Puntata 6 – anno 1, 7 aprile 2012
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Questa è una puntata del primo anno di Vanloon, la nostra rubrica su Radio Città Fujiko; vai alla pagina Radio per trovare le altre puntate.
Ciao a tutte e tutti da Elena e Franz,
oggi vogliamo parlare di un caso di cattivo uso pubblico della storia. Protagonista ne è Antonio Gramsci e il suo pensiero.
Gramsci fu una delle personalità più importanti del nostro Novecento: deputato, dirigente politico, tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia e tra i pensatori italiani più studiati all’estero, per la complessità della sua elaborazione filosofico-politica. Una figura capitale, riferimento intellettuale per correnti ideologiche persino agli antipodi tra loro.
Antonio Gramsci (1891 – 1937)
Non sorprende quindi che, persino a sessant’anni dalla morte, Gramsci sia al centro di un vivace dibattito culturale. Tuttavia negli ultimi anni si è registrato un nuovo filone di lettura, volto a ricercare aspetti e dimensioni del pensiero gramsciano pretese alternative rispetto a interpretazioni più scientifiche e rigorose datele nel dopoguerra da grandi studiosi, marxisti e non. E quindi si scoprirebbe sorprendentemente un Gramsci colluso col fascismo, oppure padre di un comunismo totalitario, teorico dell’intolleranza e della violenza nei confronti dell’avversario politico, cinico e meschino nella sua ambiguità con la fede cattolica e infine traditore delle proprie idee e dei propri compagni pur di ottenere l’agognata libertà.
Lui, che è stato incarcerato perché antifascista e che è rimasto prigioniero per dieci anni, fino alla morte. Rilettura ben simboleggiata dalla recente polemica suscitata dall’intervento di Roberto Saviano sulle colonne di Repubblica, con la sua recensione al libro del sociologo e professore Alessandro Orsini: Gramsci e Turati, le due sinistre.
Queste «due sinistre», una riformista e una rivoluzionaria, sarebbero incarnate dalle figure parallele del socialista Filippo Turati e Antonio Gramsci. A prova di tutto ciò vengono riportate frasi e scritti di quest’ultimo che ne metterebbero in evidenza la natura ottusa, violenta e intollerante nei confronti dell’avversario politico, oggetto di una vera e propria demonizzazione. Dall’altro lato, avremmo un Turati epigono della tolleranza, dell’apertura e dell’ascolto delle posizioni altrui, nell’ambito di un tentativo di conciliazione fra i sistemi ideologici del socialismo e del liberalismo. Gramsci, invece, viene dipinto come arroccato in un estremismo velleitario e infruttuoso, che segnerebbe ancora oggi la pratica quotidiana della Sinistra italiana.
Ma è proprio così? Cerchiamo di fare chiarezza.
Sin dall’inizio della sua formazione politica e intellettuale, Gramsci si rifà a quei pensatori marxisti che non vedevano l’avvento del comunismo come una fase della Storia che sarebbe arrivata quasi da sola, quando il capitalismo fosse entrato in crisi. Al contrario, sviluppa una «filosofia della prassi», incentrata sull’azione umana e sulla sua forza creatrice. Infatti per lui libertà del soggetto e Rivoluzione risultano legate indissolubilmente.
Non sempre per lui la ribellione armata si rivela utile a lungo termine: per non far scadere l’azione socialista in senso ribellistico e violento, serve infatti qualcuno che educhi e indirizzi le masse verso il comunismo, cioè il Partito. A formare le coscienze dei militanti e prepararle all’azione Gramsci dedicherà la sua vita, sia come segretario del PCdI che durante i lunghi anni di prigionia, in cui scrive i Quaderni del carcere, la sua opera più importante.
In questi scritti viene ripensata criticamente la rapida ascesa del fascismo in Italia, e come le sinistre non siano state in grado di contrastarlo: Mussolini avrà certo avuto il sostegno della grande borghesia e del Re, ma perché gran parte della classe media e lavoratrice era rimasta a guardare?
Il pensatore sardo si accorge dunque che, a differenza della Russia degli zar dove la rivoluzione bolscevica era stata vittoriosa, lo Stato controllato dalla borghesia capitalista riesce a creare consenso, controllando i grandi giornali, stigmatizzando la pratica dello sciopero, lanciando i poveri nelle sue Grandi Guerre per l’onore della nazione.
Gramsci pensa allora a un partito comunista che sappia opporsi a quel consenso e ne costruisca uno diverso, di classe: un controllo e una massa critica che riesca a portare verso le idee del socialismo non solo gli operai delle fabbriche, ma anche i tantissimi contadini analfabeti delle campagne meridionali, che saranno un giorno i militanti pronti per prendere il controllo dello Stato e dei mezzi di produzione; arrivando insomma a fare nella società civile quella che Gramsci chiama «egemonia».
Come si concilia dunque tutto ciò con la rilettura di Gramsci come fascista, violento e arrogante attuata da certi pubblicisti, e a cui Saviano ha dato un inedito risalto?
Al netto della presumibile buona fede dello scrittore, il rischio è che la visibilità mediatica che si è guadagnato con le sue opere e il suo impegno possa essere usata per veicolare al grande pubblico un messaggio forse apprezzabile negli intenti, ma semplicemente infondato e travisante, che rende un brutto servizio alla Storia e alla coscienza critica. Perché in verità ci sembra che il pensiero gramsciano venga appositamente riveduto e corretto per dimostrare una tesi politica con lo sguardo troppo spostato sull’oggi; e affrontare problemi storici e scientifici con questa impostazione giornalistica, cioè rilanciando tesi discutibili cercando di convincere scandalizzando più che approfondendo, serve a creare tifoserie pro o contro ma non invita a pensare con la propria testa. Si potrebbe dire che la superficialità crea mostri culturali!
La maniera migliore per farsi un’idea su un pensatore, specie della statura di Gramsci, è probabilmente ancora oggi quella di confrontarsi con la sfida di leggerlo in prima persona.
E con questo vi salutiamo, vi auguriamo buona Pasqua e come sempre vi diamo appuntamento alla prossima puntata!
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