Magazine Diario personale

Venendo via

Da Maddalena_pr

ABBIAMO VISTO DIVERSI NATALI ADDOBBARE QUELL’INGRESSO. MILLE ACQUAZZATE E GIORNI DI SOLE. L’ATTACCAPANNI RIEMPIRSI E POI VUOTARSI. TUTTE LE STAGIONI.

Venendo viaGuardo quel trespolo in metallo, una guaina blu: “Sembra un cavallo.”
È la prima cosa che mi viene da dire, venendo via con tuo padre, mentre imbocchiamo il corridoio, mentre usciamo, di lì, per sempre. Osservo un oggetto qualsiasi, un punto fermo nel mio disorientamento.

Ci sono cose che cominciano come un castigo. Un onere che nessuno ha scelto. Procedevo all’ombra del dovere, alla luce di una fiducia che sembrava sempre un crepuscolo. Immaginavo quando sarebbe finita: il sollievo, la liberazione. Mi appariva come un punto così lontano da non sapermi figurare il sapore.

Poi, un giorno di luglio, la Dottoressa ci convoca: si parla dei tuoi progressi, si parla delle terapie fatte.
Dicevi: “Con Mattia è l’ultima volta”, e non sapevo crederti.
Avevi ragione. L’ultima volta.

E finalmente siamo lì, in quel punto troppo lontano: abbiamo finito.
Ci stringiamo la mano, ci salutiamo. Un sorriso per uno.

Saliamo in macchina. L’auto svolta, il gomito della strada: accostiamo la cappella dove pregavo senza saperlo. Dove passavo il tempo quando su, al secondo piano, c’era troppo via vai. Superiamo la fermata del nostro autobus. L’entrata centrale, le porte a vetri, la guardiola.
La gola stringe.
Fa uno strano effetto: la gioia e la liberazione s’inerpicano sulla nostalgia.

Avanti indietro un milione di volte. Le prime avevi paura: non di quel luogo, dell’autobus. Tre anni di bambino col suo berretto bianco di lana ben calcato sulla testa. La sciarpa stretta al collo, la mano strizzata nella mia, in braccio, ché nemmeno sul sedile accanto osi sedere. Si guarda dal finestrino, ti tengo gli occhi impegnati oltre la condensa dei vetri ché fuori è inverno e si gela. Ti spoglio dentro, appendo tutto su quei due agganci rimasti salvi al tempo.

Ho odiato quel posto. Adesso posso dirlo.
Odiavo quella stanzetta d’attesa spoglia come una promessa non mantenuta. Odiavo il corridoio pieno di passi e di porte, di studi con dentro mille storie, peggiori della nostra. Odiavo l’odore che saliva dalla mensa. La lentezza degli ascensori. Odiavo perfino la cappella.
La sola cosa buona eri tu. Perché quello era il nostro momento.

Ma qualcosa lavorava, e lavorava bene: non è vero che i progressi sono graduali. Lo sono, forse, sotto terra. Nel mondo dell’invisibile. Davanti ai nostri volti ingenui i progressi sono fiotti: sgorgano improvvisi. Hanno tramato, silenziosi e operosi per mesi e anni, e poi un giorno un dettaglio salta fuori. E allora capisci che puoi credere davvero.

Ho preso a organizzarmi: mi porto un libro, scelgo un posto meno disturbato per leggere in pace. A volte faccio spola tra un piano e l’altro dell’edificio. Altre ci rinuncio, vado a confondermi con le altre storie nella sala d’attesa. Comincio a conoscere qualcuno.

Intanto anche tu sei cambiato: l’autobus è una primizia da gustare due volte a settimana. Conosci i numeri, le strade. Sali tenendomi la mano stretta, poi prendi il tuo posto e quasi non mi guardi più. Lo spettacolo della città t’investe.

C’è la meraviglia delle macchinette, la merendina che ti prometto dopo la terapia. Ci sono i taxi, quando abbiamo fretta, quando non ho voglia di due autobus e della lunga attesa. Ti sei ricordato che oscar84 è uno stronzo, l’ultima volta ci ha fregato, ha fatto un giro largo. Mi hai chiesto mamma, ma dove sta andando? L’hai capito anche tu, che non era la strada giusta. E allora, quando chiamo, ti raccomandi: “Non oscar84”.

Abbiamo visto diversi Natali addobbare quell’ingresso. Mille acquazzate e giorni di sole. L’attaccapanni riempirsi e poi vuotarsi. Tutte le stagioni.

Ci siamo evoluti: ho ripreso la macchina, mi hai aiutata nei parcheggi. Sono incinta di nuovo: hai incollato l’adesivo di una donna col pancione sul parabrezza, sperando, con me, di farla franca così in un parcheggio per residenti.

Cresce il mio ventre, la tua seconda sorellina. Merito tuo, dei progressi che ci hanno portati lontani, così lontani da avvicinare un desiderio.
Ora la sento muovere, le mani in grembo, sotto il mio lungo pullover grigio. Mi tiene compagnia, mentre ascolto la musica alle cuffie, mentre ti aspetto, ti vedo, che arrivi mangiandoti i gradini: “Vieni, mamma!” e mi mostri l’ultima lettera che hai imparato.

Tuo padre guida, ascolta il rovesciarsi dei ricordi.
Non avevo mai pensato alla nostalgia.
La nostalgia è vertigine. La vertigine data dalla profondità del tempo. Del ricordo.
Di noi due, la nostra consuetudine dolce-amara, le nostre mezze giornate lì. Tu e io: noi.
Questo luogo era la nostra parte più intima, un pezzo enorme di ciò che siamo. Di quanto ti amo.

Ci ho messo un po’ a capirlo. A capire che non era un castigo: era un dono. Tutto: loro, quel posto, tu. Così com’è, così com’è stato.


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