Valeria PintoValutare e punire.Una critica della cultura della valutazioneCronopio, Napoli 2012, pp. 190euro 13,00 ISBN 9788889446805In un’epoca di conformismo gregario travestito da individualismo radical chic, e in un’università, come quella italiana, giunta a sua volta ad uno snodo epocale (ovvero alla definitiva trasformazione in agenzia formativa tra le altre, che vende saperi spendibili su un mercato del lavoro cognitivo ormai tragicamente saturo), Valeria Pinto, che in quest’università insegna come professore associato di filosofia teoretica, ha deciso di prendere posizione – una posizione abbastanza solitaria e quindi scomoda, per non dire paradossale, visto che il suo libro, foucaultiano fin dal titolo e documentato con un’acribia ironicamente coniugata all’impegno teorico, attacca frontalmente la logica della valutazione che ha generato il decreto ministeriale in virtù del quale la stessa Pinto dovrà essere valutata per accedere, o almeno aspirare al ruolo di professore ordinario.
Poiché mi sono formata nella stessa università nella quale si è formata e attualmente insegna Valeria Pinto (la “Federico II” di Napoli), e poiché sono reduce da un’animata discussione intorno a questi temi svoltasi nella sede della casa editrice che l’ha pubblicato (Cronopio), la mia recensione, più che illustrare il contenuto del volume (già ampiamente recensito su quotidiani e riviste) sarà una riflessione su quell’incontro ed anche – in parte – un dialogo con coloro che colà sono intervenuti.
Ciò premesso, il principale merito genealogico di questo libro rischiosamente ‘militante’ ma, come vedremo, assolutamente impolitico, consiste nel mostrare fino a che punto ciò che sembra ormai a molti docenti (universitari e non) qualcosa di assolutamente naturale, apriorico e indiscutibile – la docimologia quantitativa, il sistema dell’istruzione come sistema di servizio per un’utenza e, dulcis in fundo, le famose mediane dell’abilitazione scientifica nazionale – sia in realtà qualcosa di costruito, artificiale, storico, per non dire basso e volgare: allo sguardo illuminante e indocile della critica1, la sacra triade ‘trasparenza, valutazione e merito’ non appare affatto come natura, ma come storia, così come storica e impura è la logica concorrenziale che si è innestata nelle menti dei valutatori.
Come nota Pinto, la valutazione implica i valori nel senso economico, ovvero la valùta, la quantificazione monetaria che è anche normativa, lo standard che però tende ossessivamente al miglioramento continuo e infinito, al perseguimento dell’eccellenza, o, potremmo aggiungere, alla metamorfosi cognitivo-operazionale della formula marxiana D-M-D’. In termini foucaultiani, siamo di fronte al potenziamento performante della disciplina2: normale non è più la risposta media all’addestramento (nelle parole di Canguilhem: normale è il prototipo scolastico come lo stato di salute organico), ma il comportamento di quella che Pinto, con la battuta migliore del libro, definisce la zecca 2.0, ovvero la meccanicità ottusa e in fondo parassitaria del perfezionamento esecutivo nascosta sotto l’assicurazione meramente procedurale della qualità, un po’ come accadeva nei lager nazisti, dove nell’eliminazione dei ‘parassiti’ ebrei si dispiegava la stupidità (più che la banalità) del male: “rigore, disciplina, risultati ripetibili” (p. 121) e sempre perfezionabili (del tipo: quanti ‘pezzi’ sono stati prodotti/eliminati oggi? quanti ne possiamo produrre/eliminare domani per ottimizzare i risultati, cioè per crescere ancora?).
Ironia amara a parte, nello scenario delineato da Pinto ad essere concettualmente fuori gioco è il giudizio (l’Urtheil), che contiene in sé kantianamente il movimento della critica ed è molto più profondo della valutazione quantitativa che la Pinto, appunto, critica: in quanto sovrano, il giudizio è comparativo ma non esercita un potere prestazionale su ciò o su colui che giudica. Si potrebbe dire che, a differenza della valutazione, la quale mira ad ottenere un effetto illimitatamente migliorativo sul (s)oggetto valutato, il giudizio è crudelmente ineffettuale. Da questo punto di vista, alla domanda ‘chi valuta i valutatori?’ Pinto risponde in modo nietzscheano, prospettico, mostrando che nessuno, in effetti, li valuta (che nessun Big Brother ha pianificato la strategia dell’ANVUR e di tutte le agenzie che l’hanno preceduta), ma così facendo li giudica.
Per rincarare la dose di giudizio, aggiungerei che, in termini adorniani3, quella della valutazione non è affatto una cultura, come recita il sottotitolo del volume (non è una Bildung, che non è misurabile e forse neppure valutabile, ma solo, appunto, giudicabile), e non può neppure essere considerata come l’espressione di una civiltà (Kultur), magari della civiltà digitale che ha spodestato la civiltà del libro, quanto piuttosto una pseudo-cultura: la valutazione, direbbe Adorno, è Halbbildung. Non a caso Pinto ricorda che il pensatore francofortese venne attaccato come ‘prescientifico’ da Paul Lazarsfeld e da quella sociologia anglosassone (cfr. pp. 81 e sg.4) che, a partire dagli anni sessanta del novecento, ha fatto diventare “socialmente dominante” (direbbe Adorno) la valutazione come misurazione del sapere. Non si tratta dunque di un totalitarismo culturale (cfr. p. 28), ma pseudo-culturale: la valutazione come analisi ossessiva e pervasiva dei costi e dei benefici applicata all’universo della cultura non è che la forma logica e storicamente prevedibile dell’Halbbildung tardo capitalistica che Adorno aveva visto sorgere già negli anni cinquanta, resa ormai “socialmente dominante” da ciò che lo stesso Adorno definiva integrazione delle masse dietro il velo dell’istruzione, e che Pierre Bourdieu ha definito acculturazione5. Il termine, si badi, non dev’essere inteso in senso gramsciano, cioè come democratica metamorfosi politica, reale emancipazione del popolo attraverso la cultura fornita dalla componente intellettuale del partito, bensì al contrario come riproduzione di habitus mentali conformi alla struttura socio-economica classista dello stato borghese, realizzata attraverso il funzionamento fintamente democratico e meritocratico del sistema dell’istruzione pubblica: in una prospettiva foucaultiana, l’acculturazione capitalistica non è che la diffusione strategica di quei saperi che hanno permesso e permettono di implementare nei futuri lavoratori soggettivazioni ‘di mercato’, soggettivazioni governabili perché autogovernantesi. L’acculturazione è insomma la base disciplinare della biopolitica, lo humus cognitivo dell’homo oeconomicus.
Come nota Pinto nella parte forse più psico-sociologica del libro, i valutatori non debbono avere lo stesso livello di cultura, di conoscenza dei valutandi (cfr. p. 39); semplicemente acculturati, essi devono piuttosto essere macchine da problem solving, cioè devono semplificare (cfr. p. 47), rendicontare e convincere, più che obbligare gli altri (tutti) a rendicontare. Bisogna condividere psichicamente e socialmente le ‘buone pratiche’ (cfr. p. 41): in quanto insegnante di liceo, vorrei far notare a mia volta come quest’espressione assurda sia entrata anche nella scuola (al suo ingresso solo alcuni di noi, insegnanti di filosofia, abbiamo riso); si tratta di un’espressione pastorale (non a caso Pinto sottolinea come nell’università si parli ormai di ‘conversione’ dei giovani studiosi alle buone pratiche di ricerca, quasi fossero dei novizi), di un’espressione ‘calda’, ‘etica’. Il docente di liceo vi si sottomette rassegnato perché la svalutazione sociale di cui è fatto oggetto da almeno quindici anni è direttamente proporzionale all’ossessione valutativa di cui è divenuto soggetto: spera di sfuggire alla prima convertendosi alla seconda, mentre così facendo si auto-svaluta sempre di più dal punto di vista socio-culturale, in una spirale perversa. Ed è stato il sistema dell’educazione nazionale ‘disciplinare’ a creare gli habitus mentali docili che hanno permesso l’inserimento della valutazione nella scuola italiana, in un clima di rassegnata passività e dentro il cavallo di Troia dell’autonomia.
Del resto, chi non si converte alla valutazione, sia nelle scuole che nelle università, è stigmatizzato come reazionario. In uno dei capitoli centrali del libro, Il freddo e il caldo, Pinto denuncia come i criteri che sottostanno alla valutazione siano opachi e indimostrabili – ma non come i postulati di Euclide, che sono intuitivi: sono criteri dogmatici e freddamente economici (sia detto per inciso, quest’oscurità dell’expertising è stata denunciata con largo anticipo da Debord nei suoi Commentari alla società dello spettacolo del 1988) che devono essere perciò ‘riscaldati’ dal ricorso ansiolitico all’assicurazione previsionale (nei termini di Beck, è la gestione del rischio nella Risikogesellschaft; nei termini di Foucault, la cessione di libertà camuffata da tutela della sicurezza), ma anche dalla componente moralistica del merito, la quale catalizza il risentimento degli esclusi, e presenta la valutazione come una necessità di controllo dal basso, di trasparenza, di democrazia, ecc., mentre in realtà non c’è nulla di trasparente e democratico.
In sostanza, come Pinto non manca di notare in alcune pagine straordinariamente documentate del libro, il carattere pseudo-democratico della valutazione è coerente con quello che Deleuze, sulla scorta di Foucault, ha definito come passaggio dalla società disciplinare alla società di controllo, ma anche con la messa fuori gioco della cultura (la Bildung che, in un’immaginaria linea Nietzsche-Adorno-Deleuze, è sempre tragicamente, esteticamente aristocratica). È stato Deleuze a capire che nella società di controllo la logica dell’impresa si sarebbe diffusa come un gas, così come Foucault, nel corso su Nascita della biopolitica, aveva analizzato i processi di soggettivazione imprenditoriali e autovalutativi innescati dalla governamentalità neoliberale: abbandonata la coercizione, il governo delle condotte si doveva attuare mediante la loro autoregolazione, e questa mediante investimenti (prevalentemente educativi e cognitivi) sul capitale umano, per realizzare, sul lungo periodo, la produzione di soggettività conformi al mercato. In tale prospettiva, l’attuale nesso autonomia-valutazione impostosi nel sistema dell’istruzione superiore, la sua economicità e la sua interiorizzazione, non sono che il logico sviluppo di ciò che Foucault e Deleuze avevano intravisto tra la fine degli anni settanta e l’inizio dei novanta. In altre parole, chi studia la biopolitica non può meravigliarsi molto di ciò che sta accadendo oggi nell’università italiana.
Perché dunque gli universitari – soprattutto gli umanisti e in particolare i filosofi, tra cui Valeria Pinto – se ne accorgono soltanto ora? Perché queste letture tardive di Foucault e Bourdieu, come ha accusato lo stesso Andrea Bonaccorsi dell’ANVUR? La risposta, a mio giudizio, non va cercata in Foucault, ma, appunto, in Bourdieu.
Dopo anni di lavoro capillare e sotterraneo, il sistema procedurale e meramente quantitativo di valutazione, autorizzato dal politico, è arrivato ad attaccare sia simbolicamente che soprattutto economicamente il sistema d’istruzione superiore statale: con una logica che sembra vendicativa (più che punitiva) sia a chi la utilizza che a chi la subisce, il nuovo sistema avrebbe smesso di far vivere indisturbato il vecchio nel suo orticello, di fargli giocare il suo gioco di campo, cambiando le sue regole e minando le sue ‘oziose’ poste: ora lo valuta come servizio prestato all’utenza, ovvero, come sostiene Pinto, non lascia più la scienza (e le scienze umane ridotte ad esser tali) libera di autorganizzarsi: “la scienza va lasciata autorganizzarsi sul presupposto della sua naturale fecondità per il progresso economico-sociale […] Con l’entrata in scena dei ‘legittimi portatori di interesse’ e della parola d’ordine value for money (sono soldi pubblici, bisogna renderne conto pubblicamente), si indicano alla ricerca le vie da battere, i rami secchi da tagliare, le relazioni da stringere, i partner da privilegiare, i modelli da assumere” (pp. 33-4).
In realtà, come Bourdieu ha ampiamente dimostrato da sociologo, e non da filosofo, la scienza non è mai stata veramente libera di autorganizzarsi: la sua era una finta libertà, non meno finta e ideologicamente feticizzata di quanto non sia stata, a partire dagli anni sessanta, l’acculturazione democratica e meritocratica promossa dall’istruzione di massa6. Il problema è dunque squisitamente economico politico: dal privilegio non sempre e soltanto borghese della cultura, cioè dal privilegio di un ozio non politicamente libero, non sprecato, perché comunque pagato in denaro (denaro che equivale a una certa quantità di tempo del docente come impiegato statale7), e che tuttavia si vantava di essere indipendente, come sapere, dal campo economico politico del potere, si è passati al privilegio dell’eccellenza quantitativamente ed economicamente misurata dal politico trasformato in contabile. Germinata e nutrita dallo stato nazione, l’università europea moderna (quella, per intenderci, sorta nell’ottocento a partire dal progetto humboldtiano tardo settecentesco) non poteva essere del tutto consapevole di questo movimento, in quanto disconosceva (in termini freudiani) la sua dipendenza economica dal campo politico – il quale veniva da essa culturalmente, quindi simbolicamente legittimato, nella misura in cui lo stato legittimava a sua volta simbolicamente l’università conferendole una superiorità, un’aura, un appeal socio-culturale.
Applichiamo quest’ipotesi di rafforzamento reciproco al mondo accademico italiano. Diciamo che fino agli anni ottanta del secolo scorso lo stato sembrava concedere (non ‘investire’) finanziamenti all’università statale senza chiederne conto, a fondo perduto, in modo apparentemente disinteressato. I due principali partiti di massa (DC e PCI), divisi a livello di governo esecutivo ma sempre più accomunati dalla governamentalità neoliberale, sono riusciti a formare in questo modo un ampio consenso socio-culturale, intorno a quello che Jean-Claude Milner definirebbe il loro rispettivo campo ideologico. Per fare un esempio concreto, con la riforma Ruberti del 1980 gli assistenti sono diventati automaticamente ricercatori, cioè sono entrati ope legis nel sistema universitario a tempo indeterminato e a fondo perduto, senza essere stati quantitativamente ‘valutati’; sono stati piuttosto cooptati, cioè giudicati profondamente conformi al codice culturale e comportamentale accademico. Il denaro con cui venivano pagati doveva ritornare allo stato in forma di riconoscimento simbolico della sua politica culturale, e viceversa: la loro produzione culturale, ancorché scarsa e/o fuori mercato, veniva simbolicamente riconosciuta dallo stato come ‘valida’, più che valutabile. L’università (molto più della scuola) si è crogiolata per almeno un secolo nell’inlusio (nel senso bourdieusiano di coinvolgimento nel gioco di campo) della sua superiorità (della superiorità del suo codice culturale, rispetto all’economia e rispetto alla stessa scuola); questa convinzione si rispecchiava nell’inlusio della sua indipendenza dallo stato, della sua libertà accademica come forma superiore di libertà d’insegnamento (garantita anche nella scuola) che si traduceva spesso (e in entrambe) in disprezzo gentiliano della didattica. In realtà l’università, in quanto pubblica, dipendeva totalmente allo stato, e lo stato la proteggeva economicamente soltanto perché ne traeva una legittimazione simbolica – di cui però oggi non sa più che farsene, poiché, come la stessa Pinto non manca di rilevare sulla scorta di Deleuze e Foucault, siamo passati dallo stato-nazione (prima gentiliano-fascista-autarchico, poi, dopo la II guerra mondiale e la Resistenza, democratico-repubblicano-filoamericano) allo stato azienda-amministratore.
Va notato che questo passaggio, ormai macroscopico, è cominciato microscopicamente negli anni sessanta – gli anni della contestazione – ed ha avuto uno snodo significativo negli anni successivi al ‘68. L’istruzione di massa (si pensi alla riforma della scuola media italiana nel ’62) ha preparato il ’68, mentre il ’68 ha per così dire interpretato politicamente, e quasi feticizzato l’istruzione di massa. Dopo aver abbattuto le soglie classiste della formazione (ad esempio la rigida divisione tra liceo e formazione tecnico-professionale), negli anni settanta-ottanta lo stato-nazione ha dovuto (e ideologicamente voluto) assorbire insegnanti, sia nella scuola che nell’università; ma, al di là delle ricadute positive che questo fenomeno ha avuto in termini di allargamento delle possibilità di accesso alla cultura (sic!), negli anni novanta si è assistito a un fenomeno nuovo che andava ad innestarsi sulla rottura del classico binomio ricerca/insegnamento, sbilanciandolo economicamente a favore di quest’ultimo: all’ombra dello stato-nazione ma anche al di fuori di esso (con la nascita e la crescita delle università private) vi è stata una proliferazione non più solo nepotistica di cattedre, e, non solo nelle università scientifiche (che tuttavia ne rappresentano il terreno ideale), una diffusione dello specialismo più mediocre e auto-referenziale (peraltro già abbastanza diffuso nella vecchia università selettiva). Gli anni novanta e anche i primissimi anni duemila (che hanno visto la nascita della formula 3+2, l’affermazione del sistema dei crediti e la licealizzazione dell'università) sono stati, a giudizio di chi scrive, gli anni della deregulation economico-culturale e (a giudizio di molti altri) della narcosi politica delle accademie, sia nel campo studentesco che, soprattutto, in quello professorale: la cultura (Bildung) universitaria è divenuta sempre più una forma ‘superiore’ di acculturazione (Halbbildung), che riproduceva in forme sempre più semplificate e, se vogliamo, più cafone, gli habitus mentali necessari al mercato. In altri termini, poiché è stata realizzata in una società classista e capitalistica, l’istruzione di massa, dopo aver democraticamente allargato l’accesso al sapere, ha lentamente sedato la protesta politica giovanile nata nel ’68, e innescato suo malgrado la mediocrizzazione dell’università. L’università non è più, come negli anni settanta, un vivaio della sinistra. Ma può ancora essere ancora un vivaio di idee?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo ritornare, cum grano salis, al discorso di Valeria Pinto. Nell’era della globalizzazione lo stato-nazione appare ormai assoggettato al mercato: lo stato, direbbe Foucault, governa per il mercato, e dunque per sopravvivere, o meglio per mimetizzarsi o sovrapporsi senza residui al mercato, deve assoggettargli anche l’università e più in generale la conoscenza, tagliando sia la cultura (che è molto più profonda ma anche più inutile della semplice conoscenza) sia la mediocre deregulation di cui sopra. Ecco che ora lo stato impone un’altra proliferazione, che ricalca la logica dei tagliatori di teste nelle grandi aziende: publish or perish!; la tirannide della produttività e della crescita dilaga anche nel campo accademico.
Non credo come ritiene Pinto, che la fine del bipolarismo est-ovest e la conseguente globalizzazione economica (= il mercato mondiale con niente fuori o in alternativa), abbia avuto un ruolo maggiore di quello della massificazione dell’istruzione, nell’imporre il dispiegamento dei sistemi valutativi: i due processi vanno di pari passo e si coimplicano, poiché l’istruzione di massa ha fatto da base disciplinare e poi biopolitica al mercato, ha cioè favorito in termini marxiani la sussunzione reale della vita e delle relazioni sociali al capitale (ciò che Baudrillard chiamava la culturalizzazione della merce); inoltre il modello ottuso ed efficientista della valutazione, come la stessa Pinto riconosce, era già perfettamente funzionante nell’URSS, e non meraviglia che sia stato così, data la sua origine militare (cfr. il capitolo Logistica del sapere). Del resto Pinto evidenzia seppur implicitamente l’idiozia nascosta nel modello del capitalismo cognitivo, il delirio autoreferenziale del mercato e della concorrenza come forma meramente quantitativa di comparazione: una stupidità di fondo della valutazione che si manifesta ormai nella saturazione dei dispositivi di misurazione e nel fallimento del benchmarking.8
Da questo punto di vista, la vittoria della valutazione è una vittoria apparente, una vittoria di Pirro che deforma in modo quantitativo-operazionale, cioè trasforma in un “gioco formale di diseguaglianze” (Foucault), il carattere comparativo dell’uomo già rilevato da Nietzsche (come ricorda Pinto citando Il viandante e la sua ombra:“l’uomo [Mensch] è colui che misura [messen]”) e da molti altri prima di lui. Ora, non c’è niente di male in questo (senza la capacità di misurare e confrontare saremmo ancora a nutrirci di bacche), ma questa è anche l’origine della moralità come forma pastorale, fintamente superiore, di valutazione dell’altro – come forma perversa di comparazione. Quando infatti l’angoscia della comparazione (inevitabile, poiché non possiamo percepire il valore dell’altro in sé, come invece sembra sostenere Pinto a p. 162, trasformando in una sorta di utopia etica un concetto tratto dall’Epistola XXI di Spinoza e citato a p. 161: solo la comparazione introduce la mancanza – ma noi diveniamo socialmente individui, unici, proprio attraverso la comparazione), quando quest’angoscia, dicevo, diventa insopportabile (perché ci si scopre incapaci di essere ciò che l’altro è), è allora che ci si mette all’ombra di un potere in cui vengono valorizzate e valutate differenze formali, artificiali, per rovesciarla in competizione.9
Qualunque potere-sapere misura e valuta, giudica e sanziona, in particolare nelle sue forme o metamorfosi pastorali. Ma il potere-sapere tardo capitalistico, che non giudica ma valuta soltanto quantitativamente, che misura le differenze economiche e non accetta le differenze reali (quelle che Foucault chiamava qualità morali, ma che in realtà sono qualità amorali), è un potere ottuso: è la metamorfosi più stupida del potere pastorale, che come tale fomenta il risentimento (cfr. pp. 162 e sg.). Per avere un esempio scolastico di questo risentimento, si pensi all’attuale percezione del rapporto sforzo-risultato da parte di molti studenti (anche universitari), che è ormai molto simile al rapporto stimolo-risposta del vecchio comportamentismo skinneriano: se studio dieci ore, devo avere un voto alto (in proporzione numerica, dieci), o un certo numero di crediti; non accetto di essere inferiore a chi studia dieci minuti e va meglio di me. La negazione della differenza reale (che in fondo non è valutabile se non come riconoscimento simbolico di un essere soggettivo), ovvero il risentimento, fa introiettare la valutazione come misurazione quantitativa, oggettiva della performance.
Nel libro di Pinto vi sono alcuni passi direi drammatici sul risentimento, delle estremizzazioni quasi narrative che mostrano molto bene che tipo di squallore comparativo alligna nell’università italiana, ma qui provo a schematizzare. Il sistema universitario tradizionale, baronale, faceva il contrario di quello che vuole fare oggi l’ANVUR, secondo Pinto in senso vendicativo (cfr. p. 171): lasciava entrare molti studiosi mediocri col metodo della cooptazione concorsuale, che giungeva al termine di un logorante servaggio intellettuale e a volte anche esistenziale, psicologico, e che quindi è degradante, ma tra questi passava anche qualche studioso ‘di valore’, a patto che in nome della sua ‘vocazione’ fosse disposto a subire la crudeltà del sistema (cfr. il famoso passo di Weber citato a p. 161), mentre alcuni, ancorché geniali, rimanevano fuori (caso esemplare: Walter Benjamin). Il sistema di valutazione quantitativo della ricerca sembra invece disposto a sacrificare qualche studioso di valore perché non ‘riconosciuto’ dalle mediane, a patto di eliminare molti mediocri improduttivi – e qui fallisce, o fallirà, primo perché per definizione un sistema quantitativo non scova i mediocri ma li aiuta a mimetizzarsi (l’ingiunzione ossessiva a pubblicare non implica automaticamente la capacità di scrivere), secondo perché, ad esempio attraverso la precarizzazione dei ricercatori, non elimina affatto il sistema precedente, semplicemente lo asserve alle sue logiche valutative. Come ha accennato la stessa Pinto in un’intervista, le baronie diventano tecno-baronie, con una pericolosa (e perversa: nessun senso di colpa) ibridazione tra valutazione quantitativa e valutazione tra pari, entrambe anonime e vendicative.
I due sistemi insomma non si escludono affatto, o fingono di scontrarsi: in realtà fanno, o faranno presto sistema tra di loro, troveranno o stanno già trovando il modo di coesistere, ovviamente a discapito della critica, cioè della filosofia e di tutti quegli atteggiamenti intellettuali non specialistici che minano l’operazionalità della pseudo-cultura, che è anch’essa uno specialismo – ma anche a discapito delle decennali glosse a pensatori totalmente irrilevanti nella storia delle idee ma utili a costruire carriere: qui ben venga la mannaia della valutazione. Da questo punto di vista, sono in completo disaccordo con la difesa dello studioso perso nella biblioteca fatta da Pinto a p. 178: non tutti covano il capolavoro mentre perdono tempo. Sono inoltre molto pessimista: oggi lo studioso ‘di valore’ o addirittura il genio invalutabile, sia dentro che fuori dell’università, è sempre più raro. Il sistema degradante si è inevitabilmente degradato. I processi di soggettivazione del tardo capitalismo rendono sempre più difficile la sua formazione, la sua comparsa, e ovviamente la sua affermazione: sempre più spesso chi oggi accetta di passare sotto le forche caudine del tecno-baronaggio non lo fa (più o soltanto) per vocazione, ma per diventare una star accademico-mediatica capace di attrarre finanziamenti.
Forse per questo il libro di Valeria Pinto, come accennavo all’inizio di questa recensione, si annuncia fin dalle prime pagine malinconicamente impolitico: “Non spetta d’ufficio a chi svolge un esercizio di critica presentare soluzioni, individuare …alternative, anzi …finalità oltre la prassi critica medesima” (p. 17). Forse invece bisognerebbe farlo, per rivendicare (anche contro il proprio giustificato pessimismo intellettuale) la dimensione politica del pensiero, e bisognerebbe farlo a partire dalla pratica didattica, che è quella nella quale, in fondo, si insegna la critica. La critica in un certo senso è la soluzione, ma a patto che sia proposta sistematicamente come forma politica di soggettivazione. La responsabilità etica che l’università pubblica si trova oggi a sostenere non riguarda tanto la necessità di continuare a fornire una valutazione qualitativa degli studenti e della stessa ricerca, quanto una possibile ri-politicizzazione dell’insegnamento capace di ridicolizzare, giudicare e quindi distruggere, la valutazione economico-amministrativa del sistema dell’istruzione superiore – pena la sua distruzione, e la distruzione della filosofia come “modo di vivere”.
A mio giudizio l’università italiana, in questo particolare momento storico-politico, non è in grado di farlo, di sostenere questa responsabilità e rilanciare politicamente il nesso insegnamento/ricerca, non solo perché attaccata dall’interno (cioè in modo parassitario) dall’ANVUR, ma perché ormai sempre più veicolo di pseudo-cultura, soprattutto nelle facoltà scientifiche (le uniche che ‘tirano’), cioè colonizzata da acculturati, da specialisti. Il vero rischio, in tale situazione, è che non si creino più concetti – per citare il Deleuze con cui Pinto chiude efficacemente il suo libro. Infatti i concetti non si creano e non esistono mai individualmente, bensì solo comparativamente, a confronto con i concetti altrui – come le differenze. In altre parole, i concetti si devono non solo creare, ma anche insegnare, e con ciò insegnare a crearli. È forse questo l’unico compito paradossale, e politico, rimasto alla filosofia.
Note con rimando automatico al testo
1 M. Foucault, Illuminismo e critica, Donzelli, Roma 1997, forse il principale riferimento teorico del libro insieme a Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France 1978-79, Feltrinelli, Milano 2005.
2 Come notava Pierandrea Amato nella succitata discussione sul volume di Pinto, nel codice valutativo elaborato dall’ANVUR ciò ha portato, o sta portando ad un devastante irrigidimento delle soglie disciplinari, peraltro già molto marcato nell’università italiana: vietato ibridare tra settori disciplinari diversi, pena la invalutabilità del ‘prodotto’.
3 T.W. Adorno, Teoria dell’Halbbildung, il nuovo melangolo, Genova 2010.
4 Una sociologia ironicamente ‘quantistica’ e non quantitativa, visto che la meccanica quantistica ha portato l’aleatorietà nel mondo della fisica e più in generale nel mondo delle cosiddette scienze dure.
5 P. Bourdieu, La riproduzione. Per una teoria dei sistemi di insegnamento, Guaraldi, Bologna 2006. Questo, come altri testi capitali di Bourdieu sulla riflessività applicata al campo o, in termini foucaultani, al pastorato accademico (penso a Homo academicus, Meditazioni pascaliane, ecc.), non vengono utilizzati da Pinto, che si limita a citare Il mestiere di scienziato. Corso al Collège de France 2000-2001, Feltrinelli, Milano 2003.
6 Su ciò cfr. sempre P. Bourdieu, La riproduzione, cit.
7 Su ciò cfr. (indicazione di Bruno Moroncini) J.-C. Milner, Le Salaire de l’idéal, Le Seuil, Paris 1997. Sia detto en passant: questo filosofo ebreo francese di origini lituane, althusseriano e lacaniano, ha (giustamente) accusato Chomsky di essere un pensatore ideologico e naif, ma nel 2007 avrebbe definito I delfini (1964; trad. it. Guaraldi, Bologna 2006) un libro antisemita; ebbene, sfido chiunque a leggere il libro di P. Bourdieu e J.-C. Passeron e a giudicarlo antisemita.
8 Si potrebbe addirittura sostenere che questo tipo di mentalità sia in parte responsabile dell’attuale crisi economica, poiché è chiaro che i modelli autoavverantisi di gestione del rischio sono saltati, o stanno saltando, si stanno rivelando sempre più fallaci quando e perché applicati allo stesso capitalismo, che si autovaluta ossessivamente.
9 Su ciò mi permetto di rimandare al mio Il potere della comparazione. Un gioco sociologico, Mimesis, Milano-Udine 2012.
http://www.kainos-portale.com/index.php/recensioni-portale/280-valutare-e-punire