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Vendita diretta, biologico ed eccellenza

Creato il 25 maggio 2011 da Informasalus @informasalus

Fonte: Valori - Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità


CATEGORIE: Alimentazione , Salute
biologico
sul lungo periodo, la scelta del bio appare vincente

Tre mosse contro la logica della concorrenza a basso costo e dell’omologazione dei gusti.
Il “viaggio inaugurale” c’era stato durante la Notte Bianca del 2005. L’idea sembrava assurda: vendere latte crudo, appena munto, in tutta Roma. In pratica gli stili di consumo di una volta, applicati ai ritmi frenetici di una megalopoli.
Invece, da quel momento, tra le vie e le piazze della capitale sfreccia ogni giorno un furgone refrigerato. In quartieri popolari come “er Quadraro”, Tiburtino e Tormarancia.
In quelli “di tendenza” come Pigneto e San Lorenzo. E in quelli ultrachic come Trieste, Parioli, Prati e Monte Mario. All’interno del distributore mobile, il latte biologico prodotto da una fattoria di Fiumicino, la Biolà.
Che costa il 20% in meno di quello, industriale e non biologico, della Centrale del Latte di Roma (1 euro e 20 anziché 1,50). Il proprietario, Giuseppe Brandizzi, rappresenta la terza generazione di allevatori (suo nonno aveva una stalla in via dei Serpenti, in pieno Rione Monti, a due passi dai Fori Imperiali). La sua è stata una scelta quasi obbligata: inventarsi nuovi canali di vendita per non chiudere.
Mobili o fissi che siano, i distributori di latte “alla spina” si stanno diffondendo anche in Italia. Meno che in Europa, ma oggi se ne contano 1.482 in 93 province. Una rete che rappresenta il 2% del latte fresco venduto nel nostro Paese. E che cresce, nonostante una campagna mediatica che, nel 2008, lanciò allarmi (ingiustificati) sui presunti rischi del consumo di latte crudo, facendo crollare le vendite del 40%.
Il bio salva la filiera...
Nella partita a scacchi contro le storture della filiera tradizionale, quello della vendita diretta è solo uno dei tasselli. L’altra mossa si chiama “conversione biologica”: «Le prescrizioni obbligatorie per ottenere la certificazione hanno il risultato di ridurre i costi per l’azienda», spiega Caterina Santori, membro del Comitato esecutivo di Aiab. «Imponiamo un tetto all’uso di foraggi concentrati, vietiamo l’uso di sostanze ormonali e di Ogm. Così facendo l’impatto dei mangimi, principale voce di costo nelle produzioni convenzionali, crolla dal 100% delle aziende tradizionali al 20-30% del biologico e il produttore si mette al riparo dalle oscillazioni dei prezzi delle materie prime nei mercati mondiali».
I detrattori replicano che così, però, le mucche producono di meno. Ma, sul lungo periodo, la scelta del bio appare vincente: «Nelle aziende convenzionali le mucche hanno una vita media di tre anni. Nel bio è di dodici. Sicuramente produrranno meno, ma per molti più anni».
...protegge il territorio...
Il biologico, tra l’altro, ha un altro merito: imponendo l’uso del pascolo, diventa fattore di conservazione del territorio. «Il principio cardine è: non può esistere un allevamento biologico senza la terra. Questo vincolo si rivela un vantaggio, perché torna a dare valore ai prodotti fortemente radicati in una realtà locale».
Un tema, questo, che sta molto a cuore a chi si batte contro l’omologazione dei gusti e la standardizzazione delle produzioni.
...e salva le tipicità locali
Osserva Piero Sardo, presidente della Fondazione per la Biodiversità Slow Food: «L’industria casearia vuole latte e formaggi tutti uguali, in tutto il mondo. Così può spostare le produzioni dove costano meno. Se la filiera italiana accetta questa strada, va verso la morte. Perché o svende o chiude. Due opzioni comunque perdenti».
La ricetta di Slow Food è opposta: riscoprire le tipicità locali, far capire che ogni latte ha proprie caratteristiche, stimolare le scelte basate sulla qualità.
«Dobbiamo far capire che il latte è come il vino. Va contrastata la tendenza a consumare solo formaggi freschi e insapori. In Italia mangiamo 23 chili di formaggio all’anno a testa: è uno dei dati più alti al mondo ed è stabile da anni. Ci sono quindi ampi margini di manovra, ma servono campagne di educazione al gusto e una buona predisposizione delle centrali d’acquisto per proporre prodotti diversi dal solito».
Ma consumare prodotti di qualità è possibile senza dover stressare le tasche dei consumatori, già adesso non proprio gonfie? «Non dobbiamo produrre prodotti per pochi eletti», commenta Caterina Santori di Aiab. «Se il biologico è fatto da produttori avveduti, si può essere competitivi anche nel prezzo e possiamo avvicinarci a tutte le fasce di clientela». Più radicale Piero Sardo: «Come è impossibile pensare di comprare un buon Chianti a 2 euro a bottiglia, così non si può mangiare bene con prezzi da discount. I produttori devono essere remunerati adeguatamente e l’aumento dei prezzi è quindi una condizione necessaria. Dobbiamo invece cambiare priorità di consumo: risparmiare, rinunciando alla terza auto, al quarto cellulare, alla sesta maglia griffata. Solo così potremo scegliere davvero cosa mangiare».




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