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“Valperga”– Mary Shelley XXXIII

Creato il 24 aprile 2012 da Marvigar4

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Mary Shelley (1797-1851)

VALPERGA

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La vita e le avventure di Castruccio, Principe di Lucca

Traduzione integrale di Marco Vignolo Gargini dall’originale in inglese Valperga; or the Life and Adventures of Castruccio, Prince of Lucca

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Capitolo 33

Eutanasia torna. Beatrice vede la strega e incontra Castruccio e Tripalda. Muore.

La terza notte tornò dalla strega. «Non occorre che tu parli», disse Mandragola, «Conosco i tuoi pensieri. Credi appena alle mie parole, ma sei determinata a fare la prova. Bene. Sarei più sicura del successo se tu avessi fede assoluta nei miei poteri e nei tuoi. Ma basta. Cosa vuoi fare?»

« Per primo, madre, devo sapere che fare.»

«Il tuo potere è quasi illimitato, ma quello di cui t’ho parlato e quel potere che tu valuti di più è quello che hai sul principe di Lucca. Vuoi vederlo? Vuoi vederlo venire, da sola, con nessuno eccetto me vicina, e sentirlo rinnovare le sue antiche promesse?»

«Non mi ha mai fatto promesse», gridò Beatrice con rabbia. «Era legato a me, ho creduto, da legami più forti dei giuramenti mortali. Questo è per sempre passato, però, tranne la salvezza della mia anima, sacrificherei tutto per vederlo ancora una volta, fuori dagli abiti del potere, che ascolta ciò che non sarà mai detto, che consola colei che non può mai essere consolata.»

«È una cosa facile», disse la strega con prontezza. «Prima però giura, su tutto ciò che hai di sacro nel mondo, sulla tua e la sua vita, che non svelerai mai questa conversazione o quello che ti rivelerò adesso, o accennerai in ogni modo l’opera che stiamo per intraprendere.»

Beatrice rabbrividì, non riuscì più a stare in piedi e cadde per terra: la strega andò nella capanna e le porse una brocca d’acqua. Beatrice la portò alle labbra, poi improvvisamente respingendola, urlò: «Mi avete dato una droga velenosa che mi uccide o danneggia il mio intendimento… osate prendervi gioco di me così?»

La strega prese la brocca dalle sue mani e bevve il liquido: «Vergognati della tua diffidenza», disse. «Questa è acqua pura della sorgente e, a parte che i raggi di luna incantati vi dormono dentro, persino quando non vedi la luna, non è diversa dalle acque delle altre sorgenti. Ora dì: giuri di mantenere il segreto?»

La profetessa si fermò di nuovo. Ma la curiosità e la speranza la spingevano oltre la discrezione, e con le mani tra le palme secche e ossute della strega pronunciò il giuramento ordinato.

Mandragola allora disse: «Sono contenta. La luna sta calando: quando sarà di nuovo piena, manderò Bindo a informarti su cosa devi fare. Non temere, ma tutto andrà bene.»

Beatrice tornò a Lucca. Gli occhi assenti e le gote pallide mostravano che lo spirito che l’animava adesso non avrebbe trovato riposo né speranza. Aveva il terrore nell’attesa di questa prova terribile che stava per affrontare, e tuttavia non riusciva a pensare a nient’altro. Il suo rosario era messo da parte, le preghiere furono dimenticate e l’amore riprendeva il suo trono nel cuore. La ragione era disturbata dal dubbio e dal timore e spesso stava ore seduta con gli occhi fissi a terra, le pallide labbra aperte, le mani chiuse con forza convulsiva, a tentare di farsi una ragione dell’incredulità riguardo le promesse e le affermazioni di Mandragola. Era troppo per la sua fragile struttura. Se la strega era stata vicina a lei ad indicare lo spreco delle sue facoltà, avrebbe potuto lacerare il suo intreccio tanto da ispirarle un po’ di coraggio: ma non c’era nessuno tranne Bindo, e lui con i suoi racconti, le paure e la fede aumentava solo la mischia dei sentimenti di cui la profetessa era preda.

Eutanasia tornò da Firenze. Fu molto amareggiata, addolorata, nel vedere l’amica in condizioni fisiche e mentali peggiori di quando l’aveva lasciata. Più di tutta la follia delle parole e delle maniere, temeva il suo silenzio e la ritrosia, così tanto diverse dal suo ultimo temperamento. Se il convento, o i suoi progetti futuri venivano nominati, le ascoltava calma, ma non rispondeva. Nessuna supplica poteva persuaderla ad esprimere ciò che la serrava nella sua mente. Voleva piangere e poi, sfuggendo ai rimproveri affettuosi della sua protettrice, sarebbe stata zitta per soffrire da sola, o ancora più pericolosamente per sognare il ritorno dell’amore e della gioia. Eutanasia ragionava, la convinceva, la supplicava, ma invano: abituata ai capricci di questa sfortunata ragazza, non vedeva nulla in ciò che accadeva adesso che sembrasse sorgere da un impulso esterno, e sperava che l’indulgenza e la gentilezza col tempo le facesse tornare la calma antica. Si rimproverò d’averla lasciata e decise che, finché Beatrice non avesse davvero preso il velo, cosa che ora sembrava dubbia, non si sarebbe mai separata da lei. L’amava teneramente e per lei aveva una pietà così sincera che avrebbe sacrificato tutte le sue speranze di pace futura per mitigarla e restituirle un po’ di felicità.

I suoi tentativi furono inutili. La malinconia della povera Beatrice non era accesa dal minimo bagliore di tranquillità: per cinque giorni non parlò e toccò appena cibo. Eutanasia cercò inutilmente di consolarla e, rassegnata, cercò di eccitare una passione che potesse sollevarla dalle sue fantasie mute. Non parlava, ma vagava inquieta per le stanze o per i viottoli del giardino, e da lì sarebbe fuggita in aperta campagna se solo le sue membra stanche l’avessero sorretta. Una notte Eutanasia dormiva, quando Beatrice improvvisamente entrò in camera e, gettandole le braccia al collo e avvolgendo i lunghi e fini capelli dell’amica alla sua fronte:

«Salvatemi!» gridò, «salvatemi dalla pazzia che mi perseguita e mi dà la caccia come un demone. Mi sforzo di sfuggirgli, ma lui non mi molla: non c’è via d’uscita? Oh! Se Dio fosse buono redimerebbe di sicuro la mia anima da questa maledizione. Vorrei proteggere la mia ragione: le mie labbra sono esangui e i miei capelli completamente grigi, sono uno scheletro senza carne o forma. La mia vita è come la luna calante a mezzodì, che galleggia come vapore, e l’aria azzurra sembra penetrare la sua pallida e delicata forma. Lontana è la felicità, la bellezza, l’amore, ma vorrei preservarmi senza essere come una povera bestia braccata, la cui sola quiete è nella lancia del cacciatore. Soffiate su di me, Eutanasia, soffiate sulle mie mani, gli occhi: forse una qualche calma può fluire dal vostro petto al mio. Voglio solo non esser folle, eppure, se fosse vero ciò che è detto, queste cose meravigliose potrebbero esistere e io essere ancora sana di mente. Sì, sì, la vostra mano è fresca. Premete il mio capo. Vi conosco bene. Voi siete Eutanasia, io sono Beatrice, potrei ancora essere salvata dalla follia.»

Eutanasia pianse, accolse Beatrice tra le sue braccia, pose la sua mano fresca sulla fronte e la sua pallida gota sulla guancia rossa della povera ragazza malata. Beatrice rimase per un po’ in silenzio e poi parlò di nuovo. «Si è detto che sono una strega, una che ha il potere sugli elementi e ancora di più sulla mente umana. Io non ci credo: un tempo, lo so, tanto tempo fa, credevo d’essere una profetessa, ma mi sono svegliata da quel sogno da molti anni. Perché allora mi esaspera con queste insinuazioni? Vi dirò, Eutanasia (dolce nome, cara, amatissima amica), che talvolta credo sia vero. Oh! Potessi dire il grave segreto che pesa sulla mia anima! Ho giurato.. non ha fatto bene a farmi giurare: ma c’è qualche verità in quello che dice, senza dubbio c’è qualche verità, e sarà provata. Bene. Ho giurato e non lo dirò… Buona notte, carissima. Dormirò ora. Non una parola di più. Ho ragionato con me stessa e sono contenta.»

Beatrice si trascinò nella sua camera, ma Eutanasia non riuscì a riprendere sonno. Era stupita delle parole strane della sua amica e cercò di scoprire se provenivano dall’immaginazione agitata della profetessa, o da qualche evento reale che Eutanasia ignorava, ma non aveva la minima idea che la guidasse nelle sue congetture. Le parve molto probabile che Beatrice fosse mossa dalle suggestioni del suo cuore; non riusciva a indovinare i pensieri terribili e maniacali che la disturbavano veramente, o i paurosi incitamenti che erano stati impiegati per ingannarla.

Passarono così due settimane, quando l’albino portò un messaggio di Mandragola, invitando Beatrice a andare quella stessa notte a mezzanotte in un bosco a circa quattro miglia da Lucca. All’epoca Castruccio era impegnato ad erigere la torre di Nozzano, su una collinetta che era circondata dal bosco scelto dalla strega. Il tempo (era il mese di luglio) era estremamente caldo; il bestiame arrancava sotto il sole, la terra era senza erba; tutta la vita decadeva: ma notti deliziose seguirono questi giorni opprimenti e Castruccio soleva recarsi, alle due del mattino, in visita alla fortezza. Mandragola conosceva il luogo vicino al quale lui passava e così escogitò il suo piano. L’incanto sarebbe avvenuto nel punto desiderato, nel momento in cui lui cavalcava nel bosco: e così, per la mente semplice dell’albino e l’immaginazione esaltata di Beatrice, avrebbe offerto una prova della grandezza del suo potere.

È impossibile dire quale fosse il suo scopo in tutto ciò. Forse poteva essere istigata semplicemente dal desiderio di suscitare rispetto e terrore, e confidava nel fatto che questa conferma apparente delle sue affermazioni fosse capace di farle acquistare un potere illimitato sulla mente delle sue vittime. Non aveva intenzione in questo caso di far parlare Beatrice con il principe… che lo invocasse e lui apparisse era una buffonata sufficiente per un giorno: un’altra volta sarebbe stato fatto di più e un altro passo nel labirinto del terrore e della frode.

La stessa notte Bindo bussò alla porta di Beatrice. La profetessa aprì… sembrava inorridita e fuori di sé, ma non parlò. «È l’ora», disse l’albino.

«Avvolgiti nel mantello», continuò, «che nessuno ti riconosca». Beatrice esaudì il desiderio di Bindo, muovendo le braccia come una macchina e girando gli occhi intorno come se non vedesse nulla. Bindo la condusse giù e insieme lasciarono il palazzo da una piccola porta sul retro. La fece montare a cavallo e uscirono dalla città. Tutto avvenne in silenzio, Beatrice sembrava quasi non saper nemmeno dove stava andando o il perché. La briglia le cadde dalle mani e si aggrappò senza stringere al collo del cavallo, e l’animale meccanicamente seguì il destriero di Bindo che guidava la strada.

Arrivarono in un bosco e scesero di sella. Bindo legò i cavalli ad un albero e proseguì con cautela tra i sentieri intricati della foresta. Era un bosco di lecci e il fogliame scuro gli faceva da volta, mentre i raggi lunari filtravano tra le foglie e facevano un’ombra a scacchi sul terreno, che dopo una lunga siccità era spoglio del suo tappeto erboso. Alla fine giunsero in una strada più battuta che portava ad una specie di anfiteatro di legno, uno spazio aperto tra gli alberi, uno degli angoli attraversati dal sentiero, e tutto intorno i lecci formavano un ampio cerchio. A una delle estremità, più lontano dal sentiero, c’era una sorgente, che mormorava dolcemente per tutta la notte. La strega sedeva vicino a questa sorgente: stava intrecciando due corone d’edera e nel frattempo farfugliava. Beatrice e l’albino le erano davanti, ma lei sembrò non accorgersene. Beatrice stava in piedi, le braccia ciondoloni, la testa china sul petto in una muta fiacchezza. Il mantello le era caduto dalle spalle per terra. Era vestita in bianco come le aveva chiesto la strega: erano passati tanti anni da quando si vestiva così, e gli abiti mostravano la sua forma sottile e il pallore delle sue gote. Le mani erano secche e gialle, i capelli completamente grigi; poche settimane prima, seppur brizzolato, il suo antico colore s’era mantenuto, ma da allora era cambiato tutto. Gli occhi affossati, cerchiati di nero e privi di luce.

Quando la strega finì il suo lavoro s’alzò e, prendendo un po’ dell’acqua della sorgente fra le mani la gettò su Beatrice, e poi le mise in testa una delle corone e l’altra su di sé. Allora disse a Bindo: «Sto per consacrare questo luogo. Tu devi andare.»

Bindo s’inchinò distratto e scomparve. La strega prese una strana brocca d’ottone e la riempì alla fonte, camminò intorno all’anfiteatro di alberi, spruzzando il terreno al suo passaggio e borbottando i suoi incantesimi, fino a tornare al punto dove stava Beatrice, bianca, ferma e in silenzio. «Sembri sul punto di svenire, figlia», disse; «bevi quest’acqua». La porse alle labbra della vittima, che bevve avidamente, e subito dopo ci fu un cambiamento nel suo aspetto: gli occhi si accesero, le guance arrossirono, la pesante catena della mortalità parve abbandonarla e divenne attiva e persino allegra. Gradualmente una sorta di trasporto la prese, un’ebbrezza dello spirito, che le fece perdere ogni inibizione sulle parole e le azioni, anche se le faceva vedere bene ciò che accadeva intorno [1].

«Sì, madre», disse, «So perché sono venuta. Adesso cominciamo. Sono un’incantatrice, lo sapete. Io posso fare apparire lui che prima ha disobbedito ai miei poteri? Sia così… cominciamo.»

«Ascolta», replicò Mandragola, «non c’è arte che richieda tanta pazienza come la nostra. Faremo i nostri incanti e tu lo vedrai passare a cavallo lungo quella strada: non cercare di parlargli. All’inizio esercita il tuo potere con moderazione e sarà più grande in seguito: legalo adesso con una paglia, col tempo sarà inestricabilmente affascinato. Stanotte è sufficiente che tu lo veda.»

«Sufficiente! oh! Io darei tutta la mia vita per vederlo un solo momento!»

La notte era del tutto silenziosa, l’aria era afosa e non si muoveva una foglia: gli alberi, bagnati dalla fredda luna, riposavano e la terra riceveva le sue ombre immobili sul suo cuore sereno. La sorgente mormorava, accanto stavano la strega e Beatrice… Beatrice, gli occhi al cielo, le braccia incrociate, i capelli attaccati al suo collo evanescente. Mandragola era tutta indaffarata: accatastava un mucchio di legna, spesso ci camminava intorno, cantava o intonava strani versi e lanciava acqua e olio sulla ragazza; disegnava, con una bacchetta di castagno, un cerchio che circondava il mucchio e il punto dove stava Beatrice, e le ordinava di non passare la linea prima del suo permesso, dato che il cerchio l’avrebbe protetta dagli spiriti che i loro terribili incanti richiamavano su di loro. Poi tornò di nuovo al mucchio di legna e vi pose sopra incenso, gomme odorose, piante e strani aggeggi tagliati in legno o modellati in creta, che nessuno poteva capire: poi per coronare l’opera tagliò una ciocca di capelli di Beatrice e la gettò sopra.

Aveva appena finito che un rumore leggero colpì il suo udito. «È l’ora!» esclamò e innalzò un canto selvaggio per coprire il suono del galoppo dei cavalli che si avvicinavano. Accese una torcia e gridò: «Questa è la tua opera, padrona dei poteri dell’aria. Accendi la pira e chiama tre volte il nome del principe di Lucca!»

Beatrice balzò avanti con furia, impugnò la torcia, la mise nel mucchio di legna che prese fuoco mentre lei gridava forte: «Castruccio! Castruccio! Castruccio!»

E allora, incapace di trattenere la sua agitazione, corse verso il sentiero in cui Mandragola aveva detto che sarebbe apparso. La strega la esortò a stare ferma, ma era troppo decrepita per inseguirla e fermarla: il rumore dei cavalieri adesso si sentiva distintamente. Beatrice s’inginocchiò in mezzo al sentiero dove dovevano passare. Con occhi lampeggianti e braccia tese guardava affannosamente davanti a sé: il bosco scuro la copriva, i raggi lunari le cadevano addosso e lì lei, un tempo la più bella, ora la più perduta, la più totalmente rovinata delle donne, si prostrava in frenetica attesa. I cavalieri erano vicini, una curva li nascondeva, finché non le furono addosso e allora lei vide Castruccio e Tripalda avanzare. Il suo cervello, già infiammato dall’impazienza e i suoi spiriti eccitati dalla droga che le era stata somministrata, non poterono trattenere più a lungo le sensazioni che la soverchiavano. La presenza di Tripalda per lei fu il segno di un intervento diabolico. Pensò di vederlo morto, che quello era il suo spirito apparso e, se così, era anche una forma irreale, solo la rassomiglianza di Castruccio che vedeva. Cadde in preda alle convulsioni sulla strada.

Castruccio, sorpreso dalla vista, scese giù da cavallo e i suoi attendenti lo seguirono. La strega, che andava zoppicando verso Beatrice, vedendoli scendere cercò di fuggire, ma Tripalda, che giudicava gli altri secondo il suo metro ed era sempre pronto a sospettare una mascalzonata, fermò la sua fuga e ordinò a due dei servi di agguantarla. Lei si sottomise in silenzio, ma si ostinò a non rispondere alle domande che le venivano rivolte. Beatrice fu portata alla fonte e cercarono, massaggiandole le tempie e sfregando le mani, di riportarla in vita: il principe in persona le reggeva il capo, ma non la riconobbe, tanto era del tutto cambiata da quella che un tempo fu la profetessa di Ferrara. Una volta riaperti gli occhi, Beatrice vide il volto di Castruccio chino su di lei e sorrise. Castruccio pensò di riconoscere quel sorriso, però Tripalda, lasciando la strega, si ficcò tra quelli che le stavano intorno. Nessuno che l’ebbe visto poté mai dimenticarlo. Lei vide ciò che credeva essere il genio del male della sua vita e cadde ancora svenuta.

Nel frattempo l’albino, che s’era appostato lì vicino, udendo il trepestio dei cavalli e il suono delle voci degli uomini, si spinse allo scoperto. Mandragola lo vide subito sotto il chiaro di luna uscire dal buio degli alberi. Si mise a gridare forte: «Scappa! scappa!». Le sue parole e i gesti attirarono l’attenzione delle guardie quando Bindo si voltò per obbedire agli ordini. Lo inseguirono e lo catturarono facilmente.

Fu portato da Castruccio che lo riconobbe all’istante. «Che ci fai qui?» domandò.«Non sei un servo della contessa di Valperga?»

«Lo sono.»

«Allora chi è questa donna e come è giunta qui?»

«È Beatrice di Ferrara. Non posso dirti di più finché lei…» e qui puntò il dito verso la strega «non mi dà il permesso.»

Il nome di Beatrice bastò per paralizzare il principe dalla pietà e il rimorso. «Beatrice!» gridò, e si buttò per terra accanto a lei baciandole la mano appassionatamente. Lei iniziò a riprendersi dallo svenimento, ma la ragione non tornava. Le prime parole che pronunciò furono quelle della follia. Delirava su ciò che aveva sempre oppresso i suoi pensieri nel delirio, la prigione in Romagna. Tripalda ascoltò le parole e balzò come se avesse calpestato una vipera. La sua carnagione giallognola s’impallidì di più, ma Castruccio non ci fece caso o non capì quelle parole. S’accorgeva che lei era agitata e, incapace di sopportare oltre il rimorso o la vista della sua sventurata vittima, dette ordini immediati che si portasse la ragazza con calma e attenzione al palazzo della contessa di Valperga, e che i suoi compagni fossero tenuti come prigionieri. E poi se ne andò via, cavalcando verso Lucca e, pensando al terrore che Eutanasia avrebbe provato se avesse visto portare a casa la sua sfortunata amica in tali condizioni, decise di andare per primo al suo palazzo ed informarla di ciò che era successo.

«E tu sei arrivata a questo, bella Beatrice?» pensò Castruccio. «e questa è la stessa creatura che, raggiante di bellezza e gioia, un tempo mi dava la sua benedizione nel palazzo del buon vecchio Marsilio? Ricordo quel giorno come se fosse ieri. E ora la trovo con i capelli grigi e un aspetto devastato, un giovane frutto totalmente marcito e, cosa peggiore, la sua ragione crollata è la vittima della sua miseria. Sono io la causa di questo?»

Cavalcò di corsa e arrivò presto al palazzo. Non aveva considerato che stava per vedere Eutanasia, bella e amata, e pensando solo a nient’altro che a Beatrice e trovando le porte aperte, entrò. Erano le tre del mattino all’incirca. Durante la notte Eutanasia aveva creduto di sentire un gemito provenire dalla camera di Beatrice e là accorse per scoprire se altre sofferenze turbavano la sua sfortunata ospite. La camera era vuota, il letto intatto. Cercò Beatrice nelle stanze accanto e, non trovandola, ebbe il panico e, svegliando tutti, la cercò nel palazzo, ma invano: nessuna traccia di lei. Mandò parecchi messaggeri in diverse porte della città per sapere se era stata vista, ed aspettò con ansia indescrivibile il loro ritorno.

Il principe trovò degli uomini che parlavano tra loro nel grande salone, e le prime parole che udì furono il nome di ‘Madonna Beatrice’.

«Non allarmatevi», disse avanzando. «Io so dov’è e presto sarà qui. Qualcuno di voi guardi di prepararle il letto e di chiamare un medico, perché è molto malata. Dov’è la contessa?»

Mostrandosi così inaspettatamente e solo, gli uomini non riconobbero il principe, ma l’orecchio fine di Eutanasia percepì il suono della sua voce e, uscendo da una stanza adiacente, gridò «Allora sapete dov’è la mia amica, Castruccio?»

«Certo che lo so», rispose: «ed è fortunata perché io l’ho strappata da cattive mani. Ma sono totalmente all’oscuro di come e perché sia giunta in un luogo così lontano dalla città.»

Raccontò in poche parole dove e in che modo l’aveva trovata e concluse dicendo «La lascio alle vostre cure. So quanto siete gentile e generosa. Se si rimette, vi prego di informarmi senza indugio della sua così buona ripresa.»

Appena detto questo, si sentì per la strada il rumore dei cavalli… lui esclamò: «Non ce la faccio a vederla ancora. Addio, Eutanasia. Abbiate pietà di lei e di me!»

Si precipitò fuori dal palazzo e pochi minuti dopo Beatrice fu portata dentro. Il suo aspetto era cadaverico, le braccia erano senza vita sulle spalle di uno degli uomini che la sorreggeva. I capelli erano umidi e i vestiti bagnati della rugiada del mattino. Aveva gli occhi aperti e guardava intorno in modo indefinibile. La misero in un letto e Eutanasia, avvicinandosi, le toccò la mano. Beatrice non se ne accorse, sembrava aver perso tutta la sensibilità, e il roteare degli occhi e i sussulti convulsivi del respiro erano i soli segni di vita che dava.

Perché descrivere le scene che seguirono nei giorni seguenti? Le descrizioni dell’orrore puro possono non essere piacevoli, e quali altri sentimenti potrebbero mischiarsi per attenuare quella sensazione, osservando lo stato di declino della povera Beatrice? Lei non recuperò più la sua ragione, né dormì mai. Di solito stava sdraiata, come detto sopra, pallida e immobile. Se si riaveva era solo per delirare e urlare, tanto da piegare anche il cuore più duro ad un eccesso di pietà. C’è chi conosce la follia, molti ne hanno letto le descrizioni. Beatrice chiamava Eutanasia, chiamava Castruccio, ma, più di tutto, s’immaginava d’essere incatenata al pavimento della cella nella sua orribile prigione, irrisa e derisa dai guardiani. Delle volte credeva che i suoi amati amici fossero incatenati accanto a lei a soffrire quei tormenti che aveva sopportato. Mai nelle sue frasi sconnesse diceva una parola di rimprovero contro Castruccio, anche se sembrava che lei talvolta pensasse che lui stava accusando se stesso, e allora con i più teneri accenti e la più coinvolgente tenerezza, lo pregava di non addolorarsi e lo rassicurava che non aveva commesso alcun torto.

Questi intervalli di delirio furono brevi e rari, Beatrice s’indebolì ulteriormente ed usciva ancora più di rado dal suo stato d’insensibilità. Stava evidentemente morendo. I medici non le diedero speranza di sopravvivere e i preti le s’affollarono intorno. Padre Lanfranco era tra questi, si rimproverava amaramente per averla lasciata e cercava di compensare la sua negligenza assistendola giorno e notte nell’attesa che le tornasse la ragione, quando avrebbe potuto chiederle se fosse morta nella fede della chiesa. Questo momento non arrivò mai, ma i preti furono indulgenti: posero il crocefisso sulla sua fronte e sembrò che lei lo stringesse. Una volta, menzionato il nome del suo Redentore, gli occhi s’illuminarono e un sorriso parve spuntare sulle labbra. Era così del tutto priva di sensi che questo non aveva alcun nesso con le parole ch’erano state usate, ma i preti caritatevoli scelsero di interpretarlo come un pegno interiore della salvezza della sua anima e le amministrarono i sacramenti. Non parlò mai in seguito e si spense sempre più giorno dopo giorno. Castruccio s’informava continuamente del suo stato, però non osava andarci. Eutanasia non lasciò quasi mai il suo capezzale e divenne pallida e quasi debole come l’agonizzante Beatrice.

Questo era stato l’effetto degli incanti della strega. Beatrice aveva bisogno delle cure più sollecite e invece aveva avuto uno choc che nervi più saldi dei suoi a malapena potevano sopportare. Fin qui la sua morte le era addolcita dalle attenzioni affettuose della sua amica e alla fine perse tutti i sensi, anche quelli del dolore. Morì in pace e serena come una bimba e le sue tante sofferenze e mali non la riempirono più d’angoscia e disperazione. Morì: Eutanasia era accanto a lei, quando udì un dolce sospiro, seguito da una immobilità della figura e rigidità delle membra, che mostravano che l’alterazione decisiva aveva preso luogo nel suo organismo.

Alla sua morte seguirono lacrime e lamenti. Eutanasia desiderava che il suo funerale fosse privato e passasse inosservato, ma Castruccio insisté che avvenisse con ogni tipo di cerimonia che si usava in quei tempi. La stanza fu tappezzata di drappi neri e oscurata come la notte per accendere le molte torce con cui veniva illuminata. Beatrice era adagiata su di un feretro, preparato con un addobbo costoso e un baldacchino con un tessuto di velluto nero ricamato in oro: fiori, la cui bellezza e freschezza irridevano il colore livido del cadavere, erano sparsi su di lei e per la stanza, e due ragazzi s’aggiravano muovendo turiboli con l’incenso. La camera era piena di prefiche, una, la principale, vestita di nero, coi capelli scarmigliati, in ginocchio vicino alla testa del catafalco, dette inizio al canto funebre. Cantava con una voce monotona sforzata ma non senza melodia: i versi erano estemporanei e descrivevano le virtù e le fortune della persona scomparsa, finivano con le parole:

Oimè! ora giace morta sulla bara! [2]

E le altre donne, riprendendo il tema centrale, gridavano con toni striduli:

Oimè! ora giace morta sulla bara!

Rimasero in silenzio di nuovo: e la Cantatrice [3], riprendendo il suo canto, ripeté un altro verso in lode della povera Beatrice. Castruccio le aveva detto a parte quale avrebbe dovuto essere il contenuto del suo canto. Il primo verso la descriveva come bella, amata e prospera tra gli amici e i concittadini: «Poi», gridava la cantatrice, «venne la rovina, perse tutto ciò che aveva caro e vagò in disgrazia per la terra. Chi può dire cosa ha sofferto? Le persone malvagie erano fuori, non se la lasciarono sfuggire; e lei fu vittima di crimini indicibili: seguirono mali peggiori, la follia e l’eresia, che minacciavano di distruggere la sua anima.»

La donna piangeva, piangeva lacrime sincere mentre cantava e le prefiche assoldate si univano al suo dolore. Ogni verso finiva con le parole,

Oimè! ora giace morta sulla bara!

che erano riecheggiate da tutte e accompagnate da urla e lacrime.

Terminò e, giunta la notte, venne l’ora dell’inumazione. I turiboli furono riempiti d’incenso e i sacerdoti bagnavano d’acqua santa la stanza. Quattro conversi alzarono il feretro e dietro un gruppo di preti e monaci, che avanzavano con il crocefisso cantando un De profundis. Le strade dove passavano furono illuminate a giorno dalla luce delle torce. Dopo i sacerdoti venne il feretro su cui giaceva esposto il corpo, ricoperto di fiori. Molte ragazze e donne della città seguivano, ognuna con un cero. Una schiera di cavalli chiudeva la processione. Era mezzanotte quando entrarono in chiesa, la luna proiettava l’ombra del finestrone sul pavimento, ma tutte le ombre erano cancellate dalle torce che riempivano la chiesa. Beatrice fu messa nella sua tomba serena e, con una messa per il riposo della sua anima, la cerimonia finì.

Eutanasia non era presente: e, pur desiderando stare da sola per piangere in pace sul destino della sua sventurata amica, fu costretta a ricevere le visite delle donne lucchesi, che venivano in quest’occasione a fare le condoglianze e forse a soddisfare la propria curiosità del caso. Il banchetto funebre fu sontuoso e con molti partecipanti, anche se pochi sapevano in onore di chi veniva dato. Eutanasia si sottraeva alle domande ed era in collera con Castruccio per averla messa in una situazione così scomoda. Le sembrava più adatto al destino disgraziato di Beatrice che le fosse stato concesso di andarsene senza etichetta, pianta solo da coloro che conoscevano il suo valore e lamentavano le sue sfortune ineffabili. Era il falso orgoglio di Castruccio a farlo pensare in modo diverso, e tali erano i pregiudizi del tempo, che i suoi contemporanei condividevano con lui, da fargli in qualche modo compensare le ingiurie che Beatrice aveva ricevuto da lui con la magnificenza del suo funerale.

Dopo che la cerimonia si concluse, Castruccio pensò subito ai due individui che aveva trovato nella foresta con la loro vittima. Mandragola aveva mantenuto un silenzio costante e né le minacce né la stessa tortura poterono indurla a parlare. Bindo era fatto di pasta più fragile, la strega lo obbligò a non rivelare ciò che era successo e avrebbe gettato sul suo capo le più terribili maledizioni se lui avesse disobbedito. Bindo tremava, ma la vista degli strumenti di tortura lo sopraffece e confessò tutto. Mandragola fu condannata dalle leggi che allora esistevano in ogni paese contro gli autori di magia nera, e subì la morte di una strega. Eutanasia cercò di far liberare l’albino, ma invano. Fu rinchiuso nelle celle del convento domenicano, soffrì la mancanza della libertà e in pochi mesi morì.

Il legame che legava Eutanasia a Lucca ormai s’era spezzato. Per molti giorni, dimentica di sé, restò addolorata per il destino della sua amica. Tuttavia poco a poco tornarono in lei i sentimenti della vita presente, e non vedeva l’ora di lasciare una città che era stata per lei teatro di tremende sventure. Due mesi dopo la morte di Beatrice tornò a Firenze, dove trovò, in compagnia dei suoi amici e nella coltivazione della sua mente, qualche sollievo dal dispiacere e una consolazione per i molti mali che aveva sopportato.



[1] N.d.a. Giusquiamo (henbane, hebenon, Shakespeare): era l’ingrediente principale di queste droghe tossiche. Aveva la proprietà di far impazzire.

[2] In italiano nel testo.

[3] C.s.



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