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“Valperga”– Mary Shelley XXXVI

Creato il 14 maggio 2012 da Marvigar4

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Mary Shelley (1797-1851)

VALPERGA

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La vita e le avventure di Castruccio, Principe di Lucca

Traduzione integrale di Marco Vignolo Gargini dall’originale in inglese Valperga; or the Life and Adventures of Castruccio, Prince of Lucca

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Capitolo 36

Eutanasia si trasferisce a Lucca. Incontro con Tripalda. Tripalda fa la spia.

Uno dei primi effetti dell’entrata d’Eutanasia nella congiura di Bondelmonti fu un viaggio da Firenze a Lucca. Era necessario per lei trovarsi lì un po’ di tempo prima dell’avvio del piano, in modo da poter essere in grado di svolgere la parte a lei assegnata. Lasciò la sua città natale a malincuore. Era la fine del mese di novembre, il cielo minaccioso presagiva la pioggia e la terra spoglia, priva dei suoi ornamenti estivi, appariva raffreddata dalle folate gelide che vi passavano sopra. Gli olivi e i lecci, i pochi sugheri e i cipressi che crescevano sui declivi dei colli, variavano il paesaggio con il loro verde sobrio: ma avevano un aspetto funereo, erano come il drappo dell’anno morente e il canto malinconico dei loro rami mossi era la sua nenia.

La mente d’Eutanasia non riusciva ad essere spensierata. Avvertiva a fondo il rischio del progetto in cui s’era imbarcata, eppure il suo rischio era una delle considerazioni che la riconciliava con esso. Affrontare Castruccio con una forza superiore e spogliarlo di tutto il potere con una garanzia per sé, sarebbe stato odioso ai suoi sentimenti, le sembrava che avere una parte del genere le avrebbe procurato la disapprovazione dell’umanità. Ma lei s’avvicinava alle fondamenta del suo potere per una strada piena di pericolo. Brancolava nell’aria torbida della notte, i gufi e i pipistrelli le volavano davanti e sbattevano le ali nei suoi occhi. Il suo passo era incerto… un precipizio s’apriva in ogni lato e l’effetto probabile della sua impresa era l’ignominia e la morte. Provava tutto questo. Il nome di Tripalda aveva spento nel suo petto ogni speranza di successo. Sentiva che la purezza dei suoi intenti l’avrebbe scusata ai suoi occhi e allora poteva sopportare pazientemente tutto il male e l’amarezza che le poteva capitare. Né poté dire con le parole del poeta,

Passano, le ruote del carro dei miei cari complotti,

E portano i miei scopi alla desiderata meta!

Non c‘è ancora scrollata d’ingegno, o abisso di pensiero,

Non equivoco roccioso, spinoso dedalo,

O altro impedimento d’ogni dubbio:

La tua strada è ancora liscia e piana,

Come il verde oceano in un silenzio calmo [1].

No! Il corso che seguì era un sentiero scivoloso che sporgeva su un baratro terribile come la morte: il mare dove navigava era pieno di sabbie mobili e i suoi frangenti minacciavano un’immediata distruzione.

Delle volte s’imponeva a lei il ricordo della sua vita tranquilla a Firenze, e più di quello le sue opere di carità nell’assistere i malati in città dalle quali, come da un calice sgrossato colmo di nettare, aveva tracannato la felicità. Altre volte rimproverava il destino di non averla fatta cadere vittima delle sue pericolose fatiche, però tentava di eliminare questi ricordi dalla mente e guardare avanti e non dietro. Però quali nubi dense nascondeva il futuro e quale tuono brontolava sopra? Era spinta da un proposito virtuoso, che per lei sarebbe stato come le ali dell’aquila o lo zoccolo fermo del camoscio che passa sul precipizio.

E poi, se l’impresa aveva successo, avrebbe salvato Castruccio. Ma per lei lui sarebbe stato immolato dai suoi nemici ingordi. La sua mano avrebbe allontanato i loro pugnali, la sua voce ordinato «Fermi!»… l’immaginazione raffigurava tutta la scena. Sarebbe stato catturato dai nemici in attesa della morte, poi trasportato a bordo sotto una delle insegne del re di Napoli. E lei sarebbe stata là a proteggerlo. All’inizio lui avrebbe potuto respingerla, forse l’avrebbe disprezzata: ma l’indulgenza paziente e il mite contegno d’Eutanasia l’avrebbero mitigato; avrebbe visto le lacrime della sua devozione, ascoltato la sua difesa e l’avrebbe perdonata. Avrebbero sbarcato in una bella isola nel mare di Baia… la sua prigione. Una dimora le cui mura sarebbero state l’oceano, e le sbarre e le serrature l’aria che tutto racchiude… gli sarebbe stata assegnata l’isola di Ischia. Là avrebbe osservato la terra dove vivevano i filosofi dei tempi antichi, studiato i loro insegnamenti e le loro conoscenze molto sagge sarebbero scese nella sua anima, come la rugiada del cielo sulla figura riarsa di chi vaga nei deserti d’Arabia. Avrebbe amato a poco a poco l’oscurità. Insieme avrebbero osservato la glorie meravigliose del cielo e la bellezza di quel mare trasparente, il cui pavimento di ciottoli, conchiglie e alghe è come un palazzo rosa lastricato di diamanti, splendente istoriato com’è dai raggi del sole. Avrebbe visto la fiamma sorgere dal Vesuvio e guardato da lontano il fumo della lava ardente… era l’emblema della sua vita precedente, ma poi sarebbe diventato, come la terra che calcava, un vulcano spento e il suolo si sarebbe rivelato più fertile, più ricco in bellezza e eccellenza di quelle fredde nature che non hanno mai provato il calore ravvivante delle passioni potenti e soggioganti.

Così lei sognava e s’ingannava nella tranquillità. Giunse a Pisa, dove fu accolta da Orlando Quartezzani, che le spiegò il complotto fin nei minimi particolari e la supplicò di affrettarne l’esecuzione. Disse: «Io soffro, in esilio per vedere ancora quel tiranno ingrato seduto su un trono che, se non è formato dai nostri crani, esiste ancora solo per torturarci e distruggerci. I miei fratelli sono lenti, quegli Avogadii, pigri ed inerti. Sono ancora a Lucca, vedono le fertili valli, vivono tra le sue montagne. Talvolta mi spingo fino alla cima del colle di San Giuliano e osservo le sue torri quasi ai miei piedi: però desidero ardentemente essere una cosa sola con i miei concittadini per rientrare nella lista dei vivi.»

Eutanasia lasciò Pisa. Attraversò la pianura fino ai piedi delle colline e passò lungo Pugnano e Ripafratta. Era molto triste. Come avrebbe potuto essere altrimenti? Era entrata in una gara la cui pena era la morte e il premio era comunque coperto dalle nebbie dell’avvenire… sarebbe finita in modo persino più dannoso e terribile della stessa morte. Ma non c’era spazio per ritirarsi, la via era stretta e il suo carro non poteva svoltare. Doveva puntare i suoi occhi alla meta, per un epilogo buono o cattivo, doveva giungere là e là cercare e trovare il compimento del suo destino.

Entrò a Lucca agli inizi del mese di dicembre e andò subito al palazzo che le era stato assegnato dal governo lucchese a risarcimento del suo castello demolito. La sera stessa in cui arrivò i due capi della congiura, Ugo Quartezzani e Tripalda, le fecero visita. Il nome di Tripalda, ripetuto così spesso e con orrore da Beatrice morente, le impedì di comunicare con uno che aveva infangato la sua vita con i più folli crimini. In questa occasione tuttavia fu obbligata a placare lo sdegno, e lui, preso dal senso della sua importanza, fu più presuntuoso e insolente che mai.

«Madonna», disse, avanzando con un portamento eretto e con gli occhi chiusi a metà che, pur non abbassati comunque evitavano sempre di guardare dritto verso chi parlava… «Madonna, lodo molto la vostra saggezza per essere entrata nella congiura. Tutti noi sappiamo che, quando scegliete di esercitare il vostro talento, siete la donna più intelligente in Toscana. Questo è un momento che vi farà apparire per come siete veramente.»

«Messer Battista, smettiamola di parlare di me e dei miei poveri talenti: siamo venuti a parlare d’argomenti ben più gravi, e io reco un messaggio a Messer Ugo da parte di suo fratello Orlando.»

Iniziarono a discutere del futuro, però Tripalda non avrebbe permesso a nessuno di parlare tranne che a lui e camminava su e giù per la stanza esprimendo la sua opinione a voce alta.

«Silenzio, per amor di Dio!» gridò Ugo, «qualcuno ci sentirà e saremo tutti perduti.»

Tripalda si guardò intorno con sospetto, s’avvicinò sulla punta dei piedi al sofà dove Eutanasia e Ugo sedevano e, sussurrando, disse: «Vi dirò che succederà. Guardate! Ho già affilato il pugnale che colpirà al cuore il tiranno.»

«Ora la Madre di Dio lo difende!» urlò Eutanasia, impallidendo: «questo va oltre il mio patto. Prendete nota, Ugo, che io sono entrata in questo complotto a condizione che la sua vita fosse salva.»

«Donne! Donne!» disse Tripalda con disprezzo. «Corpo di Bacco! Mi chiedo che intenzioni aveva Bondelmonti a mettere dentro una donna nel piano. In un modo o in un altro le donne hanno mandato all’aria e manderanno sempre all’aria tutti i progetti che la saggezza maschile ha organizzato. Io dico che lui deve morire.»

«Io dico di no, monsignore. E ricordate, voi non siete uno che osa spiccare un mandato sulla vita d’Antelminelli. Lui è sorvegliato da spiriti della cui vera esistenza voi siete all’oscuro. È sorvegliato dall’amore devoto e dalla virtù disinteressata e voi non lo metterete in pericolo.»

«Voi di sicuro parlate di spiriti di cui io e tutti gli uomini saggi nulla sanno. In questo caso non vedo esattamente quale amore devoto abbia a che fare con una congiura per rovesciare la fazione amata e, riguardo la virtù disinteressata, tutta la virtù che conosco non mi chiede altro che pugnalare il tiranno. Lui deve morire.»

«No, visto che dite di non capirmi, potreste bene lasciar parlare di ciò che è al di fuori della vostra intelligenza. Non siete un prete? Un uomo di pace? E osate affermare simili idee? Disonorano la vostra professione e, se non c’è un barlume di virtù in voi, dovreste arrossire tanto quanto le nostre mani sporche del sangue che intendete spargere.»

«Madonna», disse Ugo, «voi vi state agitando al di là di ogni prudenza. Parlate con moderazione e Messer Tripalda vi cederà il passo.»

«Non lo faro mai!» gridò Tripalda, serrando le sue labbra sottili e alzando la sua fronte alta. «L’ho condannato a morte e morirà. Per la salvezza della mia anima, morirà!»

«Allora la vostra anima è perduta, perché lui vivrà.»

La modulazione serena della voce d’Eutanasia, ora all’inizio adattata al comando, ebbe con sé una forza irresistibile, mentre allargava il suo bel braccio in un ampio gesto. Poi, calmandosi, continuò: «Mi unirò alla vostra congiura ad una condizione e potrei ben dire, “Se non mantenete con me la vostra parola, io non manterrò la mia con voi; se mi tradirete, allora io tradirò voi.” Ma io non dico questo. Ho altri mezzi per mettere a tacere quest’uomo. Vi conosco, Tripalda, e voi siete ben consapevole che io posso vedere tra le molte pieghe in cui avete tagliato il vostro cuore. Mi obbligate a minacciarvi. Posso raccontare una cosa, Tripalda, la conoscenza del cui orrore supremo è confinata nel vostro cuore corrotto, ma il cui più piccolo abbozzo riempirebbe l’umanità d’odio, e la vostra distruzione seguirebbe presto. Non osate immaginare la morte di Castruccio. Vivo lui, sarete vivo voi, altrimenti saprete cos’accadrà.»

«Lungi dal saperlo, non so nemmeno immaginare cosa intendete», replicò Tripalda, ma con voce bassa e un fare modesto. «Madonna, voi siete davvero enigmatica con me. Ma visto che avete deciso di salvare la vita del principe, così sia. Suppongo però che ci consentirete di proteggere la sua persona.»

«Abbiamo un piano per questo» soggiunse Eutanasia rivolgendosi a Ugo, «un piano a cui spero voi aderirete: perché Castruccio deve essere salvato. Bondelmonti s’è preso quest’impegno con me prima che divenissi parte del vostro complotto.»

«Sarò ai vostri ordini», rispose Tripalda, che si era spostato parecchie volte e pareva essere a disagio di fronte allo sguardo ora mite di Eutanasia, come un ipocrita davanti agli occhi dell’angelo accusatore. «Adesso vi lascio», continuò, «ho promesso d’essere con Nicola dei Avogadii alle otto e le sette sono passate da un po’. Buona notte, Madonna. Quando ci rincontriamo, spero sarete meglio disposta con le mie intenzioni e mi ringrazierete per i miei sforzi a favore del vostro amico, il principe.»

Lasciò la stanza. Eutanasia lo seguì con gli occhi finché non chiuse la porta e poi disse a Ugo: «Non mi fido di quell’uomo e se il mio proposito non mi portasse sia oltre la paura che la speranza, ne avrei il terrore. Ma fate attenzione, Ugo, e se tenete alla vostra sicurezza tenetelo d’occhio, come se doveste schivare i colpi di una spada, finché ciò che pensate si compi.»

«Giudicate in fretta, Madonna. Lui è nemico giurato di Castruccio e in quest’occasione credo sia alla fine degno di fiducia. Non riesco ad indovinare ciò che sapete su di lui, sicuramente è qualcosa d’oscuro, perché lui si faceva piccolo dinanzi alle vostre parole. Ma un uomo può essere malvagio un giorno e il giorno dopo buono, poiché il proprio interesse influenza tutto e noi siamo virtuosi o viziosi quando speriamo di trarre un vantaggio per noi stessi. La caduta di Antelminelli lo solleverà e quindi gli va data fiducia.»

«Questa è una cattiva filosofia e una pessima morale, Ugo: ma ora non abbiamo tempo per le contestazioni. Ricordate che v’ho detto di tenere d’occhio Tripalda. Adesso occupiamoci di cose più meritevoli.»

Dopo una lunga conversazione, in cui si stabilì tutto fuorché il momento esatto per l’inizio della congiura, Ugo si ritirò per preparare i messaggeri da inviare a Pisa e Firenze, che avrebbero potuto determinare con il concorso dei loro compagni la gestione di quest’ultimo atto della tragedia. Eutanasia rimase sola. L’espressione della rabbia s’era risvegliata in lei grazie alla crudeltà insolente di Tripalda, ma la sua natura dolce dimenticò presto il senso d’indignazione, e adesso altri pensieri (oh, proprio altri pensieri!) la tenevano occupata. Era nuovamente a Lucca. Salì sulla torre del suo palazzo e la luna calante, che splendeva a est, spandeva la sua luce gialla e triste sul paesaggio: riusciva a distinguere da lontano la rocca erta su cui stava il castello di Valperga, formava uno dei lati dell’abisso che gli spiriti della creazione avevano aperto per liberare il corso del Serchio. Lo sfondo era immutato e anche d’inverno l’intima bellezza vi si librava, pronta ancora a rianimare il cadavere, quando la bacchetta caduca della primavera la toccava. Le strade strette e lunghe di Lucca erano come i corridoi di una prigione intorno a lei, e lei attendeva con trepidazione che l’opera in cui s’era impegnata si consumasse per poter fuggire per sempre da una scena che era stata a lei troppo cara, non per farne uno spettacolo doloroso nel suo stato alterato.

Nel frattempo, mentre nella sicurezza profonda del pensiero lei meditava sul successo del suo tentativo, l’ora che indugiava ancora sul quadrante era grande insieme alla sua rovina, e gli eventi che minacciavano di distruggerla per sempre erano ormai così prossimi che la loro orribile ombra stava per esser gettata sul cammino della sua vita.

Tripalda l’aveva lasciata, preso da tutta la malvagità a cui la sua natura cattiva era così ampiamente soggetta. Sapeva che la prigioniera del castello nella campagna di Roma era sopravvissuta e finita nelle mani di Eutanasia: e sapeva che il suo destino era dipeso dalle rivelazioni che lei poteva fare. La prigioniera ora era morta, ma sia Castruccio che Eutanasia erano diventati in parte i depositari del suo segreto. Eutanasia aveva udito il nome di Tripalda pronunciato tra urla e disperazione dalla bocca della bella folle e, dopo la sua morte, aveva rivelato i suoi sospetti al principe, e lui preso dall’ira proibì al prete di avvicinarsi al suo palazzo o alla sua persona. Caduto in disgrazia e allontanato dalla sua presenza, Castruccio era incorso nei rigori dell’odio di Tripalda, il quale era felicissimo a pensare che distruggendo l’uomo che l’aveva offeso si sarebbe anche liberato di uno che era al corrente dei segreti più pericolosi che lo riguardavano. Non aveva risparmiato gli insulti al principe, però nessuno lo aveva ascoltato, a parte quelli che condividevano i suoi sentimenti e Antelminelli lo disprezzava troppo per dar retta a ciò che diceva.

Così, con l’animo astuto e il progetto malvagio di un serpente sotto le sembianze di una gazza, questo sedicente Bruto dell’Italia moderna, la cui follia simulata era una copertura per l’orgoglio, l’egoismo e tutta la crudeltà, fomentò una cospirazione a Lucca per rovesciare un tiranno che ben meritava di cadere, ma che era puro come una colomba bianca se paragonato alle piume nere di questo corvo. Aveva tentato di trascinare Eutanasia a partecipare al complotto, sapeva appena il perché, sicuro che se fosse stata persuasa ad entrarvi non ci sarebbe stato altro che miseria e sofferenza per lei. Ciò che avvenne nel suo palazzo sconvolse tutte le sue idee. Castruccio lo disprezzava e lo bandiva, ma non aveva mai minacciato di svelare quei segreti la cui più piccola conseguenza lo avrebbe murato per sempre nelle celle di qualche convento. Pertanto lui lo odiava più che temerlo, ma le parole di Eutanasia avevano terrificato il suo animo e con il suo terrore risvegliò tutti quei sentimenti di malignità infernale di cui il suo cuore era pieno. Adesso lo scopo del suo desiderio era distruggere lei e salvare se stesso. Tradire la cospirazione e lasciare i suoi alleati in balia della morte era un dettaglio di interesse minimo rispetto alla preoccupazione che aveva per la sua difesa e la soddisfazione della sua vendetta risorta. Non dormì per tutta la notte, camminò su e giù per la stanza, calmando il suo cuore con maledizioni e scene di impellente rovina per i suoi nemici. Quando fece alba, si precipitò ad Agosta e fece il suo ingresso nell’ufficio privato di Vanni Mordecastelli.

Castruccio era a Pistoia e non sarebbe tornato fino al giorno dopo. Nel frattempo Mordecastelli era il governatore reggente a Lucca. Era seduto nel suo ufficio con il segretario quando Tripalda entrò: come un vero cortigiano, degnò appena di uno sguardo l’uomo ch’era caduto in disgrazia presso il suo principe.

«Messer Tripalda», disse, «siete ancora a Lucca? Credevo che qualcuno m’avesse detto che eravate tornato nella vostra canonica. Avete qualche questione con me? Siate breve, come vedete io sono occupato.»

«Messer Vanni, ho una questione con voi, ma deve essere discussa privatamente. Non guardatemi così con disprezzo, perché sapete che vi sono stato utile un tempo e lo potrò essere ancora.»

«Non m’importa molto d’essere il solo a fidarsi di voi perché si dice che avete giurato di annientare tutti gli amici del principe. Comunque, io sono armato», e proseguì estraendo dal petto un pugnale e sguainandolo, «Per cui, Ubaldo, puoi lasciarci soli.»

Tripalda esclamò: «E, Ubaldo, ascolta, vale quanto la tua vita dire a tutti che io sono con il governatore. Nemmeno le mura del palazzo devono sapere nulla.»

«E siete voi il padrone per minacciarmi, Messer Canonico? Anche se avete una testa calda, vi prego di mantenere la lingua a posto.»

«Silenzio, Ubaldo», disse Mordecastelli. «Andate e rammentate quello che dice: ne risponderete se si saprà che questa visita ha avuto luogo. E adesso, Monsignore, cosa avete da dirmi? Se non è qualcosa che vale la pena d’udire pagherete una severa punizione per questa vostra impertinenza.»

«Rammentate, Messer Vanni, chi vi mise sulla pista giusta nel complotto di Leodino, ricordate la ricompensa in oro che vi ha portato. Ricordatelo e mettete da parte il vostro orgoglio e l’insolenza.»

«Ricordo bene il ruolo detestabile che avete svolto, e sarebbe stato giusto che la vostra testa fosse stata mozzata al posto di quella di Leodino. Ma voi scherzate e io non ho tempo da perdere. Se avete qualche nuova infamia da rivelare, fatelo e in fretta.»

«Ho scoperto un complotto di altissimo rilievo. Uno dei cospiratori che conta è tra i primi cittadini del principato. Ma devo porre le mie condizioni prima d’andare avanti: io ho in pugno la vita del vostro signore e, prima di perdere il mio vantaggio, devo essere ricompensato a dovere.»

«Condizioni! Sì, saranno generose e abbondanti. Se dite tutto lealmente sarete creduto in parola e non sarete torturato per estorcere ciò che l’abilità può farvi nascondere: queste sono tutte le condizioni che un manigoldo come voi merita. Avanti, non c’è tempo da perdere. Se il complotto che dite merita d’essere riferito sapete bene che sarete ricompensato, se è tutto fumo, questo è il motivo per cui forse voi ne sarete ricoperto. Pertanto niente più indugi.»

Tripalda aprì tutte le porte, sbirciò dietro le tappezzerie, sotto i tavoli e le sedie poi, avvicinandosi piano come un gatto che vede un topo che gioca al chiaro di luna, o un ragno che osserva la sua preda che senza saperlo si pulisce le ali ad un palmo da lui, si sedette accanto a Mordecastelli e bisbigliò:

«Gli Avogadii.»

«E allora? So che odiano Antelminelli, ma non sono abbastanza potenti per fare alcun danno.»

«I Quartezzani.»

«No, allora questo è del massimo interesse. Sono diventate vipere? Per San Martino! Hanno una trappola!»

Tripalda con voce bassa e solenne entrò nei particolari del complotto. «E ora», disse quando stava quasi per concludere, «eccetto per una caso, voi non avete sentito una parola da me.»

«Siete una canaglia a dire questo… ma qual è questo caso? L’amore per il vostro principe?»

«L’amore che ho per lui avrebbe potuto far venire il papa a Lucca con trentamila guasconi alle sue calcagna, ma non tradire una congiura contro di lui. No non è questo davvero. È che hanno ammesso una donna e, non essendoci prospettive di sicurezza né di successo là dove sono, io mi sono ritirato in tempo debito.»

«Una donna! Chi, Berta Avogadii?»

«Una assai più importante: la contessa di Valperga.»

«No, allora è tutta una menzogna, Tripalda, e, per la Vergine, vi pentirete di esservi preso gioco di me con le vostre invenzioni! La contessa di Valperga! È troppo saggia e troppo santa per mischiarsi in uno dei vostri complotti: inoltre, un tempo, a quanto mi risulta lei amava Castruccio.»

«Il vecchio proverbio ci dice, Vanni, che l’amore più dolce diventa l’odio più amaro. Rammentate Valperga! Pensate che lei l’abbia dimenticato? E il suo castello, il potere, lo stato ch’era solita mantenere quand’era la regina di quei monti aridi! Credete se lo sia scordato? Forse se l’è tenuto dentro umilmente, ma lei, come il resto di quelle rovine dipinte, ha un cuore orgoglioso, orgoglioso e vendicativo. Ecco perché ha giurato morte al suo antico amante.»

«Non ci crederei nemmeno se me lo dicesse un angelo. Pensate che io presti fede ad una storia simile, quando è vomitata da un diavolo come voi? No, non v’accigliate, Monsignore: il diavolo ama abbigliarsi in paramenti sacri e si dice che voi più d’una volta avete mostrato il piede caprino.»

«Vi piace scherzare, signor Governatore», ribatté Tripalda con un sorriso orribile, «riconoscete la scrittura di Orlando Quartezzani?»

«Come la mia.»

«Allora leggete questa lettera.»

Era una lettera per Tripalda di Orlando, che lo scongiurava di sveltire le sue manovre e diceva che, da quando la contessa di Valperga sembrava far parte del complotto completamente disponibile, tutte le difficoltà sarebbero state facilmente rimosse.

Vanni mise giù la lettera con uno sguardo misto di disprezzo e indignazione. «E chi altro c’è fra voi? Ora mi aspetto di sentire che qualche santo o martire, o forse la Vergine stessa è venuta ad aiutarvi.»

«Ecco una lista dei congiurati ed ecco delle lettere che vi dimostreranno ulteriormente l’autenticità delle mie rivelazioni.»

«Datemele. E adesso fatemi dire, mia cara volpe, che sono lungi dal credervi e che, conoscendo da tempo i vostri inganni, potrei a ragione sospettare che cercando di trarre profitto da noi tradendo i vostri alleati tenterete d’avere tutto da loro aiutandoli a fuggire. Pertanto, mio caro, per il momento dovete rimanere sotto chiave.»

«Speravo di meritarmi qualcosa di meglio…»

«Meritarmi! Sì, meritate la tortura come il più vile eretico che nega la passione del nostro Redentore. Voi sapete bene d’essere un traditore nato e, per i santi!, sarete trattato come tale. Venite, c’è una stanza migliore della prigione che meritate: andate in pace. Perché se mi obbligate ad usare la forza, la prossima settimana sarete ficcato in uno di quei buchi sottoterra, che credo voi conosciate, visto che la vostra diabolica malvagità li ha concepiti.»

«Bene, Vanni, mi arrendo. Ma mi aspetto che la vostra futura gratitudine…»

«Oh! Abbiate fiducia nella mia gratitudine. Conosco il mio mestiere troppo bene per non incoraggiare un Cerbero come voi.»



[1] “Roll on, the chariot-wheels of my dear plots. And bear mine ends to their desired marks! As yet there’s not a rub of wit, or gulf of thought. No rocky misconstruction, thorny maze. Or other let of any doubtfulness: As yet thy way is smooth and plain. Like the green ocean in a silent calm”. Lewis Machin, Gervase Markham, The Dumb Knight Atto IV.



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