Puntata 3 – anno 3, 30 novembre 2013
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Ciao a tutte e tutti da Olga e Lara.
Loro si sentono gli unici custodi del solo racconto autorizzato e legittimo del conflitto interno che insanguinò l’Italia fra l’autunno del 1943 e l’aprile 1945. Per poi sfociare in una dura resa dei conti sui fascisti sconfitti. E tutto ciò che contraddice il racconto da loro difeso deve essere smentito. O, meglio, ancora, taciuto, ignorato, cancellato.[1]
Parole di Giampaolo Pansa nel best seller I gendarmi della memoria.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a diversi tentativi di rivisitare in senso negativo la storia della Resistenza italiana contro il fascismo che finora si erano diffusi per lo più a livello di dibattito sui mezzi d’informazione. L’assegnazione del prestigioso premio «Acqui Storia» ad un volume tacciato di revisionismo, perché mette in discussione la Resistenza emiliana e i fratelli Cervi, ci induce a considerare meglio il significato di questo termine e pensare che questa corrente stia acquisendo legittimazione anche in ambienti scientifici. Quand’è che si parla di revisionismo storico? E come si è caratterizzato in Italia il revisionismo sulla Resistenza?
All’interno della comunità scientifica si parla di «revisionismo» quando l’interpretazione prevalente di un fatto o di un fenomeno viene messa in aperta discussione. Per questo motivo l’espressione nasce con un senso neutro: l’emergere di nuove fonti o scuole di pensiero tenderà sempre a fare sì che il modo di leggere la storia sia «revisionato», di pari passo con il cambiare dei tempi.
Nella pratica l’utilizzo a fini politici di riletture della storia contemporanea ne ha decretato il senso negativo che tutti conosciamo.
Infatti nel dibattito italiano si parla di revisionismo soprattutto intorno alla Seconda guerra mondiale, al fascismo e al fenomeno resistenziale. Nell’ultimo quindicennio è cresciuta a dismisura la pubblicistica sui presunti crimini dei partigiani e il ruolo marginale, se non dannoso, della Resistenza nella storia d’Italia.
Non è però un caso che proprio in questo periodo queste interpretazioni siano diventate moneta corrente. Nella società italiana il crollo all’inizio degli Novanta della cosiddetta Prima Repubblica ha comportato un’importante rottura. Fino ad allora il sistema di partiti si era bene o male legittimato grazie al legame col movimento antifascista e la scrittura della Costituzione. Comunisti, democristiani, socialisti, liberali e quant’altro potevano insomma sì essere diversissimi tra loro, ma erano pur sempre legati dal fatto di avere partecipato al Comitato di Liberazione Nazionale durante la guerra e avere contribuito a portare l’Italia fuori dal fascismo.
Partigiani, presumibilmente a Venezia durante l’insurrezione
Dopo lo scandalo di tangentopoli l’avvento in Parlamento e al governo di forze che antifasciste non erano (perché si dichiaravano fuori dal paradigma resistenziale o erano eredi di partiti che con il fascismo non avevano mai veramente rotto) significò anche la progressiva normalizzazione di un certo tipo di discorso storico. Infatti, di cosa parliamo nel caso della storiografia revisionista sulla Resistenza? Partiamo dal principio: fin dall’immediato dopoguerra ci fu sempre chi si opponeva all’esito e alle motivazioni della lotta di liberazione, vuoi perché parte del vecchio regime, vuoi perché cercava di dare forma al qualunquismo nascente. Un sentire che in qualche modo c’è sempre stato, in modi e tempi diversi.
A livello minoritario, una vera e propria storiografia revisionista fu invece da subito legata ai movimenti più radicali di estrema destra, che negavano in toto il ruolo positivo della lotta partigiana. Vista solo come ribellione all’ordine costituito, tentativo fallito di rivoluzione sovietica o mera esplosione di violenza contro i civili.
Secondo queste correnti, il fascismo non fu poi così diverso dalle contemporanee democrazie liberali europee, e la Resistenza espose irresponsabilmente le popolazioni civili alle rappresaglie tedesche. Non a caso buona parte di questi libri si concentra sul versante delle stragi, usando perlopiù fonti fasciste e senza nascondere la propria strumentalità ad un disegno politico ben preciso.
Certamente il dibattito storico sulla Resistenza e la seconda guerra mondiale ha fatto negli ultimi decenni grossi passi avanti, anche sulla spinta delle critiche mosse dai revisionisti. Il punto debole della storiografia «ufficiale» su questi temi è stato quello di prestare il fianco alla creazione di un vero e proprio Mito della Resistenza. L’immagine fissata nella memoria pubblica era quella del partigiano, maschio, col mitra in mano, che combatte in montagna ma più recentemente sono stati messi in luce aspetti meno noti del fenomeno: la partecipazione femminile, le conseguenze sulla popolazione civile e la vera e propria guerra mossale dalle camicie nere, le differenze e gli scontri, anche aspri, tra le diverse formazioni partigiane.
La Resistenza non è stata solo una questione di combattimento sul campo o di contrapposizione tra fronti diversi. Per comprendere ed inquadrare ciò che è stata realmente la Resistenza italiana nel suo aspetto di movimento di liberazione nazionale, bisogna prendere in considerazione tre fattori. Prima di tutto il significato di 20 anni di fascismo: la desertificazione di tutti i diritti civili, politici, sindacali, religiosi. In secondo luogo le conseguenze di una guerra totale: il trauma psicologico dei bombardamenti, i massacri, la scelta della «via per le montagne», con la paura delle ripercussioni sulla propria famiglia. Come ultimo fattore, non bisogna dimenticare l’aspetto prettamente militare della Resistenza, in cui il violento contesto bellico comportava delle scelte tattiche dolorose.
Oggi si tende quindi a pensare alla seconda guerra mondiale come ad una guerra totale, il che include anche una guerra civile, nel senso che sul campo si confrontarono diverse idee sulla natura e l’avvenire dei destini d’Italia. Una eminentemente autoritaria e dittatoriale, l’altra democratica ed aperta alle libertà civili e politiche. Il che non significa che tutti i partigiani fossero eroi contro i fascisti tutti prezzolati assassini, ma nemmeno un rovesciamento secondo cui i repubblichini (squadracce della morte comprese) furono solo tragiche vittime della storia, animati da ideali di onore e fedeltà alla patria.
Si dice spesso che la storia è scritta dai vincitori, come a sminuire il valore del racconto storico stesso. La storia scritta dai vincitori, in questo caso gli antifascisti, non può essere una scusa o un pretesto per denigrare in toto la storia della Resistenza, bisogna che ci sia una problematizzazione e una critica delle fonti minuziosa che non può fermarsi superficialmente al singolo episodio decontestualizzato da una storia collettiva dove cause e conseguenze non cominciano e finiscono in Italia ma vanno anche ricercate nella complessità degli attori in campo. Senza dimenticare venti anni di fascismo.
E con queste riflessioni vi salutiamo e vi invitiamo a visitare il nostro sito www.casoesse.org e alla prossima puntata
Note (↵ returns to text)- Giampaolo Pansa, I gendarmi della memoria, Milano: Sperling & Kupfer, 2007↵
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