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Con Aurora (2012, è il titolo originale) si può scivolare nello schema più comune di maggior parte delle recensioni, ovvero un all’incirca dettagliato elenco di ciò che non va all’interno del film, controbilanciato dal paragrafo successivo dove vengono prese le difese di Kristina Buozyte sottolineando i meriti che ad ogni modo ci sono. Ma, vista l’energia che scaturisce dall’ultimo quarto d’ora, il sottoscritto preferisce partire da lì: da una corsa a perdifiato ripresa di spalle nel cuore della notte dove un uomo nudo rincorre una donna ugualmente nuda, il tutto incrementato dalle distorsioni sonore di Peter Von Poehl efficaci e penetranti. Quanto accade dopo non è giusto che vada specificato in questa sede, resta il fatto che a mio modo di vedere con quella sequenza conclusiva l’opera, dopo un andamento ondivago e magari non convincente al 100%, si incunea finalmente nel nucleo tematico, e lo fa riuscendo ad essere A) originale (colpisce la doppia confessione biografica nel buio più denso con un carrello in avanti che col suo movimento dà corpo… ai corpi) e B) intimo, sincero, quando fino a quel momento il rapporto extra-dimensionale tra Lukas e Aurora appariva qua e là artificioso, costruito a puntino (da subito: la fidanzata va a letto e Lukas si mette a guardare un porno), inevitabilmente nebuloso visto il contesto in cui è stato strutturato. Quindi, basta un finale che impressiona e che convince appieno per mitigare le manchevolezze di ciò che c’è stato prima? Domanda retorica. Meglio addentrarci nella sostanza che precede la chiusura.
A scandagliare lo statuto ontologico di Vanishing Waves si può estrapolare la seguente dicitura: sci-fi romantico, fantascienza sentimentale, è all’interno di tali registri non propriamente contigui che il film vive, certo che in merito all’area fantascientifica la citazione tange la derivazione: scienziati con pochi scrupoli, marchingegni futuristici, realtà virtuali, per non dire poi dell’assunto che fa da sostrato (entrare nelle testa di un altro essere umano) già visto in forma pressoché identica nel The Cell (2000) di Tarsem (identica anche la conformazione del racconto che alterna la concretezza del mondo alla visionarietà del non-luogo celebrale), e tenendo conto dei dubbi in merito ad un Tarsem seminale, di esempi sulla questione presumo possano essercene molti altri ancora. La Buozyte, che è nata nel 1982 e che comunque ha lavorato con budget inferiore alle potenzialità del progetto, si potrà però far ricordare per i segmenti onirici che hanno un impatto visivo importante; tralasciando l’abbondanza di computer grafica che inquina tali passaggi, è percepibile il desiderio di lasciare un segno nell’occhio spettatoriale e per chi scrive l’obiettivo viene raggiunto sia nelle scene dove ci si affida alla geometria (la tavola imbandita) che in quelle dove si investe sull’Immagine – anche gratuita – (il coacervo orgiastico di corpi pronto ad assurgere a simbolo dell’opera), se poi si aggiunge un clima vagamente lynchiano nei frangenti in cui entra in scena l’uomo misterioso (che è Sharunas Bartas) allora le pecche derivanti da un’impostazione già vista si attenuano e non pesano poi così tanto.
Il fiammeggiante trailer (qui) vende Aurora per quello che forse in realtà non è, ciò non significa che non sia niente, anzi: è piacevole prendere atto della commistione categoriale che ci restituisce una fantascienza rinvigorita e arricchita, in parte nuova, assimilabile al mood di Target (2011), ed è altrettanto piacevole trovare l’intessitura di un rapporto sentimentale che per buona parte della sua durata palpita, paradossalmente, nel cervello, rivelando però poco prima del capolinea di possedere anche un cuore.
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