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“Valperga”– Mary Shelley XXXIV

Creato il 30 aprile 2012 da Marvigar4

De Groux Vecchia presso dei cadaveri 1916 ca

Mary Shelley (1797-1851)

VALPERGA

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La vita e le avventure di Castruccio, Principe di Lucca

Traduzione integrale di Marco Vignolo Gargini dall’originale in inglese Valperga; or the Life and Adventures of Castruccio, Prince of Lucca

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Capitolo 34

Progressi in armi di Castruccio. Porta la devastazione alle porte di Firenze. Si forma una congiura contro di lui.

Castruccio adesso era da sei anni signore di Lucca e aveva raggiunto il suo trentatreesimo anno di vita. Il carattere era formato e la sua fisionomia, cambiata rispetto all’espressione giovanile, portava i segni dei suoi sentimenti abituali. L’esposizione costante al sole e all’intemperie avevano imbrunito le sue guance che, a parte questo, s’erano impallidite come quelle di un morto. A causa delle preoccupazioni e delle forti emozioni a cui era soggetto il suo aspetto era segnato, gli occhi infossati e la brillantezza liscia della sua fronte era solcata dalle rughe, che in effetti apparivano graziose per la sua età, indicando l’evoluzione del pensiero, anche se alcune, più sparse e vaghe, mostravano che quelle passioni i cui segni esteriori lui aveva represso colpivano comunque il principio vitale. I suoi occhi non avevano perso la loro luce, ma non avevano più dolcezza. Era gentile e persino gradevole con i suoi amici, finché li considerava tali, ma diffidava facilmente e allo sguardo freddo e ai favori non più concessi seguivano i sospetti: se questi non erano accompagnati dalla docilità e sottomissione, nasceva subito un odio che non mancava di distruggere il suo oggetto. Bastava solo il sospetto, ciò che era una causa sufficiente, d’esser diventato tanto sgradito al suo principe per sentirsi dire che la sua volontà era che si partisse all’istante da Lucca e la confisca dei beni del sospettato riempisse le casse pubbliche. Se pensava d’aver ragione a temere, il destino dell’uomo che temeva era segnato. Castruccio era crudele e spietato e la morte della sua vittima non gli bastava. Parecchi furono messi alla fame per suo ordine e ad altri furono inflitte le peggiori torture. Questo poteva essere attribuito alle usanze dei tempi, però la crudeltà era diventata un tratto fondamentale del carattere di Castruccio.

Se lui era temuto dai nemici in guerra aperta, la sua politica segreta era ancora più temibile. Non aveva dimenticato le lezioni d’Alberto Scoto e, come l’attentato alla vita del re di Napoli può provare, i suoi provvedimenti forse erano stati influenzati dai consigli di Benedetto Pepi. Aveva molte spie in ogni città e riceveva informazioni da ogni corte della Lombardia. Le donne e i preti erano i suoi strumenti consueti e persino il più insigne tra i cittadini era indotto dalla sua generosità a tradire il governo del proprio paese.

Questo era Antelminelli, un tempo amante di Eutanasia: audace, astuto, generoso e crudele. Il male predominava nella sua personalità e, seppur amato da pochi, era odiato da molti e temuto da tutti. Le sue guerre continue, che impoverivano gli stati vicini, non lo arricchivano. La sua politica scaltra seminava diffidenza tra gli amici prediletti e le spie e i traditori abbondavano durante il suo principato. A Lucca era come un’aquila in gabbia, aveva una smania che sembrava pretendere il dominio sul mondo e, debole com’era nei mezzi e nelle speranze, faceva tremare le nazioni.

L’oggetto della politica attuale di Castruccio era Firenze. Procedeva a passi misurati, ma stava ottenendo continuamente vantaggi sullo stato rivale, migliorando la sua disciplina militare e preparandosi per l’assalto finale. Il suo primo tentativo fu su Pistoia, e conquistò questa città grazie ad un duplice tradimento. I fiorentini s’allarmarono per quest’evento così disastroso e il papa inviò Raimondo di Cardona, uno dei più eminenti generali del tempo, che i fiorentini misero subito a capo dell’esercito. Cardona attraversò la Guisciana e devastò la pianura di Lucca, per anni risparmiata dalla spada nemica, ma, quando fu necessario il ritiro, Castruccio intercettò con abili mosse la sua marcia, ottenne una vittoria completa e, dopo un breve ma duro combattimento, fece prigioniero Cardona e tutto il suo esercito.

La battaglia di quel giorno fu chiamata la campagna d’Altopascio. Arrigo Guinigi fu tra i caduti e la sua perdita fu molto sentita da Castruccio. Il principe di Lucca aveva sempre guardato a lui come a un tesoro consegnatogli dal padre d’Arrigo e, tra tutte le pecche, Castruccio conservava la sua gratitudine per le lezioni di quell’uomo ammirevole e un dolce ricordo dei giorni di pace passati con lui tra i colli Euganei. Aveva amato Arrigo come un fratello o un figlio. Non avendo prole qualche volta pensava che, pur essendoci poca differenza d’età tra loro, Arrigo gli sarebbe succeduto, che i suoi figli sarebbero stati gli eredi e che, se non vincolato a lui da legami di sangue, lo avrebbero tuttavia considerato con lo stesso rispetto e gratitudine con cui una discendenza onorata guarda il fondatore della loro casa. L’ambizione indurisce il cuore, ma la consistenza della mente umana è tale che è costantemente spinto a contemplare quei giorni, in cui il suo scettro un tempo spaurito sarebbe caduto dalla sua presa intorpidita; il peggior usurpatore, mentre avanza negli anni, guarda con tenerezza i suoi figli che, nell’esercizio sereno del potere, stanno cancellando la memoria delle illegalità con cui lui ha assunto il potere. Castruccio vedeva il figlio di Guinigi sotto questa luce e provò una fitta di sincero e profondo dolore quando toccò a lui coprire la sua tomba erbosa, in mezzo agli altri con cui aveva invaso la piana attorno ad Altopascio, e ordinare di segnare il posto dove le spoglie di Arrigo riposavano con una colonna sepolcrale.

Da Altopascio Castruccio avanzò con il suo esercito fino alle porte di Firenze. I contadini scappavano davanti a lui e si rifugiavano in città con i beni che potevano salvare. Il resto fu preda dell’armata lucchese che marcava l’avanzata con il fuoco e la devastazione. Tutti i raccolti erano stati sequestrati, però i soldati di Castruccio portavano a termine la loro vendetta sui campi strappando e bruciando le viti, tagliando gli olivi, prendendo o incendiando le provviste invernali e riducendo i tuguri dei poveri in un mucchio di rovine informi. La campagna intorno a Firenze era abbellita da numerose ville, le residenze estive dei cittadini ricchi decorate con tutto il lusso dell’epoca, i terreni formavano i più deliziosi giardini, dove incantevoli alberi e fiori decoravano il paesaggio, e ruscelli e cascate naturali e artificiali diffondevano il fresco in piena estate. Questi furono preda dei soldati. I palazzi furono saccheggiati e poi messi a fuoco, i campi coltivati ricoperti di rovine, i rigagnoli intasati e tutto ciò, che pochi giorni prima aveva mostrato lo spettacolo del paradiso terrestre, appariva adesso come se un terremoto facendosi beffe delle migliori cure degli uomini l’avesse ridotto in macerie.

L’esercitò s’accampò davanti le porte di Firenze. Le truppe rimanenti di Cardona e il resto dei cittadini in grado di prendere le armi avrebbero formato una forza sufficiente a fronteggiare l’armata dell’Antelminelli. Ma più che dei loro nemici dichiarati, i fiorentini avevano paura dei traditori interni, infatti molti dei primi cittadini erano prigionieri del principe di Lucca, e si temeva che con i loro rapporti potessero tentare di assicurarsi la libertà anche tradendo la loro città. Giorno e notte sorvegliavano le mura e le porte, pattugliavano le strade, guardandosi a vicenda con sospetto, e udendo con paura e orrore gli strepiti dell’esultanza e delle sommosse che provenivano dall’accampamento di Castruccio.

Il principe, a disprezzo e derisione degli assediati, incoraggiava ogni tipo di passatempo e burla offensiva che potesse pungere il suo orgoglio, anche se umiliava i nemici: istituì dei giochi e delle corse, coniò monete e provocò continuamente i cittadini ad uscire dalle mura e a scontrarsi con lui in battaglia. Gli uomini, prontissimi a cogliere lo spirito dell’odio e del ridicolo, si divertivano gettando in città con le loro catapulte [1] le carcasse di asini e cani morti. Guai ai fiorentini che cadevano nelle loro mani: se era una donna, nemmeno l’innocenza o le lacrime potevano salvarla dalla loro brutalità, e con un uomo invece gli insulti, pur di minore crudeltà, erano tuttavia a stento meno acuti e umilianti: era uno scherno comune portare un prigioniero nudo per l’accampamento su di un asino con la faccia rivolta verso la coda. Castruccio forse non capiva appieno fino a che punto arrivava la ferocia dei suoi soldati, ebbri della vittoria; se lo capiva, chiudeva un occhio, perché non aveva quella magnanimità che lo avrebbe portato a trattare con rispetto e gentilezza il nemico sconfitto.

Mentre i soldati lucchesi se la spassavano, ingozzandosi dei cibi e vini delicati dei nobili fiorentini, e consumando in poche settimane le provviste di anni, gli abitanti della città assediata mostravano un aspetto assai diverso. I paesani, costretti a lasciare le loro case, s’erano rifugiati a Firenze, le cui porte gelosamente chiuse non consentivano l’incremento dei mezzi di sussistenza. Perciò, a causa della sovrappopolazione della città e del cibo malsano con cui le classi più povere erano costrette ad alimentarsi, la pestilenza e altre febbri contagiose si annunciavano: le strade si riempirono di tristi processioni, le campane suonavano perennemente a morto, i cittadini invitavano gli amici ai banchetti funebri, ma i posti di molti degli invitati restavano vuoti per la loro scomparsa, e gli ospiti che li celebravano erano stati invitati a parecchie commemorazioni simili. Tutti i volti erano pallidi e atterriti. I magistrati furono obbligati ad intervenire: ordinarono ai parenti dei morti di non celebrare i funerali riunendo i loro amici, o di suonare la campana durante la cerimonia, in modo che i molti morti potessero essere celebrati senza terrorizzare con il loro alto numero i sopravvissuti. Tuttavia questo provvedimento non poteva nascondere i funerali ch’erano così frequenti in città: le vie erano pressoché deserte, eccetto i monaci che correvano da casa a casa con la croce per impartire i sacramenti ai morenti; mentre i poveri, quasi morti di fame e spesso senza casa, morivano per strada o erano portati in orribili gruppi agli ospedali e conventi di carità. E questo fu opera di Castruccio.

Eutanasia vedeva questo e sentiva come se, stretta a lui da un legame indissolubile, fosse suo compito seguire come un angelo le sue tracce per guarire le ferite che lui aveva inflitto. Vestita con un abito grossolano e tentando di mettere da parte quei sentimenti di riserbo che erano in lei, visitava la case dei poveri, aiutava i malati, nutriva gli affamati e svolgeva gli uffici che persino le mogli e le madri scansavano per il disgusto e la paura. Un sentimento eroico s’impossessò della sua mente e la elevava al di sopra dell’umanità: doveva espiare per i crimini commessi da colui che aveva amato.

Bondelmonti un giorno l’andò a trovare, lei aveva appena chiuso gli occhi di una povera donna, il cui marito e i figli erano fuggiti dalla loro madre e moglie per paura del contagio. S’era cambiata d’abito dentro il palazzo e si sdraiava sfinita, perché non aveva dormito le due notti precedenti. Bondelmonti s’avvicino senza che lei se n’accorgesse e le baciò la mano. Eutanasia si ritrasse: «Attento!» disse. «Se sapessi da dove vengo non toccheresti la mano che può infettare.»

Bondelmonti la rimproverò per la sventatezza con cui esponeva la sua salute e la sua vita, ma Eutanasia lo interruppe: «Ti ringrazio, caro cugino, per la tua preoccupazione, però mi conosci da tempo e non ce la farai a dissuadermi dal fare ciò che considero mio dovere. Ma cosa vuoi dirmi adesso? Avverto dei pensieri gravi sulla tua fronte?»

«E in questo non sono come il resto dei nostri concittadini? Tu vedi, Madonna, forse meglio di tutti noi, gli stenti a cui la nostra città è ridotta, mentre questo tiranno lucchese trionfa. Avverti le nostre miserie troppo bene per non commiserarle e confido che tu sia una patriota troppo nobile per non desiderare di porre fine ad essi al più presto.»

«Amico mio caro, cosa dici? Sacrificherei la mia vita e di più per essere d’aiuto ai miei paesani. Dio sa quanto mi rammarichi profondamente per le loro sconfitte e disgrazie. Che si può fare? Solo un angelo potrebbe ispirare le nostre truppe con quello spirito e coraggio adatti per spuntarla sulle forze del principe.»

«Hai ragione, però ci sono altri mezzi per rovesciarlo. Considera, Eutanasia, che lui non solo ci conquista e ci saccheggia, ma che è anche un tiranno crudele e sanguinario, esecrato dalle gerarchie della nostra religione, temuto e odiato da tutti quelli che hanno a che fare con lui, uno la cui morte spanderebbe gioia e esultanza in tutta Italia.»

«La sua morte! » Le guance pallide d’Eutanasia si fecero ancora più pallide.

«No, tu sei una donna e, malgrado la tua forza mentale superiore, vedo che ti lasci terrorizzare dalle parole. Non parliamo più della sua morte, ma solo del suo rovescio: dobbiamo idearlo.»

Eutanasia rimase in silenzio. Bondelmonti proseguì:

«Rammenta, Madonna, le molte persone eccellenti e virtuose che ha assassinato. Non occorre ricordare il tuo amico Leodino o altri. I suoi nemici sono caduti sotto i suoi colpi come alberi in una foresta, e lui sente così poco rimorso come il taglialegna che li abbatte. Tortura, confische, tradimento e ingratitudine sono andati a braccetto con l’assassinio. Prima del suo avvento Lucca era dei guelfi e la Toscana era in pace. Adesso i primi nobili del paese sono caduti vittima della sua gelosia o vagano come straccioni per l’Italia. Tutto ciò che è virtuoso e degno sotto il suo dominio prega giornalmente per la sua caduta e questa adesso è molto vicina; i mezzi sono pronti, gli strumenti si preparano.»

«Per la sua morte?» urlò Eutanasia.

«No, se tu intercedi per lui, può essere salvato: ma ad una condizione.»

«Quale?»

«Che tu ti unisca alla nostra congiura e appoggi la sua esecuzione. Così Antelminelli può salvarsi, altrimenti il suo destino è segnato. Considera questa alternative. Puoi prenderti una settimana per riflettere su quanto ho detto».

Bondelmonti se ne andò. Il sonno che stava per visitare i suoi sensi stanchi le passò, spaventata com’era dai dubbi e dall’angoscia che le opprimevano il cuore.

Sentì con gravità raddoppiata questo cambiamento dalla calma che aveva goduto per i tre anni precedenti ai timori e miserie di uno struggimento del quale non vedeva la fine. La tirannia e le propensioni guerresche di Castruccio erano così del tutto in opposizione ad ogni suo sentimento, che non avrebbe lamentato la sua caduta specie quando poi forse avrebbe concepito come suo dovere stare vicino a lui nella disgrazia, consolare le sue speranze deluse ed insegnargli la lezione della contentezza nell’oscurità. Ma unirsi alla congiura, essere tra quelli che complottavano contro di lui, aiutare la direzione del colpo che avrebbe distrutto, se non la sua vita, almeno tutto ciò che era necessario per la sua felicità, era un compito che, chiamata a realizzare, la rabbrividiva.

Nessuno nel proprio senso del dovere può agire coscienziosamente, o forse andare persino oltre quel senso, nell’esercizio della benevolenza e dell’abnegazione, senza essere ripagato dalla più dolce e sicura felicità che l’uomo può godere, l’auto-approvazione. Eutanasia s’era dedicata per settimane a curare i malati e nutrire gli affamati, la sua benevolenza fu ripagata da spiriti salutari e pace della mente, che nessuna circostanza di vita transitoria sembrava potessero disturbare. Fu inutile aver assistito a scene di dolore e d’infelicità, provava quella pietà che si dice gli angeli provano, ma la natura della mente umana è così strana che la serenità più impeccabile regnava nella sua anima. Il suo sonno, quando trovava tempo per dormire, era profondo e piacevole. Quando si muoveva si sentiva come l’aria, tanta era l’elasticità e la leggerezza di spirito nei suoi movimenti e nei pensieri. Piangeva e ascoltava i gemiti e i lamenti dei sofferenti, però come se fosse innalzata sopra la loro sfera, e la sua anima, vestita con abiti di tessuto celeste, non poteva macchiarsi di scorie terrene. Adesso tutto questo era cambiato. Si sentì di nuovo parte dell’umanità debole, piena di dubbi, paurosa, speranzosa.

Quando l’esercito di Castruccio si ritirò davanti le mura di Firenze, le porte si aprirono e i suoi abitanti furono sollevati dalla pressione e dal peso della sovrappopolazione. Ma dove andavano i contadini? Trovarono le case bruciate, le viti, speranza dell’anno venturo, distrutte, rovine orrende erano davanti e il volto rifletteva gli orrori di un lungo cammino di fame che si preparava per loro. Eutanasia poté fare ben poco nel disastro totale. Quel che poté fare lo fece. Limitò le proprie spese e tutti i soldi che riuscì a raccogliere furono spesi per alleviare questa povera gente. Ma era una miseria, una goccia d’acqua nell’oceano delle loro calamità.

Tornava da una di quelle visite in campagna, dove era stata colpita dall’orrore nel vedere l’inadeguatezza del suo contributo ai bisogni. Un intero paese era stato devastato, gli attrezzi agricoli distrutti, il bestiame portato via e non c’era cibo per i paesani affamati né speranza di un raccolto per l’anno a venire. Aveva sentito maledire il nome d’Antelminelli richiamato alla mente da un padre, quando i figli gli chiedevano invano da mangiare e Castruccio era indicato come causa di questa miseria. Eutanasia pensò: «Se Dio soddisfa, come dicono che fa, le maledizioni degli offesi, come potrà salvarsi la sua anima, gravata dalle imprecazioni di migliaia? Io comunque non approvo le speranze dei suoi nemici e non sarò lo strumento per trascinarlo giù dal suo posto di comando. L’ho amato e ciò che in altri può essere solo vendetta, per me sarebbe tradimento ed empia ingratitudine. Ingratitudine! E per cosa poi? Per le speranze perdute, la felicità distrutta e la fiducia nella virtù scossa. Questi sono i benefici che ho ricevuto da lui, eppure io non mi unirò ai suoi nemici.»

Al suo ritorno al palazzo c’era Bondelmonti che l’aspettava. «Hai deciso?» chiese.

«Sì. Non posso partecipare alla vostra congiura.»

«Tu sai, Madonna, che così decidendo tu firmi la sua condanna a morte?»

«No, cugino, è ingeneroso e codardo usare una minaccia del genere con me. Se è condannato a morte, cosa che davvero non può, non deve essere… come potrei salvarlo? Come potrei io, una donna, allontanare i pugnali dei cospiratori? Di sicuro, se non tradendo il tuo complotto, forse qualcosa potrebbe alla fine obbligarmi a farlo.»

«Spero di no, Eutanasia. Per il tuo bene… per il bene d’ogni virtù che vive nel genere femminile, spero che tu non sia portata a commettere un’azione così bassa. Tu non puoi danneggiarci. Se tu informi Antelminelli che c’è una congiura contro di lui e che io ne sono a capo, non farai altro che dirgli ciò che lui sa già. Non ha bisogno delle lezioni della storia, la sua esperienza gli insegna a sufficienza che la spada appesa a un capello è sospesa sulla testa del tiranno. Lui sa d’aver nemici e ne ha troppi per arrestarli tutti: sa che i suoi amici sono infidi, ma non s’immagina mai chi sarà il traditore in quest’occasione. Non potrà essere sorpreso, né gli gioverà affatto sapere che io sono il primo cospiratore. Sono sempre stato il suo nemico aperto e giurato e non è questo il mio primo tentativo per ottenere la sua caduta.

Riguardo a ciò che dici della mia puerile minaccia, tu mi fraintendi molto a definirla una minaccia. Le persone che devono agire in quest’affare sono lucchesi, io forse dirigo i loro sforzi, ma loro sono gli attori. E, se hai udito le spaventose maledizioni che lanciano su Castruccio, se hai visto l’odio profondo che i loro occhi esprimono nel nominarlo, la loro gioia feroce quando sognano che un giorno potranno compiere la loro vendetta su di lui, ti accorgeresti che la sua vita è davvero in gioco. Non mi auguro che lui muoia. Forse sbaglio. Se la sua vita si salva, è probabile non ne verrà alcun bene dalla sua caduta e che in realtà non sarà sparso del sangue. Ma io ho mangiato alla sua tavola e lui è stato mio ospite tra queste mura, così che proteggerei la sua vita, e mi sono rivolto a te come alla persona che può aiutarmi di più in questo. Cos’altro posso fare? Non posso andare a Lucca a sorvegliare e trattenere la rabbia dei suoi nemici, né trovare un lucchese a cui oserei rivelare il segreto della congiura e di cui potrei fidarmi per proteggere la sua persona. Questo compito in effetti sembra naturale lasciarlo a te. Tu odi la tirannia e la guerra. Sei guelfa, ti piacerebbe vedere il nemico del nostro paese, l’autore dei mali innumerevoli che subiamo, tolto di mezzo dal suo governo: ma l’antica amicizia, lo scambio reciproco d’ospitalità rende cara a te la sua persona e la tua dolcezza femminile, e forse la debolezza, verrebbero in soccorso di questi sentimenti. Tu sei libera d’andare a Lucca. Potresti mischiare la voce dell’umanità con le macchinazioni sanguinose di questi uomini. Tu potresti salvarlo, e solo tu.»

Eutanasia fu molto scossa dalle rimostranze di Bondelmonti. Ma i suoi pensieri erano ancora confusi. Non vedeva alcun principio stabile su cui basarsi e che le facesse da guida per uscire dal labirinto. Fece una pausa, esitò, e chiese ancora pochi giorni per considerare il tutto. E Bondelmonti a malincuore accettò.

Nel frattempo Castruccio era impegnato nell’esibizione di un trionfo che fu condotto con ineguagliabile splendore e in cui, come un barbaro spietato, il principe di Lucca guidava Cardona e tutti i suoi più eminenti prigionieri a corteo del suo carro.



[1] Balestri nell’originale.



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