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“Valperga”– Mary Shelley XXXII

Creato il 13 aprile 2012 da Marvigar4

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Mary Shelley (1797-1851)

VALPERGA

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La vita e le avventure di Castruccio, Principe di Lucca

Traduzione integrale di Marco Vignolo Gargini dall’originale in inglese Valperga; or the Life and Adventures of Castruccio, Prince of Lucca

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Capitolo 32

Beatrice incontra Tripalda. È condotta da Bindo all’antro della strega.

L’albino Bindo era stato molto colpito dall’aspetto di Beatrice. C’era una frenesia nel volto e nei gesti della giovane donna che eccitavano la sua curiosità, gli sembrava di sentire istintivamente che lei avesse i segni di chi ha a che fare con gli spiriti incorporei. S’era spinto a parlare di lei alla sua padrona, ma non riuscì a sapere altro che Ferrara era la sua città natale. Con questa minima informazione si recò dalla sua amica, la strega, e insieme discussero l’argomento.

«Il suo occhio guarda oltre il mondo,» disse Bindo, «se la vedessi troveresti una collega nella tua arte. So che c’è un nesso misterioso tra lei e il principe: lui l’ha liberata quando era imprigionata dai padri domenicani come patarina, dicono, ma sospetto che il motivo sia la magia.»

«In ogni modo», rispose la strega, «c’è un mistero che io chiarirò. Andrò a Ferrara e saprò chi e cosa è. Aspetta ch’io torni in meno d’un mese. Intanto osservala, guarda ogni sua parola e azione, e qualcosa verrà fuori.»

La strega andò a Ferrara. Attraversò i colli, percorse sentieri ignoti e monti mai battuti, guidata sia dall’esperienza o dallo stesso demone dell’arcano, perché ci voleva quasi una conoscenza sovrannaturale per seguire la sua strada tra l’ammasso confuso della catena degli Appennini. Camminava di notte e riposava il giorno, molte volte vedeva il sole alzarsi e calare tra le foreste che ricoprivano i colli. A Ferrara seppe ciò che desiderava: Beatrice, l’Ancilla Dei, la profetessa, non era dimenticata, persino la sua unione con Castruccio era stata prevista e qualcuno aveva pure osato affermare che lei non aveva mai lasciato Lucca, o il palazzo del principe, durante il suo presunto pellegrinaggio a Roma. La strega tornò, contenta al pensiero d’avere adesso uno strumento per qualche suo progetto.

Quali erano i suoi progetti? Non aveva quello scopo fisso e il corso diretto che un oggetto potrebbe ispirare. Il suo desiderio era malvagio e la speranza attuale era di imprimere in Bindo qualche nozione dei poteri da lei rivendicati. Una volta era stata giovane e la sua natura, mai dolce, era diventata feroce per i torti ricevuti tanto tempo fa, i cui autori erano tutti morti, e lei, la vittima, la sola sopravvissuta. La calunnia aveva infangato il suo nome, i suoi affetti più cari erano stati rovinati, i figli strappati e lei era rimasta per maledire e vendicare.

Le sue propensioni al male s’erano consumate da tempo facendo piccoli danni tra i contadini, ma il suo sodalizio con Bindo le dette la speranza di uno scopo più grande nella malvagità. Offendere Castruccio o far del bene ad Eutanasia era per lei indifferente. Sapeva e capiva più di Bindo cosa fosse il cuore umano: sapeva che Eutanasia aveva amato il principe e sperava che ferendolo avrebbe ottenuto un doppio colpo. Era vecchia, forse vicina a morire e pensava che sarebbe stato bello spirare tra i gemiti delle vittime della sua cattiveria.

In quei giorni in cui queste passioni, se non più placate, sono più frenate e assumono un aspetto più convenzionale, si può dubitare che tale attrattiva crudele per il male sia mai esistita, ma che sia così tutta la tradizione e la storia lo prova. Si credeva che le streghe amassero il male come il pane quotidiano e avessero venduto l’anima al diavolo solo per fare il male: lei sapeva quanto fosse impotente, ma desiderava diffondere dappertutto il personaggio a lei attribuito.

Appena tornò sugli Appennini, progettò il prossimo gesto. Credeva di vedere una gran rovina da lei sola ideata avvolgere tre spiriti guida del genere umano. Era un esperimento pericoloso. «Ma devo morire», gridò, «e quale morte sarà più dolce anche se fosse in mezzo alle fiamme se tanti condividono con me i tormenti? E tu, povero aborto, che osasti mischiarti con mani tremanti in opere superiori a te, anche tu assaggerai il veleno da tempo rifiutato! Un cancro ti si appiccichi tutto! Da tanto ho cercato il travaglio adatto al mio genio e ora l’ho trovato.»

Il giorno precedente la partenza di Eutanasia per Firenze la strega tornò: incontrò Bindo con un sorriso spaventoso. «Tutto», esclamò, «è come desideri. La stella di Castruccio sarà spenta dietro la nube torbida che questa stessa Beatrice innalzerà. Portala da me e saprai ogni cosa a suo tempo, ma stai attento: la contessa non deve vedere e sentire le nostre macchinazioni.»

Eutanasia era partita, lasciando Beatrice assai più calma di quando venne rilasciata dal carcere. Ma non c’erano sentimenti più oscillanti di quelli della povera profetessa. Il giorno dopo che si era separata dalla sua protettrice, Padre Lanfranco era stato chiamato per affari urgenti a Siena, e lei rimase sola senza una guida per gli esercizi della sua mente. Non poteva sopportarlo questo: le consolazioni di Eutanasia e l’esortazioni del sacerdote erano come dimenticate, e Beatrice svuotata, per così dire, senza protezione, cadde nel dolore e nella disperazione.

Desiderava ardentemente vedere Castruccio, ma il suo confessore le aveva ordinato di evitare ogni occasione per incontrarlo, se voleva conservarsi per la vita santa a cui diceva di sentirsi chiamata. Beatrice fu facilmente convinta, ma non aveva comando su di sé e nel momento in cui rimase sola con se stessa fu incalzata dalla più lieve impressione.

Castruccio era appena tornato da Pistoia alla notizia dell’insurrezione di Pisa, si diceva che avrebbe lasciato Lucca di nuovo la mattina dopo. «Ora o mai», pensò Beatrice, «Forse è la mia volontà senza controllo. Se scappo in questo giorno sarei ancora circondata, incatenata. Potrei vederlo, udire la sua voce. Oh! avessi il coraggio di tentare! Eppure sento che questo può essere la suggestione di qualche spirito maligno. Non devo, non devo osare vederlo.»

Pianse e pregò, ma invano. Nei suoi giorni di visione estatica aveva consacrato e obbedito a ogni impulso come fosse d’origine divina, e ora non riusciva a resistere alle impressioni che sentiva. Si avvolse in un mantello con cappuccio e uscì con andatura tremolante e occhi lucidi di lacrime, per andare a vedere la sua figura per la quale s’era sacrificata completamente. Aveva appena fatto due passi fuori dalla porta del palazzo di Eutanasia, un uomo passò davanti a lei e con un urlo lei cadde priva di sensi sul selciato. Fu riportata a casa e assistita con cura, passarono però parecchi giorni in cui, ancora con la febbre, delirava per scene e fatti i più tremendi e sconvolgenti che immaginava le avvenissero intorno. L’uomo che aveva visto era Tripalda e da quello che disse nel delirio si dedusse che fosse stato magari un attore dei terribili mali che aveva sopportato durante la sua strana carcerazione nella campagna di Roma. Fu assistita con gentilezza e si rimise, l’effetto del suo delirio fu tale da convincersi che ciò che l’aveva tanto spaventata era una pura visione messa su dalla sua fantasia. Pensò che l’immagine viva di questo alleato dei crimini del suo nemico, così mentre stava per disobbedire agli ordini del suo confessore, fosse un avvertimento e una punizione del cielo.

Eutanasia era via e Beatrice non osava parlare a nessuno: rimuginava tra sé sull’apparizione, misteriosa a pensarci, di quest’uomo, tanto che la sua fantasia fu così logorata d’aver paura persino della sua ombra sul muro e l’eco dei suoi passi sul pavimento di marmo della sua camera la faceva tremare di terrore. Le scene che aveva testimoniato, gli orrori che aveva sopportato in quell’asilo sconsacrato del crimine, le si presentavano nei più vivi colori. Ricordava tutto, vedeva tutto e l’angoscia profonda che provava non era più placata dai dialoghi con la sua amica.

«Oh, crudele, cattiva Eutanasia!» esclamava, «perché mi avete lasciata? La mia solo speranza, la mia sola fiducia erano riposte in voi e voi mi abbandonate. Ahimè! ahimè! Sono una canna spezzata e niente mi sorreggerà. Il vento soffia e io sono a terra e se mi rialzo sono ferita, quasi distrutta.

Oh! Potessi morire! Eppure ho paura della morte. Oh! tu, che sei stata la mia maestra e salvatrice, che spirasti sorridente tra le fiamme, vorrei tu fossi qui ad insegnarmi a morire! Che ci faccio in questo bel giardino del mondo? Io sono erbaccia, un insetto nocivo, vorrei che un potere superiore mi stanasse totalmente, o un piede di un gigante mi schiacciasse facendomi mordere la polvere! Chiedo ancora ciò che non voglio. Era un Dio buono quello che plasmò tutte le contraddizioni agonizzanti di questo gracile cuore?

Ma zitto, spirito presuntuoso! Non rimettermi in testa queste lezioni che speravo d’aver dimenticato. Padre! Dio! Guarda la più miserabile e debole delle tue creature. Insegnami a morire e poi uccidimi!»

Sedeva nel giardino incolto del palazzo, su uno dei piedistalli che era stato messo come base per i vasi che contenevano le piante dei limoni. Aveva la testa tra le mani, le lacrime cadevano giù non viste. Era stata la sua gioia, sin dal suo arrivo a Lucca, vagare per questo giardino selvaggio e delle volte, quando il sole era tramontato da tempo e il suono dell’Ave Maria era sfumato, si sedeva là e con gli occhi fissi sulla stella più luminosa del cielo cantava le melodie ricordate della sua infanzia. Niente richiama i sentimenti del passato in modo così forte come le note di una musica un tempo amata. La memoria era quasi troppo per lei e i suoi occhi versavano lacrime quando cantava la più dolce melodia mai udita da orecchio umano. Eutanasia aveva ascoltato, amava ascoltare le sue arie improvvisate e, appena Beatrice vedeva le proprie profonde emozioni riflesse negli occhi radiosi dell’amica, si sentiva serena. Ma adesso era sola, provava la solitudine e quando cantava nessuno l’ascoltava: ma, come la viola emana un dolce profumo nell’aria indifferente e la creatura più bella del mondo si china per aspirarne la fragranza, così Beatrice cantava in solitudine con il cuore caldo, l’immaginazione sviluppata e una sensazione di trasporto piacevole, anche se un mare di nera disperazione era il confine vicino.

Mentre cantava, Bindo si avvicinò furtivamente. Non si era mai rivolto prima a lei e lei non l’aveva mai osservato: lei era una di quelle persone che avvertono la propria vita e identità così tanto da sembrare di non accorgersi degli eventi e delle persone poco interessanti intorno. Lui adesso parlava a voce alta, staccandola dal suo profondo sogno:

«Svegliatevi, profetessa, non è bene che voi dormiate; gli spiriti dell’aria hanno del lavoro per voi; tutta la Toscana sente la vostra presenza sovrumana.»

Beatrice sobbalzò e guardò con sorpresa l’essere che le si rivolgeva così: la sua statura da nano, i capelli e le sopracciglia bianche, la faccia pallida e rugosa e gli occhi rossi accesi gli davano un aspetto singolare. Lui sembrava proprio uno degli spiriti di cui asseriva l’esistenza e lei rabbrividì a vederlo.

«Io vengo», continuò Bindo, «da una persona che sa vedere le forme, per me invisibili, che passano per l’aria, da chi ha il tuono e il temporale al suo guinzaglio come fossero cani e che può fare e disfare la volontà umana, come una ragazza avvolge il filo dalla rocca. Ho un messaggio per voi.»

«Di chi parli? Non ti capisco.»

«Capirete le sue parole, perché vi sono dei segni tra chi ha il dono che nessun altro conosce, ma che li legano prontamente insieme.»

«Sei uno di questi?» chiese con stupore la ragazza.

«Io no», rispose Bindo, «e voi lo sapete anche se non ve l’ho detto. Non siete Beatrice, la profetessa di Ferrara? Ma le mie parole sono deboli. C’è una persona che vive in una caverna non lontano da qui, che in gioventù fu chiamata Fior di Ligi e adesso si chiama Fior di Mandragola. Lei regola gli spiriti che vivono con noi e ha potere sulle stagioni, sulle disgrazie e i dolori della vita. Mi ha chiesto di svegliarvi. Stanotte vi porterò da lei e con i suoi incanti strapperà il velo che gli spiriti delle tenebre hanno gettato su di voi.»

«Tu parli del niente. Chi sei?»

«Sono un servo della contessa di Valperga, niente di più. Un povero nano, ignorante e disprezzato, un deforme: ma sono più potente nella mia debolezza di quelli che hanno membra da giganti e muscoli forti… almeno io quella forza ce l’ho a patto che sia obbediente a colei di cui v’ho parlato. Questo è quello che mi ha chiesto di dirvi: “C’è una nube su di voi che parole potenti possono disperdere. Voi siete ciò che apparite e non ciò che credete d’essere… venite alla caverna di Fior di Mandragola, lei vi riporterà a quell’altezza dalla quale l’ignoranza degli altri e la vostra mancanza di fede vi hanno precipitato.” »

«E chi è Fior di Mandragola?»

«Una strega… una donna grigia di capelli e decrepita. Si veste di stracci e si ciba di ghiande e noci, ma è più grande di una regina. Se solo lo ordinasse, questo cielo azzurro si riempirebbe di nubi, il Serchio strariperebbe e la piana di Lucca sussulterebbe con un terremoto. Lei fa provare agli uomini paure che non conoscono; al suo comando gli spiriti si ritirano dall’aria e gli uomini rabbrividiscono dal terrore. Lei non può comandare solo una cosa; la volontà, la fortuna, il potere non possono essere controllati da lei; ma la vostra stella sormonta la sua. Allora, venite e saprete come sistemarlo.»

«Chi?»

«Il principe di Lucca.»

«Via! Non sai quello che dici.»

«Io obbedisco. Non dite niente alla contessa. Sarò alla finestra della vostra camera a mezzanotte.»

Bindo uscì lasciando Beatrice spaventata e tremante. Non contava sul credo folle di Bindo, ma sentiva che poteva essere vero. Una volta aveva creduto all’ordine di un uomo sugli interventi sovrannaturali e aveva abbandonato quel credo quando perse la fede nei suoi poteri. Le tornarono subito alla mente tutte le cose del genere che le erano accadute, le sue estasi, le sue aspirazioni deliranti e gioiose… erano più morte e fredde delle bianche ceneri di un fuoco spento da tempo, ma altri eventi erano successi e lei aveva provato emozioni inspiegabili che parevano legarla ad altre esistenze. Ricordò il suo sogno e, coprendosi gli occhi con le mani, tentò di richiamare le parole e le forme che le erano state rivelate in quell’occasione… inutilmente. Il tentativo servì solo a scuotere una ragione già barcollante. Tuttavia si riebbe dalla sua diffidenza, sentì ancora quei pensieri intensi e curiosi che per molti anni furono la vita del suo essere. Decise di visitare Fior di Mandragola, non sapeva il perché, ma la curiosità si combinava al desiderio di mutamento e libertà. Pensò che sarebbe stato piacevole visitare a mezzanotte l’antro della strega, guidata dallo strano albino. Beatrice rimase sola per tutta la sera con le sue riflessioni, e non erano mai terribili, eccetto quando la vivacità della sua immaginazione mischiava gli arcobaleni con i temporali.

Venne la notte e, avvolta in un mantello, montò sul cavallo che Bindo aveva portato e lo seguì per la campagna, verso i monti che dividono il territorio di Lucca da quello di Modena. Le foreste scure s’estendevano nella valle, contrastando le loro ombre nere con le tinte grigie della bassa campagna. Le stelle brillavano. Cavalcarono veloci ma la strada era lunga ed erano le due prima d’arrivare all’antro della strega. Era una casa orribile e adesso, alle ombre della notte, appariva più desolata che mai. I pini facevano un triste fruscio sopra, la terra intorno era brulla e poche pigne giacevano insieme ai sassi grigi che qua e là punteggiavano il suolo.

La strega sedeva davanti alla porta del tugurio. Era uno strano essere: era corta, quasi deforme, avvizzita e secca, ma agile e veloce nei movimenti, la fronte e il volto color cuoio erano segnati da mille linee e la carne delle sue guance, così sgraziate, sembravano a malapena umane. Le mani erano larghe, ossute e sottili. Era diversa da ogni altro animale, ma anche da ogni essere umano e pareva appartenere a una specie a parte, che avrebbe potuto ispirare terrore alla gente. Quando vide Beatrice si alzò e avanzò verso di lei dicendo: «Che fai qui, figlia di un potere assopito? Vieni ad insegnare o ad apprendere i segreti della nostra arte?»

«Vengo su vostra richiesta», rispose superba Beatrice. «Se non avete niente da dirmi, torno via.»

«Ho molto da dirvi», disse Mandragola, «perché sveglierei dal letargo uno spirito che può comandarci tutti. Tu sei la padrona di questi di cui io sono schiava. Esortalo, mille spiriti aspettano il tuo ordine. Guarda, sono come cani accucciati ai tuoi piedi sapendoti superiore. La mia gloria è obbedirgli… quanto tu mi trascendi!»

«Parlate per enigmi, buona madre. Non vedo spiriti, non sento il potere.»

«Se tu lo sentissi saresti qui? Qui nell’antro di una povera strega che sillaba i suoi incanti e fa tali penitenze che congelerebbero il tuo giovane sangue al solo sentirle, e ottiene soltanto un potere a malapena acquisito e che presto lascerà. Ma tu potresti cavalcare i venti, comandare la vegetazione della terra e rendere schiavi tutti gli uomini. Ti chiedo se non hai mai sentito una volta quella forza? Per un momento tu fosti offuscata, ma l’influenza del cattivo pianeta è ormai lontana e tu adesso puoi regolare tutto… accetterai questo dominio?»

«Le vostre parole mi sembrano inutili. Provatele e vi ascolterò.»

«Consulta il tuo cuore, profetessa, e lui t’insegnerà molto di più di quanto io possa. Non ha segreti noti solo a te? Non hai mai posseduto un potere che in te dimora e non hai sentito la tua mente distinta da esso come fosse più saggia di te, tanto saggia che tu la ammetti senza poterne comprendere la saggezza? Non ti ha rivelato ciò che senza il suo aiuto non avresti mai potuto conoscere? Non hai mai visto quest’altro tuo io?»

«Fermatevi, donna straordinaria, se non volete esasperarmi», gridò terrificata la povera Beatrice. «Questa è la chiave, il legame indissolubile della mia esistenza. Questo sogno deve pormi al di sopra dell’umanità o distruggermi.»

«Tu possiedi questo potere?» esclamò trionfante la strega.

«Mandate via l’albino e vi dirò tutto.»

All’ordine della strega Bindo si ritirò.

«Sono ancora senza fiato e la paura mi possiede. Cosa mi dite del potere? Io sento d’essere guidata e quando questo sogno scende su di me, come adesso, io non sono più me stessa. Ho sognato un’inondazione, uno scorrere di bianche, calme acque, montagne, scene reali che non ho mai visto. C’era una grande casa nera in mezzo all’acqua. Un’affluenza di figure scure si librava su di me ed immediatamente ero trasportata su di una nave che mi doveva portare a quella grande casa. Strano! Un’altra nave come la mia si muoveva accanto, la prua era intagliata allo stesso modo. I rematori, di ugual numero, vestiti uguali, battevano l’acqua con i remi all’unisono con i nostri. Una donna sedeva vicino alla poppa, inorridita e folle come me… ma la loro nave tagliava le onde senza far rumore, i remi non sprizzavano acqua e, sebbene le navi fossero entrambe nere, l’altra a differenza della mia gettava un’ombra nera sull’acqua. Atterravamo insieme. Io non potevo camminare dalla paura. Fui portata in una grande stanza e lasciata sola. Mi appoggiai alle tende e lì avanzò verso di me un’altra forma. Ero io. La riconobbi, stava davanti a me, malinconica e silenziosa. L’aria intorno era tranquilla. Non posso dire di più… pochi minuti fa non ricordavo niente di tutto questo. Pochi istanti e ho ricordato distintamente le parole che disse. Ora sono svanite. Sì, c’è qualcosa di misterioso nella mia natura che non posso sondare.»

Beatrice rabbrividì, il volto si fece bianco come un cadavere, e gli occhi si spalancarono dal terrore. La strega aveva ora suonato il suo strumento e continuava a farlo con mano maestra.

«Celestiale ragazza», disse, «Io mi riconosco tua serva. Ordinami e i miei poteri, al tuo volere, faranno ciò che gli comandi… ma questo è poco. Ci sono altri spiriti che non appartengono agli elementi, ma alla mente e alle sorti dell’uomo, su cui non ho influenza, ma che ti assistono. Non temere! Le rivelazioni che hai avuto sono quasi troppo orrende per la tua debole figura umana, ma acquistano forza, perché il tuo corpo e il tuo spirito può dominare tutti i re della terra. L’altro io, che allo stesso tempo vive dentro di te e subito vaga volentieri nell’universo illimitato, è una pura ed immediata emanazione della divinità e, come tale, comanda tutte le creature, siano terrene o eteree. Anche se tu l’hai visto solo in un sogno, abbi fede e la coscienza della sua presenza visiterà le tue fantasticherie ad occhi aperti.»

Beatrice singhiozzò forte e disse: «Io speravo che la mia parte fosse conclusa e di poter morire senza più agitazione e paura, ma sono segnata e non posso lottare con il mio destino. Strano com’è il racconto che vi ho fatto, non posso credere a ciò che dite e, anche se senza dubbio ci sono altre esistenze, di cui non sappiamo niente, pure non credo che si possa comunicare e tanto meno aver potere su di loro. Vorrei salvare quel poco di ragione che m’è rimasta e quella mi suggerisce che ciò che dite è falso.»

«Ma se potessi provare che è vero?»

«Come?»

«Chiedimi quel che ti pare! Vuoi vedere il cielo sereno diventare nero e burrascoso? Vuoi sentire il rombo delle acque straripanti, o vedere gli animali della foresta riunirsi ai miei piedi? O, vuoi esercitare il tuo potere? Vuoi attirare a te con i tuoi incanti potenti uno che desideri vedere e che deve obbedire al tuo richiamo? Se tu parli ogni cosa deve obbedirti, lo stesso principe, il vittorioso Castruccio, non potrebbe resisterti.»

Le guance in fiamme e gli occhi scintillanti della profetessa rivelarono l’agitazione che questa proposta suscitò nel suo cuore. Povera ragazza! Lo amava ancora, quella ferita mai medicata era ancora infetta. Avrebbe rischiato l’anima per avere un potere momentaneo su Castruccio. Fece una pausa e poi disse: «Fra tre giorni vi dirò cosa voglio e cosa farò.»

«Nel frattempo giura di non rivelare mai questa visita in questa caverna o il mio nome: giura su te stessa.»

«Un voto sciocco… Io giuro su me stessa.»

«Basta. Non osare infrangere il giuramento.»

La strega si ritirò nella caverna e Bindo uscì per portare Beatrice a casa. Era stanca morta e all’alba del giorno dopo arrivarono al palazzo di Eutanasia.

I tre giorni seguenti furono giorni di dubbio e trepidazione per la sventurata Beatrice. In un momento demoliva del tutto le pretese di Mandragola, ma poi la sua immaginazione, che il male guidava per lei, suggeriva “Eppure, se fossì così!” E s’immaginava gli scenari desiderati fino ad agitarsi per l’attesa. Alla fine, pensò: «Non ci sarà niente di male nell’esperimento, se le sue promesse sono vane. Se sono vere… essere sicuri di sapere che non lo sono, ma qualcosa accadrà e almeno proverò.

So che Eutanasia, e più di lei Padre Lanfranco, mi direbbero che se sono vere questa donna ha venduto l’anima al diavolo e io, che ho salvato di recente la mia anima dai suoi artigli, dovrei guardarmi dal credermi alla sua portata. Tutto questo va bene per i bambini e le vecchie, ma io ho già troppo tentato i poteri su di me per trasalire adesso. Sono o non sono una patarina? Eutanasia, che non s’è mai allontanata dalla diritta via del suo dovere, e Lanfranco, che ha appreso la sua moralità in un convento, non possono sapere cos’è in grado di fare una povera scomunicata come me.

Sono molto ingrata e malvagia a dire questo. Ingrata per le loro preghiere, malvagia nel trasgredire le leggi che Dio ha promulgato.

Che dice questa donna? Che lo vedrò, che obbedirà alla mia voce e che, non per magia ma per quel potere innato ordinato dall’universo, uno spirito s’impossessa dell’altro… che lo vedrò come l’ho visto! Oh, santi del paradiso, non tollerate ch’io sia tentata così! Ma no… I poteri celesti non si degnano di intervenire. Conoscono la mia debolezza, la mia incapacità di resistere… ma, come i guardiani più sbadati, permettono che quell’approccio debba sopraffarmi. Ho deciso, lei mi guiderà. Se non succede niente (come molto sicuramente non succederà nulla), non ha importanza. E, se sono destinata per un momento in più in questa disgraziatissima vita a gustare la gioia, altri (non io) toglieranno via il veleno.»

Rifletteva e parlava così alla sua mente segreta, ma ogni ora la sua decisione oscillava e il rimorso, speranza e il terrore la prendevano di volta in volta. Aveva paura a restare sola, ma la presenza di un’altra persona le scuoteva i nervi con l’autocontrollo che era obbligata a tenere. Sembrava ci fosse un legame di confidenza tra lei e Bindo, e lei lo chiamò per dissipare le sensazioni scioccanti che la solitudine le ispirava. Lui venne e le sue parole tendevano solo ad aumentare il caos dei pensieri contrastanti. Raccontava i meravigliosi prodigi di Mandragola, come avesse visto spuntare dal sud al suo richiamo fulmini e nubi, e come per suo ordine i dolci venti occidentali si fossero subito alzati e calmate le bufere da lei create; come il pianeta della notte le obbedisse, e che, una volta nel plenilunio, questo pianeta avesse lasciato subito il cielo, ma che, mentre il firmamento era nero e senza raggi, la sua immagine continuasse placidamente a riflettersi nel torrente a loro vicino. Narrò degli strani effetti che aveva prodotto nelle menti degli uomini, forzandoli contro la loro volontà a fare ciò che lei voleva, altre volte privandoli dei loro sensi tanto che per molte ore vagavano come pazzi, finché al suo comando le loro facoltà venivano restituite.

Beatrice ascoltò, un po’ con sdegno, un po’ con paura, ma la sua conclusione fu ancora: «Vale la pena tentare l’esperimento. Se le sue parole sono false, non c’è niente di male. Se sono vere…» e allora la sua immaginazione sognava una felicità che non aveva mai provato.



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