FAUST di Aleksander Sokurov
Russia/Germania, 2011, 134 min.
voto: ★★★½ /4
IN CONCORSO
Questo Faust è l’ultimo capitolo della incredibile tetralogia sulla natura del potere concepita da Sokurov, ma è il primo ad interessare un personaggio fittizio (gli altri erano Hitler, Stalin e Hirohito). Quello che accomuna queste figure è una grande infelicità e un destino tragico derivante da una grande ascesa. In particolare in questa rilettura del Goethe, Faust è un uomo che si trascina stancamente in mezzo ad una umanità spinta dai suoi bisogni primari: fame e lussuria. E’ quindi una interpretazione più terrena e meno metafisica dell’originale, dove il discorso su anima e religione è solo parte dei tormenti del protagonista, mosso soprattutto dalla sete di sapere e dall’irreprimibile desiderio di possedere Margherita. Il film di Sokurov è lento, complesso, difficile da metabolizzare, ma si impone con forza agli occhi dello spettatore riuscendo a porre (visivamente, ma i dialoghi sono totalizzanti e incisivi) domande universali sull’uomo e i suoi limiti trattandole con profondità. Merito anche di un magnifico lavoro sulla fotografia, sporcata e polverosa, incentrata su tonalità di grigio e verde e una colonna sonora non invadente ma in grado di sottolineare i passaggi importanti. La figura di un Mefistofele sgradevole e dissacrante rimane impressa nella memoria, così come alcuni momenti di una bellezza sublime, come quello in cui il tempo sembra fermarsi nel primo piano sul volto candido di Margherita, come se Faust fosse riuscito, solo per un attimo, a cogliere quella felicità che valeva il prezzo della sua anima, ma l’avesse persa appena resosene conto.
STATELESS THINGS di Kim Kyungmook
Jultak dongshi, Sud Corea, 2011, 110min.
voto: ★★/4
Stetaless things è la storia di due immagrati (un coreano del nord e una cinese) e delle difficili condizioni nelle quali si trovano a vivere, una storia che si intreccia – fin troppo esilmente – con quella di un altro ragazzo immigrato costretto a prostituirsi per un ricco signore che lo mantiene. E’ una parabola sull’emarginazione dei diversi, immigrati come omosessuali, e sul razzismo che ancora è presente nella società coreana. Vuole essere anche un sottile e tragico inno alla riunificazione delle due Coree ma è rovinato da una messa in scena pretestuosa e fin troppo autoriale. Soprattutto nella seconda parte, il regista sembra voler seguire la lezione dello Tsai Ming-liang di Vive l’amour, ma senza averne la medesima capacità poetica e quella disperazione che muove i personaggi. Il bel finale simbolico che ricollega le due storie non basta per riscattare un film ostico da seguire e una sceneggiatura esilissima, nella quale il cambio repentino tra prima e seconda parte (con relativa sparizione di quelli che erano i protagonisti) crea un senso di straniamento nello spettatore che fa precipitare la partecipazione.
LIFE WITHOUT PRINCIPLE
di Johnny To
Duo mingjin, Hong Kong, 2011, 107 min. voto: ★½ /4
IN CONCORSO
Johnny To si sarà anche stufato di girare quel tipo di thriller e polizieschi per i quali è diventato famoso, ma il prodotto di questo nuovo corso non si può certo dire riuscito, nè suscita molto interesse. Ancora una volta si tratta di una storia con personaggi le cui vicende si intrecciano attorno ad un perno costituito da 10 milioni di dollari vaganti. To rinuncia alle pistole e alla violenza per puntare tutto su tematiche sociali con la crisi finanziaria in primo piano, ma viene tradito proprio da questa sua velleità, si potrebbe dire autoriale, di elevare il film di genere a pamphlet politico fin troppo esplicito ed insistito, producendo così scene assolutamente fuori luogo come i 20 minuti di spiegazioni economiche date da una delle protagoniste. Nonostante la solita professionalità della confezione e qualche – rara – trovata degna delle sue prove migliori, la sceneggiatura fiacca e sfilacciata non coinvolge e l’incastro dei personaggi rimane solo sulla carta, basandosi semplicemente su situazioni che mettono in pericolo la morale individuale. La “vita senza principi” del titolo, però, è tutt’altro che approfondita e non emerge mai quel senso etico, nel bene o nel male, che aveva reso i suoi polizieschi così vibranti.
DAMSELS IN DISTRESS di Whit Stillman
USA, 2011, 100 min. voto: ★½ /4
Quattro ragazze decisamente sui generis amano frequentare i loser dell’università, perchè più appaganti, e sostengono un programma per aiutare studenti depressi con ciambelle e corsi di danza. Le loro certezze, o almeno quelle della capogruppo (Greta Gerwig), sono destinate però a essere messe in discussione, mentre alcuni ragazzi (tra cui l’eterno fanciullo Adam Brody) si avvicendano nelle loro vite e sullo sfondo rimane la grottesca descrizione dell’ambiente universitario americano. Girato con lo stile di una banale commedia di ambiente collegiale con inserti da musical degli anni Cinquanta, Damsels in distress possiede personaggi dalle psicologie non convenzionali e situazioni che spingono spesso verso una comicità assurda e surreale. In realtà l’affresco di Stillman sui college americani non si distanzia mai davvero da pellicole simili (ma con meno pretese) e la sua palese ambizione ad essere una commedia intelligentemente stupida produce più cadute di tono che momenti brillanti, sempre enfatizzati dal regista e da una sceneneggiatura che crede di essere inventiva . Ma se alcune trovate colpiscono nel segno (i catari), altre sono esagerate (i colori) nel descrivere una gioventù gretta e ignorante e sembrano messe in scena come per fare l’occhiolino allo spettatore “intelligente” e riderne con lui. In realtà il film di chiusura di questa 68° Mostra non regala molto altro che qualche sorriso e un pò di noia, soprattutto a chi non è molto votato al versante romantico della vicenda.
EDA