tra tutto quello che aveva lasciato sul cuscino
oltre alle sbavature del mascara, ai grovigli di capelli, alle ciglia cadute per il lutto del risveglio,
c’era anche fermo, a boccheggiare, un cuore ancora caldo e turgido.
Gemma aveva la memoria offuscata da velluto blu, lo stesso velluto del vestito della donna nel film di Lynch, non sapeva che ora fosse o dove si trovasse, ma riconosceva la stanza in cui si era svegliata, una familiare accozzaglia di colori. Pensava all’ultima cosa di cui aveva memoria, ma le sembrava che fosse lontanissima nel tempo, come un ricordo d’infanzia che è più rumore che spazio, che si perde tra le cose accadute e riaffiora con un odore, un gesto.
Nella stanza c’era una grande finestra con le imposte bianche, non sentiva nessun rumore venire da fuori, doveva essere in campagna. Qual era l’ultima cosa che aveva fatto prima di andare a dormire? Bere un bicchiere di latte freddo, forse, aveva in testa una gran confusione. La stanza profumava di oleandro, riusciva appena a percepire il battito del suo cuore, le sembrava fosse irregolare.
D’un tratto sentì dei passi nel corridoio, si facevano sempre più vicini, erano passi di uomo, lenti, forti, passi di chi non torna indietro.
I passi si fermarono, sentì il cigolio della porta di legno che si apriva muovendo un vuoto d’aria, poi il viso di un uomo. ”Gemma”, le disse “dobbiamo andare.”, e si avvicinò al letto su cui era steso, tremante, il suo corpo.
…