trionfo e la desolazione del suo precursore. Poi venne la pioggia e la terra accolse con gioia questi segni dell’amore celeste che la benedivano con la fertilità. I torrenti rombavano giù per i colli e i fiumi, non più stretti nei loro argini, ingrossavano e allagavano la pianura, riempiendo d’acqua perfino le strade di Lucca.

Bindo guardava tutto questo lavorio degli elementi con una mente instabile tra il piacere e la paura. Credeva che la strega della foresta avesse causato quest’inondazione per impedire il viaggio della contessa, ma, così pensando, tremava per il potere in suo possesso e per la strana compagnia di spiriti invisibili che, ignoti ai mortali, interferivano in questo modo con i loro destini. Il diavolo, lui sapeva, si chiamava principe dell’aria, però c’è una grossa differenza tra la nostra fede in una diceria e la prova che adesso riteneva a lui presente. Quando si recò nell’ora misteriosa di mezzanotte ad un torrente in corsa e vide come la strega pronunciava i suoi incantesimi e frustava le acque con la sua bacchetta… un vento impetuoso spirò da sud, le nubi scure con fulmini in mezzo avanzarono sulle loro teste e poi la pioggia a goccioloni rapidi con grandine cadde sulla terra… quando vide questo tremò tutto, il cuore batté veloce dalla paura, non osò farsi il segno della croce o mormorare un pater noster e, se l’amore e l’odio non s’erano del tutto impossessati di lui, non si sarebbe mai azzardato a testimoniare ancora i poteri magici della sua amica.

Un inverno freddo e precoce seguì l’inondazione e ghiacciò l’acqua prima che si ritirasse dai campi. Una stagione così terribile non s’era vista in Italia da tanti anni e, nel lucchese in particolare, procurò una gran perdita d’alberi da frutto e di viti. I monti erano coperti di neve, i torrenti erano bloccati nei loro corsi dalle reti sottili che l’inverno vi gettò sopra; era uno strano spettacolo da vedere per un italiano. «E questo», pensò Eutanasia, «è ciò che intendono i transalpini parlando di terribile freddo invernale. Oh! certo, nessun cacciatore è come lui quando viene giù dal nord, portando con lui la sua sposa, il gelo; caccia le foglie dagli alberi e distrugge gli animali che abitano la terra, pure nelle loro prese e velocità. Aderisce ai fiumi e correnti e persino il secco fogliame dell’oceano [1] e i mostri possenti ed innumerevoli erranti tra i suoi rifiuti, sono tutti soggetti alle sue feroci e irresistibili ingiurie.»

Così pensò nel vedere il paese, così bello prima, la Terra, dolce come una giovane mamma che cura solo la sua creatura, adesso selvaggia e desolata come la madre spietatamente privata del suo bimbo. I campi erano duri per il gelo e l’inondazione giaceva ferma e bianca sulla pianura. I colli erano tutti innevati. Fu un mutamento doloroso rispetto ai sorrisi estivi, ma non durò molto e il disgelo presto invertì la scena. La terra fu di nuovo viva e i fiumi e le piene riempirono ancora l’aria con il loro rumore. Eutanasia decise di aspettare finché la stagione fosse un po’ più avanzata per fare il suo viaggio a lungo rinviato a Firenze.



[1] “The sapless foliage of the ocean” da Ode to the West Wind di Percy Bysshe Shelley, v. 40.



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