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Van élet a halál elött?

Creato il 08 gennaio 2013 da Eraserhead
Van élet a halál elött?Dopo un cortometraggio intitolato Beszélö fejek (2001) che vanta su IMDb una recensione entusiasta (link), Benedek Fliegauf, ungherese di Budapest e regista autodidatta, come ben ci ricorda la stringata biografia wikipediana (ri-link), esordisce con questo Van élet a halál elött? (2002) la cui traduzione spicciola è “c’è vita prima della morte?”. Si tratta di un documentario totalmente incentrato su Andrew Feldmár (primo piano stretto, e parole parole parole…), psicoterapeuta classe 1940 nato in Ungheria ma trasferitosi a 16 anni in Canada dove ha compiuto gli studi e dove dimora tutt’ora. L’interesse di Fliegauf nei confronti di Feldmár nasce da un consiglio dal fratello psicologo che lo spinse alla lettura di un suo libro del quale rimase così affascinato da voler approfondire la conoscenza attraverso questo bio-documentario. Feldmár, e non si può negarlo, è una voce fuori dal coro scientifico, sicché è probabile che l’etichetta “scienziato” appena utilizzata non gli garberebbe per niente visto che il suo pensiero, o almeno quello che qui viene proposto, si scaglia prepotentemente contro il mondo accademico e contro quelle imposizioni che col tempo sono diventate dogmi sottaciuti.
La prima parte del film, che si apre con Feldmár nel bel mezzo di una prassi ipnotica, si costituisce in una visione generale del dottore dove viene spinta molto la questione dei ruoli che le persone assumono nella società e che offuscano la loro vera essenza, ne consegue per Feldmár che il mestiere di una persona o anche il matrimonio sono elementi deleteri da risanare. Si prosegue poi con il concetto di schizofrenia e di come essa sia una malattia “inventata” dai medici, a sostegno di ciò Feldmár porta ad esempio il fatto che in un paese in cui il capitalismo non ha attecchito, lui parla dello Sri Lanka, ad un soggetto disturbato che si reca da uno sciamano gli verrà proposta come “terapia” di mangiare per tre giorni consecutivi con i propri cari. E così via: le storie (anche professionali, quella del suicidio-aborto sembra la trama di un film) e le elucubrazioni di Feldmár ripreso durante lezioni/conferenze scorrono nel loro discorrere esercitando un discreto fascino su chi della materia ne sa poco o nulla.
Nella seconda parte viene allo scoperto il motivo per cui Feldmár è “famoso”. I suoi metodi non esattamente ortodossi lo hanno portato negli anni a considerare alcuni tipi di droga come l’LSD dei rimedi per i mali dell’uomo moderno. Egli non fa accenni alle controindicazioni del caso per proferire davanti alla camera di Fliegauf gli efficaci risvolti terapeutici di questa sua cura; a sostegno della tesi riporta un caso empirico in cui un suo paziente alcolista dopo la somministrazione di allucinogeni ha smesso di bere. Non che lo psichiatra inciti a far uso di droghe e quant’altro, si tratta piuttosto di una serie di provocazioni dirette a tutte quelle convenzioni scientifiche (e culturali, politiche, sociali) che tanto gli danno fastidio. Nel complesso un lavoro riuscito che offre il ritratto di una personalità forte e controcorrente, in più è l’occasione giusta per approcciare il cinema di Fliegauf e, perché no, una chiave di lettura per comprendere le opere che verranno.

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