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Venezia 67 \ VENUS NOIRE (Algeria, 2010) di Abdellatif Kechiche

Creato il 10 settembre 2010 da Kelvin
Venezia 67 \ VENUS NOIRE (Algeria, 2010) di Abdellatif Kechiche Avevamo lasciato Abdel Kechiche tre anni fa, sempre al Lido, autore del tenero e divertente Cous Cous. Pareva un Leone d’Oro scontato, e invece alla fine una giuria presieduta dal cinese Zhang Ymou assegnò la vittoria al suo caro amico (e anch’esso cinese) Ang Lee, premiandolo per la seconda volta in tre anni. Ci furono polemiche a non finire e Kechiche, amareggiatissimo, tuonò che non avrebbe mai messo più piede a Venezia. E infatti… furono le ultime parole famose! Ma forse quello passato in concorso l’altra sera era suo fratello gemello, considerata la grande differenza di stile e argomento tra le due pellicole!
Ok, finiamola qui. Perché in realtà non c’è molto da scherzare: Venus Noire è un film angosciante, terribile, che non risparmia niente allo spettatore e fa riaffiorare una ferita ancora aperta nella cultura europea dell’800.
Il film è la tragica biografia di Saartije Baartman, detta “la Venere Ottentotta”, una donna nera sudafricana che divenne tristemente famosa per la forma del suo corpo, a suo modo da Guinness dei Primati: aveva, infatti, fianchi e sedere iper-sviluppati e un apparato genitale di enormi dimensioni. Tanto enormi che la poveretta, schiava nel suo paese, venne trascinata con la forza in Europa e costretta ad esibirsi nei luna-park come fenomeno da baraccone. La donna non cercò mai di ribellarsi alle continue violenze, ma la sua vita fu un’inferno: prima processata e poi venduta, costretta a prostituirsi in una casa d’appuntamenti parigina, morì di sifilide a soli 25 anni. Il suo corpo fu comprato dal Museo della Scienza Umana di Parigi a scopo di studio: gli scienziati le asportarono i genitali e li destinarono in esposizione agli studenti di medicina.
La pellicola di Kechiche si rifà deliberatamente a The Elephant Man, cercando di colpire lo spettatore con scene forti, crudeli, efferate, senza fermarsi di fronte a nulla e mostrando immagini raccapriccianti. L’intento è, ovviamente, quello di far riflettere sugli orrori del razzismo e della schiavitù in generale. Ma lo stile utilizzato dal regista, inopinatamente rozzo, morboso e ricattatorio, finisce per più per schifare e impietosire piuttosto che far presa di coscienza su chi lo guarda. Alla fine il film risulta essere toccante più per la vicenda che racconta piuttosto che per la sua realizzazione. Grande intepretazione per l’attrice Yahima Torres: se la giuria non ha il prosciutto sugli occhi, la Coppa Volpi non gliela leva nessuno.
VOTO: * *

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