Parlare del relativismo come del “lasciarsi portare qua e là da qualsiasi vento di dottrina”[1], come fa papa Ratzinger, rivela tutta la debolezza di un pensiero monolitico che non può permettersi il confronto con altri modelli culturali e li esclude a priori. La pretesa universalità dei valori viene sostenuta a dispregio della evidente multiversalità dell’esistente e di quella inconciliabile e insolubile lotta tra valori di weberiana memoria. A fronte della fiacchezza dialettica si invocano principi di etica condivisa, che malgrado le acrobazie teologiche presuppongono un elemento dialogico che ogni cultura dell’assoluto deve negare per definizione. Ad accrescere l’assurdo si evocano parole impegnative come verità e bene comune per giustificare il tramandarsi di un banale sistema di potere.
L’ultimo grido del pensiero pontificio è costituito dal disperato, quanto patetico, tentativo di ricondurre la ragione scientifica alla fede. L’esempio non è privo di illustri precedenti, come quello di Tommaso d’Aquino, al quale i due passati pontefice non mancano di richiamarsi. A qualche scettico irriverente può sembrare che il maldestro tentativo sia rovesciato: ricondurre la fede alla ragione scientifica!
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Max Weber ci ha insegnato che all’origine della scienza vi è la scelta di un sistema di valori che non può essere scientificamente dimostrato[2], Joseph Ratzinger tenta l’impresa della razionalizzazione, non più della fede quale mezzo per raggiungere il fine della vita eterna, ma dell’atto di fede stesso. Il cammino era stato già indicato dalla Fides et Ratio di Giovanni Paolo II dove la ‘conciliazione’ tra fede e ragione aveva il sentore di una subordinazione della ragione alla fede o, meglio, al magistero vaticano.
La fede, la “follia per la ragione” di Paolo di Tarso, non è mai bastata al potere ecclesiastico per affrontare i marosi della modernità, figuriamoci quelli della postmodernità. L’uso della ragione come argomento di sostegno delle verità rivelate, infatti, non è certo recente. Intorno al 1750 David Hume, nei Dialoghi sulla religione naturale, faceva notare come più volte “i nostri astuti uomini di Chiesa hanno cambiato sistema filosofico” e dai “secoli oscuri seguiti alla dissoluzione delle antiche scuole…, prima scettici poi dogmatici, i nostri signori ecclesiastici prescelgono volta per volta qualsiasi sistema meglio soddisfi lo scopo di esercitare un ascendente sull’umanità e lo fissano come canone istituzionale”[3].
Oggi nel tripudio generalizzato in cui le divinità, della scienza e della religione, lottano tra loro con armi spuntate avendo entrambe dimenticato le rispettive categorie dei mezzi e dei fini, l’attenzione delle masse è rivolta ora all’una ora all’altra divinità, a seconda della loro visibilità in televisione. L’assurdità è sempre stato un solido fondamento, Tertulliano dixit.
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La nostra epoca, tra le altre cose, si qualifica per una maggiore consapevolezza delle peculiarità del tempo che ci è dato vivere. Nel bene o nel male la globalizzazione non permette più ripari dal sapere cosa avviene nel mondo anche se spesso l’interpretazione dei fatti, più che apertura al senso e apertura di senso, è usata come unico baluardo ai tentativi del mondo di irrompere nella nostra tranquillità quotidiana. Oltre all’ermeneutica ben temperata c’è un altro strumento ultimamente molto usato per correre ai ripari dall’irruzione del pubblico, che è il contrattacco del privato. Di fronte alle schiaccianti domande di un’umanità che chiede conto di giustizia sociale ed economica, guerre, fame, degrado ambientale, perdita del significato etico inteso come bene comune, mancanza di reciproco rispetto e responsabilità dell'agire, e quant’altro riempie il nostro tempo si risponde candidamente con l’etica delle mutande[4] di Wojtyla e di Ratzinger che è la versione teologica della televisiva pornografia del dolore.
Una buona parte di responsabilità di questo stato di cose può essere ascritta ad un progressivo e spero non definitivo abbandono dei temi etici da parte del pensiero e dell’agire politico, che si sviluppa nell’ambito pubblico per eccellenza, e che ha lasciato alla Chiesa il territorio dei comportamenti, pensando ad una naturale correlazione tra fede e costumi, correlazione tutta da dimostrare.
La politica non sa più parlare di etica del cittadino come i papi hanno dimenticato il fondamento dell’etica cristiana che è in quell’amore per il prossimo prima che nella dottrina, per cui gli uni amministrano il presente ricevuto in eredità invece di governare la costruzione del futuro e gli altri impartiscono dettami morali di corto respiro, entrambi in vista della loro caduta più che del loro sviluppo. Il politico amministra per scongiurare la possibile non rielezione e il magistero clericale preferisce trattare con i principi immutabili che con la ben più sfuggente complessità umanità. Del resto bisogna pur sopravvivere!
Il risultato è evidente, lo sviluppo di una branca specializzata dell’etica con un preciso ambito di elezione. Del resto se l’immoralità della filosofia del boudoir del divino marchese meritava una smentita, quale migliore terreno argomentativo dell’etica del boudoir?
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Per giustificare passioni antiche ci si trova spesso ad invocare un allargamento della ragione moderna, e sul ‘disegno intelligente’ si ritrovano perdute alleanze tra teologi, solitamente agguerriti sulle distinzioni tra le cose divine quanto solidali nella negazione delle evidenze terrene. Joseph Ratzinger e Hans Küng, smesse le vesti di rivali nelle dispute teologiche e dottrinali, uniscono i loro sforzi nella lettura degli eventi naturali ed il risultato è una più o meno rozza negazione della validità della teoria evolutiva secondo la quale l’uomo sarebbe il risultato di processi selettivi senza un preciso disegno divino[5]. L’alternativa del disegno intelligente, con leggere correzioni, rimetterebbe tutto in ordine assegnando un giusto ruolo a Dio e soprattutto mettendo al riparo molti uomini dalla frustrazione di non sentirsi eletti ab origine alla missione dell’esistenza.
La negazione dell’evoluzione è roba vecchia e potrebbe avere il suo nucleo nella concezione platonica delle idee immutabili che caratterizzerebbero l’iperuranio divino. Ciò che appare fastidioso dell’evoluzione è la presunta negazione di Dio, sebbene un giudizio meno affaticato dal livore renderebbe evidente che dalla non necessità di Dio per la spiegazione dei processi evolutivi non consegue logicamente la dimostrazione della sua inesistenza. Io sono convinto che se Dio esiste saprà trovarsi il suo da fare anche senza agenzie di collocamento, anche senza farcelo sapere, pertanto mi lascia perplesso che dei teologi, anche con una certa esperienza, si diano tanto da fare per trovare occupazioni a Dio tutte stranamente indirizzate alla realizzazione di un io dilatato. Se la scienza non fa menzione di Dio nelle sue peregrinazioni non è forse la massima espressione del rispetto di quel terzo comandamento disatteso in uguale misura da fanatici credenti e non credenti, accecati dalla volontà di imporre la loro visione all’intero universo, Dio compreso?
L’allargamento della ragione, che in troppi contesti troverebbe la sua pertinenza, in questo caso è invocato come si invoca aiuto mentre si sta annegando, allora si invoca Dio come fosse il bagnino ontologico perché il naufragar nel mare della storia umana e terrena, lungi dall’essere dolce viene rifiutato. La presunta mancanza di un ordine etico in un mondo governato dalla contingenza è l’assurdo cavallo di battaglia cavalcato in queste occasioni. Da teologi avvezzi a sottili ragionamenti, come Kung, ci si aspetterebbe veramente di più. Forse è prerogativa di chi ignora l’umano ricorrere alla trasumanazione, quanto di chi ignora la natura ricorrere al soprannaturale. Pertanto la difficoltà di distinguere i motivi passionali da quelli razionali per rigettare il discorso dell’evoluzione ed il proposito di allargare la ragione getta inquietanti dubbi sulla autentica comprensione di quel centro da allargare.
Mark Twain scriveva nel suo saggio “Was the world made for man?” (Il mondo fu fatto per l’uomo?), quando la Torre Eiffel era l’edificio più alto del mondo, “l’uomo esiste da 32000 anni. Che siano occorsi cento milioni di anni a preparare il mondo per lui è una prova che il mondo esiste per l’uomo. Io suppongo che sia così. Non lo so di sicuro. Se la Torre Eiffel rappresentasse l’età del mondo, lo spessore della vernice sul pinnacolo al suo vertice rappresenterebbe la durata relativa dell’esistenza dell’uomo; e chiunque percepirebbe che quel sottile strato di vernice fu ciò per cui fu costruita la torre. Suppongo che lo percepirebbe, non lo so di sicuro”[6], sebbene le età stimate per gli eventi geologici ed evolutivi abbiano subito delle revisioni nel tempo, l’affermazione di Twain non ha perso il suo smalto!
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Walter Benjamin faceva rilevare che la caduta dell’uomo nel Genesi è rappresentato dalla transizione dalla conoscenza dei nomi alla conoscenza del giudizio[7]. La conoscenza non sarebbe punita per sé stessa ma perché accompagnata dal giudizio del bene e del male nell’unico posto dove nulla può essere letto in questi termini dall’uomo. Più recentemente Maurizio Ferraris lamenta il passaggio della teologia dalla sfera ontologica, attenta all’essenza delle cose divine, alla sfera morale, attenta ai costumi, patologicamente ridotti a quelli sessuali.[8]
Da enti finiti, quali siamo, è decisamente complicato sostenere un lungo discorso su un ente infinito che peraltro non è sicuro sia un ente, a occhio e croce, dopo una rapida lettura di Heidegger. Per allontanarsi dal rischio metodologico di svuotare il mare con un bicchiere e dall’ancor più rischioso risultato che l’esistenza sia il meno divino tra gli attributi di Dio allora ci si rivolge verso i più sicuri lidi della morale. Tuttavia, la supposta sicurezza di tali lidi è stata conquistata con lo stupro della morale che nata dal bisogno di convivenza è degenerata a morbosa curiosità dei desideri altrui. La ‘mesotes’ di Aristotele diventa ‘aurea mediocritas’ e in un continuo precipitare dei costumi, non solo linguistici, del giusto mezzo si perde memoria facendo rimanere solo l’odierna mediocrità. (Detto tra parentesi pare che siano in molti a considerare la faccenda del sesso centrale anche se sono altri i temi che mi rendono insonne... giustizia sociale ed economica, guerre, fame, degrado ambientale, perdita del significato etico inteso come bene comune, reciproco rispetto e responsabilità dell'agire, ecc. ecc. Del resto il sesso ha assillato le menti eccelse di Darwin e Freud, perché non dovrebbe assalire quelle di Wojtyla e Ratzinger?).
Nella collettiva degenerazione che fa fare la ola ai papaboys e ai giornalisti quando il papa condanna contemporaneamente la reificazione delle merci e Marx, per essere al passo coi tempi è necessaria una ulteriore transizione della teologia, dalla morale al gossip. Un reality show dal titolo “La sagrestia” potrebbe rivelarsi assai utile per aprire il dibattito sulla tematica che avrà senz’altro molti interessati partecipanti.
[1] J. Ratzinger, 18 aprile 2005, nell’omelia della Missa pro eligendo Romano Pontefice, citato da Enzo Bianchi nel Dialogo, Fondamentalismo e religioni, MicroMega 3/2007, p. 194.
[2] Secondo Weber l’attribuzione di senso ai vari aspetti della realtà si basa sull’interesse, ovvero sulla fede per alcuni valori piuttosto che altri, ma per Weber si tratta di una fede assolutamente priva di fondamento e garanzie. Cfr. E. Severino, La filosofia contemporanea. Rizzoli, 1986, p. 175.
[3] D. Hume, Dialoghi sulla religione naturale, in La religione naturale, Editori Riuniti, 2006, p. 63-64.
[4] Espressione che trovo ad hoc e che ho sentito per la prima volta da Umberto Galimberti nel suo Podcast sul sito web di Feltrinelli, http://www.feltrinelli.it/.
[5] T. Pievani, Ratzinger e Küng uniti contro Darwin, MicroMega 10/2006, pp. 83-96.[6] Citato in: Gould, Stephen Jay, La vita meravigliosa. Feltrinelli, 1990, p. 41.
[7] W. Benjamin, Angelus novus, saggi e frammenti - Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo. Einaudi, 1995.
[8] M. Ferraris, Babbo Natale, Gesù adulto. In cosa crede chi crede. Bompiani, Milano, 2006.
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