Non ci sono mezze misure..o la si ama o la si odia.
Parlo della Torre Velasca che ha caratterizzato per anni il profilo dei cieli di Milano, unitamente al Duomo, al Pirelli, alla Torre Breda di via Vittor Pisani, venendo soppiantata solo ultimamente dai nuovi grattacieli costruiti ed ancora in costruzione per Expo 2015 nelle zone della ex Fiera Campionaria e delle Varesine.
Anche se alcuni (il Daily Telegraph ad esempio) la ritengono tra gli edifici più brutti del pianeta, la Sovrintendenza l’ha sottoposta a vincolo culturale in quanto espressione dello stile dell’architettura milanese dell’immediato dopoguerra definito “neoliberty”. Talmente brutta la vide anche Luciano Bianciardi, tanto da chiamarla “torracchione di vetro e cemento” nel suo libro “La vita agra”.
A me invece piace per la sua forma massiccia: un parallelepipedo sormontato da un altro parallelepipedo assai più largo della parte sottostante, massiccio anch’esso – sulla cui sommità svettano innumerevoli antenne - sostenuto da leggere architravi che hanno fatto denominare la costruzione come “il grattacielo con le bretelle”. Il tutto ricorda un torrione medievale, anche per il colore ed i materiali usati.
La forma fu imposta dalla necessità di distribuire la notevole volumetria consentita dal piano regolatore di alcuni anni prima e dall’esiguità della piazzetta omonima nella quale è stata costruita, il che fa apparire la torre all’improvviso, incombente sulle costruzioni sottostanti, mentre si percorre una strada o si svolta un angolo.
La costruzione, terminata nell’anno 1958, è opera del prestigioso studio BBPR, ossia Banfi (morto però nel 1945 nel campo di sterminio di Gusen), Belgiojoso, Peressutti e Rogers, – architetti che hanno firmato altri prestigiosi edifici quali quello in piazza Meda, dove è ospitata la libreria Hoepli, e le “Torri Bianche” del popolare quartiere Gratosoglio, alla periferia della città – con la collaborazione dell’ingegnere Danusso.
La torre è alta 106 metri e consta di 26 piani: i primi 18, situati nel torrione, sono adibiti ad uffici e quelli nel “cappello” invece ad abitazioni prestigiose, tanto da apparire anche in molti film dei primi anni ’60, quali ad esempio “Il vedovo” di Dino Risi con Alberto Sordi e Franca Valeri.