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“Valperga”– Mary Shelley XXVIII

Creato il 19 marzo 2012 da Marvigar4

Silence

Mary Shelley (1797-1851)

VALPERGA

o

La vita e le avventure di Castruccio, Principe di Lucca

Traduzione integrale di Marco Vignolo Gargini dall’originale in inglese Valperga; or the Life and Adventures of Castruccio, Prince of Lucca

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Capitolo 28

Beatrice all’Inquisizione a Lucca. Liberata da Castruccio, per intercessione di Eutanasia.

Mentre Eutanasia soggiornava ancora a Lucca in quest’incertezza, ci fu un evento che le fece sospendere i preparativi per il suo viaggio. Una sera tardi (era quasi mezzanotte) venne annunciata la visita di uno straniero, un uomo, dissero, così avvolto nel suo mantello da non distinguere la sua fisionomia. Perché il cuore d’Eutanasia batteva all’impazzata e le labbra sbiancarono? Cosa poteva sperare o temere? L’uomo fu ammesso e un’occhiata bastò per soddisfare la sua curiosità e calmare l’attesa inquieta. Era d’umile estrazione e, quando tirò su il cappuccio, Eutanasia s’accorse che le era del tutto sconosciuto, ma sul suo volto c’era un garbo, una sensibilità rude che le piacque e gentilmente lei gli chiese cosa avesse da dirle.

«Nobile contessa, vengo per un’opera di carità che mi rovinerebbe per sempre se scoperta dai miei superiori. Sono il custode del carcere lucchese e stamani gli inquisitori domenicani hanno posto sotto la mia custodia una donna patara[1], che a vederla avrebbe scosso tutti tranne loro. Mi ha molto commosso con le sue lacrime e le suppliche strazianti: nega la sua eresia e dice che voi potete provare la sua fede. Però deve vedere soprattutto voi e io, a mio rischio e pericolo, vengo per portarvi alla sua cella perché stanotte posso ammettere solo voi. Di sicuro verrete. Poverina, è molto giovane, spaurita e ora se ne sta per terra senza fiato dal terrore e l’attesa.»

«Povera creatura! Vi ha detto il suo nome?»

«Dice che voi non la conoscete, ma vi chiede di ricordare una giovane pellegrina che una volta accoglieste al vostro castello e compatiste; una creatura scottata dal sole, esausta che disse d’essere in viaggio per Roma.»

«Non ricordo, però se è infelice e desidera vedermi questo mi basta. Vi seguo.»

Eutanasia si avvolse nel mantello e seguì l’uomo per le strade buie ed umide di Lucca: il disgelo non era ancora completo, la neve era alta e fangosa sotto i loro piedi e quella accumulata da molti giorni gocciolava, o meglio pioveva dai tetti sulle loro teste: il libeccio soffiava caldo, carico di nubi oscurando la notte tanto da non poter evitare le pozzanghere in mezzo alla via. Alla fine giunsero alla prigione. Il guardiano entrò in una porticina bassa che chiuse con cura dietro di loro e poi accese una torcia. Condusse Eutanasia per le volte spoglie e muffose, aprendo ogni tanto cancelli massicci, tirando catenacci duri che cigolavano per la ruggine e l’umido; a volte sbucavano in un passaggio all’aperto, ma angusto, con alte mura nere intorno da cui cadeva la neve mista con continui e scuri schizzi sul marciapiede: delle piccole grate senza vetri davano su questi stretti passaggi ed erano le aperture che illuminavano le celle. Infine salirono una scaletta mezza rotta di legno e, aprendo una porta in cima e consegnando la torcia alla contessa, il custode disse: «È qui. Confortatela. Fra due ore tornerò per riportarvi indietro.»

Eutanasia entrò nella cella, intimorita e tremante, poiché chi è buono si sente sempre umile di fronte alle disgrazie altrui: la povera prigioniera se ne stava rannicchiata in un canto, guardava di continuo la porta e, vedendo Eutanasia, balzò su e si gettò ai suoi piedi, cingendole le ginocchia e stringendole con forza convulsa gridò « Salvatemi! Voi sola potete salvarmi.»

Eutanasia si commosse, fece alzare la sofferente e, abbracciandola, cercò di placarla: la prigioniera singhiozzava poggiando la testa sulla mano d’Eutanasia: «Non temete, sarete salva. Calmatevi, parlate, cosa volete da me? Non temete, non vi sarà fatto alcun male, sarò vostra amica.»

«È vero? Sarete mia amica? Andrete da lui per chiedergli di salvarmi? Solo lui può.»

«Chi? Dite con calma, mia cara, rilassatevi un po’, rasserenatevi e poi parlate. Vedete, siete al sicuro tra le mie braccia, io vi tengo, non abbiate paura!»

La prigioniera cadde nell’abbraccio d’Eutanasia: era infreddolita, gelata, giaceva ansimante come un cerbiatto sanguinante che guarda la morte nelle sue ferite. Il calore della braccia d’Eutanasia la risollevò abbastanza e parlò, scostandosi i capelli arruffati con le sue dita sottili: «Voi non vi ricordate di me, né lui di me. Ero diversa quando mi vide, come la foglia gialla caduta dal fogliame verde e lustro di maggio. Non vi ricordate di me?»

«Sì, ora mi ricordo. Allora voi siete di sicuro…» Eutanasia si fermò, il nome di Beatrice pendeva sulle labbra, ma un senso di delicatezza l’impedì di pronunciarlo. Proseguì: «Sì, ricordo la pellegrina, il rifiuto a restare a Valperga e il profondo interesse che ebbi per il vostro dolore.»

«Voi foste molto, molto gentile. Non lo sarete ora? Non andrete da lui a chiedergli il mio rilascio?»

«Da chi devo andare? E da parte di chi?» chiese Eutanasia con un mezzo sorriso, perché, nonostante la prigioniera le avesse richiamato alla memoria che lei era certamente Beatrice, tuttavia da tempo ne aveva perso le tracce e sperava d’avere da lei qualche conferma.

«Ahimè! Io non l’avrei conosciuto se avessi potuto evitarlo. Credete che se gli parlerete di una povera ragazza, che cinque anni fa era una diciassettenne, felice, affettuosa e adorata… e ora perseguitata per eresia, falsamente oppure a ragione, un’infelice che lo implora profondamente, se ha a cuore la sua anima, di salvarla… credete che non avrà pietà di me?»

«Chi? Parlate per enigmi.»

«Enigmi! Non siete Eutanasia? Voi dovreste conoscerlo, perché, Antelminelli… Castruccio.»

La prigioniera si nascose il volto tra le mani. Divenne tutta rossa e le sue lacrime colarono tra le dita. Anche Eutanasia arrossì, ebbe un forte tremito che svanì presto mentre le guance di Beatrice erano ancora accese.

«Sì, andrò da lui o da chiunque vi possa salvare su questa terra. Anche se sarebbe meglio andare dai padri inquisitori. Mi conoscono e credo di poterli convincerli quanto il principe; lui è sbadato…»

«Oh! No, no, dovete andare da lui: lui mi ha conosciuto e sicuramente avrà pietà di me. Provate all’inizio a ripetergli i miei lamenti e le mie lacrime, di sicuro i suoi occhi, che sanno guardare dentro, si abbasseranno: non credete?»

Eutanasia pensò a Leodino e stava per ribattere che guerrieri, politici e principi ambiziosi, come Castruccio, erano soliti guardare con disprezzo le pene come le sue. Ma esitò, non voleva togliere a lui, che aveva amato, anche la più piccola lode di un altro, sebbene immeritata; inoltre, sentiva che il nome di Beatrice da solo la muoveva a compassione, forse al rimorso. Quindi restò in silenzio e la prigioniera continuò con voce accalorata: «All’inizio provate con qualsiasi argomento, però, se lui si ostina, allora ditegli che mi ha conosciuto un tempo, che adesso la mia sorte è mutata… lui si chiederà la causa: forse penserà male, perché quella non è la causa. Ditegli che sono Beatrice… mi conobbe qualche anno fa nella casa del buon vescovo di Ferrara.»

La povera profetessa in disgrazia scoppiò in un pianto dirotto, si torceva le mani, si strappava i capelli, mentre la sua compagna la guardava, incapace di fermare le sue lacrime. Castruccio aveva descritto la sua Beatrice così luminosa, eterea nella sua grazia, da indurre profondamente Eutanasia a notare quale mutamento pochi anni avevano causato. Avvertendo il rossore e la vergogna della ragazza, fece finta di non sapere nulla e provò solo a calmarla, assicurandola della sua salvezza.

«Sono salva? Vi confesso che ho paura, oh! quanta paura! Sono molto giovane. Una volta ero felice, ma da allora ho sofferto in modo indescrivibile. Ho il terrore della morte e, più di tutto, di soffrire. Mi chiamano eretica. Sì, (e i suoi occhi scuri brillarono con fierezza) lo sono; non appartengo al loro triste credo. Conosco i miei errori e li maledico pure… Ma, piano, non così forte… Mi perdonate, no? Ahimè! Se mi voltate le spalle, loro mi cattureranno e mi metteranno al rogo!»

Le due ore passarono velocemente con Beatrice che piangeva con alterna passione. Il guardiano venne a prendere Eutanasia, ma Beatrice le si aggrappò al collo, attorcigliando le dita ai suoi lunghi capelli sottili. «No! no! non dovete andare!» urlò, «Morirò se resto ancora sola. Oh! Prima che arrivaste talvolta mi sembrava di non sapere chi fossi, mi pareva d’impazzire: voi siete buona, consolatoria, gentile. Non mi dovete lasciare.»

«Allora non posso vedere il principe, non posso intercedere per la vostra liberazione

«Ma ci sono ancora tante ore e spunterà l’alba confortevole. Ora è quasi buio. Sento il gocciolio dell’acqua e il libeccio[2] che ulula. Ho dimenticato tutto questo e ora viene riempiendomi dieci volte tanto di terrore… non lasciatemi!»

Eutanasia poteva distinguere appena i tratti della supplicante con la luce della piccola torcia del guardiano, però vide gli occhi bagnati di lacrime e sentì il suo cuore battere sul suo petto. Provò ancora a consolarla, ma non ci fu modo… quando il guardiano insisté sulla sua sicurezza, su quella di tutti, Beatrice scosse il capo.

«Credevo voi foste gentile, ma non lo siete: le mie guance sono pallide dalla paura: alzate la vostra torcia su di loro per vederle. La signora può andarci presto, quando è alba… davvero può andarci allora, ma adesso non deve.»

Eutanasia si staccò, anche se il suo cuore era trafitto dalle urla di Beatrice, che s’era gettata per terra. Il guardiano la condusse tra i passaggi tetri della prigione e poi lungo le strade umide, finché raggiunse la casa: lei si ritirò a meditare durante le ore rimaste della notte sulle parole da impiegare per le sue richieste a Castruccio la mattina seguente.

L’attesa di quest’incontro le avvampò il viso e fece lampeggiare gli occhi profondi, mentre tremava tutta. Non l’aveva visto da tanto che il potere assunto da lui, la sua tirannia e la sua politica s’erano persi nei ricordi. Sentì come se lo dovesse vedere ancora onesto, appassionato e bello, come quando parlavano dolcemente a Valperga. Valperga! Ora era una rovina cupa e orribile e lui il suo distruttore. Ma lei pensò: «Questo è un sogno… lo devo vedere e svanirà; c’è in me una piaga di dolore e sfiducia che si chiuderà con il suo sorriso e mi libererà… Lo devo vedere!

Perché penso a me? Vado a liberare questa povera ragazza, che lui ha offeso e alla quale appartiene molto più di me; quest’infelice Beatrice, che versa lacrime di tormento nella cella. Io non sono niente. Come un niente m’avvio e vorrei che lui non mi riconoscesse! Vado a supplicare per un’altra e devo ingentilire il mio aspetto: non è fiero ma devo insegnargli l’umiltà; devo insegnare al mio cuore a non parlare, a non pensare a se stesso… vado per lei e, ottenuta la mia richiesta, verrò via, dimenticando che non sono niente.»

Albeggiò, la giornata era fredda, umida e nuvolosa, e mai allegria fu gravata dal senso d’oscurità e inattività: in questa brutta mattina invernale non fece giorno sino alle sette, ed era il momento adatto per Eutanasia per cercare Castruccio. Si mise un velo sui capelli, e si nascose in un bel mantello di zibellino; poi uscì furtivamente da sola, perché non poteva sopportare che qualcuno sapesse di questa strana visita. Quando arrivò al Palazzo del Governo[3], i suoi vestiti sontuosi e il portamento distinto le fecero avere un ingresso facile, ed entrò nell’ufficio del principe.

Il cuore batteva fragorosamente, era entrata a passi rapidi e leggeri. Si fermò e, come a raccogliere i sentimenti confusi della mente, cercò di legarli in un nodo stretto. Decise di calmarsi, di fermare il tremito delle labbra, di non pensare ad altro che a Beatrice. Entrò. Antelminelli era solo, alla scrivania che leggeva un foglio, ed un sorriso di lieve derisione era nei suoi tratti. Levò su di lei i suoi occhi neri acuti e vedendo una donna davanti si alzò. Subito Eutanasia fu padrona di sé e risoluta. Gettando indietro il cappuccino e scostando il velo, sollevò gli occhi, non ancora su di lui, e iniziò con la sua voce argentina a dire: «Mio signore, io vengo…»

Ma lui era troppo allibito per ascoltare. Arrossì dal piacere, tutta l’ira e l’indifferenza nutrite svanirono in sua presenza, e proruppe in un torrente di stupore e ringraziamenti.

Lei scosse la mano: «Non ringraziatemi, ma ascoltate. Io vengo per un messaggio, una commissione di carità e, se potete, ascoltatemi e dimenticate chi è che parla.»

Lui sorrise e replicò: «Certo sarebbe facile non vedere il sole quando spunta: ma, qualunque sia la vostra commissione, non parlatene ancora… se venite per una richiesta l’esaudirò istantaneamente e poi andrete. Ma prima fermatevi un po’, ch’io possa vedervi. È passato un anno da quando vi vidi l’ultima volta. Siete cambiata, più pallida… i vostri occhi… ma voi li voltate come se foste arrabbiata.»

«Non sono arrabbiata… non sono niente… c’è un’eretica, o meglio una ragazza accusata d’eresia, confinata nelle vostre prigioni, che io vi scongiuro di liberare e, per l’amor del Cielo, di non aggiungerle senza indugi altro dolore a quello che ha già: ha sofferto molto.»

«Un’eretica! Questo va al di là della mia giurisdizione. Io non mi mischio alla religione.»

«Sì, lo fate… vedete preti tutti i giorni: ma io vi prego di non obbligarmi a discutere con voi. Ascoltatemi per pochi istanti e non dirò più niente. È molto infelice e teme la morte e il dolore con un orrore che quasi la leva il senno. È giovane ed è commovente vedere una ragazza di appena vent’anni sotto le zanne di questi segugi. Un tempo era felice. Ahimè! Abbiate pietà di lei, da allora sente nel più profondo del cuore il cambiamento dalla gioia al dolore.»

«Finora non le succederà niente, al massimo pochi mesi di prigione: se teme la morte e la sofferenza, naturalmente può abiurare ed essere liberata. Che cosa mai soffrirà per così breve tempo?»

«La paura, il peggiore dei mali, più della morte. Sarei lieta di consigliarvi a metter da parte questa durezza che non è naturale in voi; gli istanti sono anni se vengono prolungati dal dolore, ogni minuto che vive in cella è per lei una morte atroce in vita. Io però vi dirò il suo nome… per sua richiesta vorrei non dirvelo: ma quel nome vi convincerà, se non siete già convinto dalla dolce speranza di salvare una persona che soffre i tormenti che non potete mai conoscere.»

«Eutanasia, non guardate le cose in modo così triste. Non penso alla vostra eretica. Prendo tempo per trattenervi qui: sarete esaudita, io non rifiuterò una vostra richiesta.»

Un sorriso schivo di sdegno passò sul suo volto. «No, quando saprete chi è esaudirete la mia preghiera per il suo bene. Io vengo a nome di Beatrice, la figlia di Guglielmina di Boemia.»

Se il fantasma della povera profetessa si fosse presentato subito non avrebbe potuto agitare di più Castruccio, che udire il suo nome così pronunciato da Eutanasia, unito ai titoli di eretica e prigioniera. Il corso della sua vita rifluì e, quando scorse indietro, lui pensò alla celeste Beatrice, al suo passo leggero, alla presenza quasi gloriosa e il ricordo delle sue guance pallide e le labbra bianche quando la vide l’ultima volta lo emozionò. Erano passati anni da allora. Cosa aveva patito? Chi era? Un’eretica? Ahimè! Era la figlia di Guglielmina, la figlioccia di Magfreda, la protetta di una lebbrosa, la figlia adottiva del buon vescovo di Ferrara.

Eutanasia vide l’immenso confluire di passioni che agitò Castruccio e lo faceva arrossire e impallidire in successione. Lei taceva, i suoi occhi quieti gli trasmettevano compassione. Per un bel po’ lui non riuscì a dar voce al suo cuore, ma alla fine parlò: «Presto! presto! liberatela, prendetela con voi! Eutanasia, siete un angelo di carità. Voi conoscete tutta la sua triste storia… e tutto quello che mi riguarda. Calmatela, consolatela, fatela riavere… povera, povera Beatrice!»

«Allora addio. Io vado… mandate un vostro ufficiale con l’ordine. Io corro da lei più in fretta che posso.»

«Ma fermatevi, restate un momento. Non vi vedrò ancora? Vi siete sbarazzata di me del tutto. Per ora, vi prego, siate felice. Perché dovreste essere pallida e sofferente? Avete altri amici. Tutti quelli che mi amano devono piangermi? Non sono certo un diavolo che tutto quello che tocco deve inaridirsi. Guardatevi! Togliete il velo dal vostro cuore, leggete, leggete i suoi intimi segreti, le parole eterne impresse dentro. Voi non mi disprezzate, voi mi amate… siate mia.»

Le gote bianche di Eutanasia s’accesero, gli occhi sprizzarono fuoco: «Mai! Legarmi al tiranno, alla schiavitù, alla guerra, alla falsità, all’odio? Vi dico che sono libera come l’aria. Ma mi sono spinta molto più in là degli obblighi che ho dettato a me stessa, ed ora non una parola di più.»

«Sì, ancora una parola, non per voi, pazza fanatica, ma per Beatrice. Io l’ho distrutta, non che io sappia d’averlo fatto, ma senza pensarci, in modo folle, io l’ho distrutta. Voi allora riparerete il mio danno. Darei metà della mia anima perché possa tornare ad essere come quando la vidi la prima volta. Avete sentito una parte della sua storia e adesso forse conoscerete quelle sofferenze che lei ha patito da quando ci siamo separati. Senza dubbio è una storia strana e infelice, ma voi per lei dovete essere l’angelo custode della pietà e dell’amore.»

Il dispiacere e persino l’umiliazione erano nel volto di Castruccio. Eutanasia lo guardò, quasi per la prima volta dal suo ingresso. Sospirò sommessamente e in un sussurro disse: «Ahimè! Non dovreste essere più ciò che un tempo siete stato!»

L’orgoglio tornò e accrebbe ogni tratto di Castruccio: «Basta, basta: qualunque vino della vita io spillo a lui sono mischiato. Eutanasia, se non c’incontreremo ancora, ricordate, io sono soddisfatto. Voi potete esserlo più?»

Eutanasia non disse una parola, svanì, la sua presenza luminosa sparì e Castruccio, a cui, come l’arcangelo caduto, può essere applicato quel verso,

Vantandosi ad alta voce, anche se tormentato da profonda disperazione[4],

sedette, senza lacrime, le labbra serrate, richiamando alla mente le parole e gli sguardi d’Eutanasia, finché, ricordando il suo vanto, alzò gli occhi con sdegno inferocito e, scotendo dal cuore la rugiada della tenerezza si buttò tra la folla dove lui comandava, dove il suo occhio era davvero obbedito.

Eutanasia si precipitò alla prigione, dove il buon guardiano la condusse con un’aria di gioioso trionfo alla cella di Beatrice. La poveretta dormiva, le lacrime erano sulle guance (come un bambino lei aveva pianto per dormire), e parecchie volte aveva iniziato a dormire con difficoltà. Eutanasia fece segno al guardiano di tacere e s’inginocchiò accanto a lei, guardando il suo viso, una volta così gloriosamente bello; lo squisito intaglio delle palpebre ben modellate, il volto ovale e il mento puntuto ancora davano segni di ciò che era stata, il resto era perduto. La carnagione era arsa dal sole, le mani sottili e gialle, e l’ansia aveva già marcato le sue guance incavate e la fronte con molte rughe. I capelli neri erano spruzzati di grigio, le lunghe trecce erano state tagliate ed ora raggiungevano solo il collo: stretti e fini, erano l’ombra soltanto di ciò che furono un tempo. Il volto, l’intera figura risultava emaciata, logora e sbiadita. Si svegliò e vide gli occhi chiari e profondi come il cielo d’Eutanasia che la fissavano. «Alzatevi, povera vittima, siete libera!»

Beatrice guardò freneticamente, poi, d’un colpo, batté le mani in un trasporto di gioia, si gettò ai piedi della sua liberatrice, abbracciò il guardiano, convulsa. «Libera! Libera!» Per un po’ non seppe ripetere altra parola. Alla fine disse: «Perdonatemi, ieri sono stata rude ed egoista. Vi ho angustiata e rimproverata, voi che siete la gentilezza in persona. E voi, nobile uomo, mi dimenticherete, non è vero? Che cosa temevo? Ora che sto per lasciare la mia cella, la vedo bella a sufficienza e potrei starci ben contenta; è piuttosto buia e fredda, ma ci si può coprire, chiudere gli occhi ed immaginare d’essere sotto il sole.»

Continuò a chiacchierare e avrebbe parlato molto di più se Eutanasia con forza gentile non l’avesse spinta fuori dalla cella e dalla triste prigione. Andarono subito al palazzo, dove Beatrice si rinfrescò con un bagno e si rifocillò. Però, una volta passata la prima gioia della liberazione, sprofondò nella malinconia: non parlava, sedeva apatica, e le lacrime cadevano in silenzio. Eutanasia cercò di confortarla, molti giorni passarono e Beatrice continuò ad essere crucciata e intrattabile.

Nello stesso tempo Eutanasia ricevette molti biglietti di Castruccio, con domande sollecite sulla salute di questa povera ragazza. «Dio sa», scriveva, «cosa ha passato questa sfortunata da quando ci siamo lasciati. Il mio cuore languisce, non solo per quello che lei soffre, ma per quello che ha potuto soffrire. Adesso lei, dicono, è un’eretica, una Patarina, una che crede nell’ascendente dello spirito del male sul mondo. Povera pazza fanciulla! Eutanasia, per il bene della sua anima e per la mia che deve risponderle, ragionate con lei e convertitela. Siate una sorella affettuosa, un angelo di pace e perdono. Lascio la guida del suo destino futuro al vostro giudizio futuro: ma non perdetela di vista. Cosa debbo chiedervi? E che diritto ho di darvi il fardello delle mie colpe? Ma voi siete buona e mi perdonerete.»



[1] N.d.a. Questi eretici furono a lungo soggetti all’ostilità dell’Inquisizione, e nel 1290 una comunità apposita sorse a Firenze ad opera di San Pietro da Verona con il preciso scopo di annientarli.

[2] In italiano nel testo.

[3] In italiano nel testo.

[4] “Vaunting aloud, though rack’d with deep despair”, John Milton, Paradise Lost, Libro I, v. 126.



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